L’inganno palestinese: 75 anni di bugie riciclate contro Israele

di Luigi Giliberti - 28 Ottobre 2025 alle 11:18

Ci sono narrazioni che diventano dogmi. Si ripetono così tante volte, da così tante bocche, che finiscono per sembrare verità. È la storia del conflitto israelo-palestinese: un racconto riscritto per decenni, stratificato di falsi, e digerito dall’opinione pubblica come vangelo. Eppure, scavando appena sotto la superficie, quello che emerge è un castello di carte: propaganda, omissioni e manipolazioni che hanno ribaltato i ruoli di vittima e carnefice.

Il termine “palestinese”, ad esempio, non è antico né biblico. Non è il lascito di un popolo secolare cancellato dall’invasione ebraica. È un’invenzione politica recente, partorita negli anni ’60 dall’OLP di Yasser Arafat per costruire un’identità contrapposta a Israele. Prima, quell’etichetta designava semplicemente chi viveva in Palestina: arabi, ebrei, cristiani, senza distinzione. È un dettaglio che basta a smontare decenni di retorica sulla “nazione rubata”.

Poi c’è la questione delle terre. La leggenda vuole che gli ebrei abbiano “espropriato” e “strappato” gli ulivi e i campi agli arabi. I documenti dicono altro: acquisti regolari, a prezzi altissimi, da proprietari arabi che non avevano alcun problema a vendere. Nessun furto, nessuna colonizzazione da manuale. Solo compravendite che hanno trasformato deserti in campi fertili. Ma questa verità non fa comodo a chi campa di slogan.

Le guerre? Altro mito consolidato. Israele dipinto come aggressore permanente, come potenza occupante assetata di sangue. La realtà è più scomoda: tutte le guerre sono iniziate con attacchi arabi. Dal 1948 in poi, ogni conflitto è stato una risposta. Difensiva, dura, spesso brutale, ma difensiva. Chi racconta il contrario cancella la sequenza dei fatti per sostituirla con un copione emotivo: il “gigante” israeliano contro il “popolo” palestinese. Una fiaba utile per i palcoscenici dell’ONU.

E il dramma dei profughi? Altro nervo scoperto. Non furono gli israeliani a cacciarli. Furono i leader arabi stessi a incitarli a fuggire nel 1947-48, con la promessa di un rapido ritorno dopo la distruzione di Israele. Una promessa mai mantenuta. Quegli stessi leader, poi, si rifiutarono di accoglierli nei loro Paesi. Razzismo puro, cristallizzato nei campi profughi che ancora oggi esistono non per necessità, ma per convenienza politica: un serbatoio di vittime per la propaganda.

L’accusa più ricorrente è quella dell’“occupazione”. Ma i territori contesi sono frutto di guerre difensive vinte da Israele, e l’idea che Israele non abbia mai restituito nulla è una menzogna. Ritiri ce ne sono stati: Sinai, Gaza, porzioni di Cisgiordania. Ogni volta in cambio di una sola richiesta: pace. Ogni volta tradita dal terrorismo, dai razzi, dalle intifade.

Intanto, l’Occidente beve mappe false, foto manipolate, immagini di bambini riciclate a ogni guerra e spacciate come nuove. Fake news che rimbalzano dai social alle prime pagine, dove non conta verificare, ma solo alimentare indignazione a senso unico. Israele difende i suoi confini? È apartheid. Costruisce barriere contro kamikaze e razzi? È “muro dell’odio”. Peccato che il 90% sia rete e non cemento, ma la precisione qui non serve: serve l’immagine.

Dal petrolio agli accordi diplomatici, dal potere finanziario alle università, la narrativa anti-Israele è stata instillata a colpi di finanziamenti e pressioni. Anche presidenti americani come Carter e Obama hanno piegato le loro agende a questo gioco, vendendo l’immagine di Israele come problema, mai come alleato. Eppure Israele resta l’unico Paese della regione che conosca davvero il significato di elezioni libere, di dibattito parlamentare, di società aperta. Imperfetta, certo, e segnata da errori. Ma radicalmente diversa dai regimi autoritari che l’hanno sempre circondata.

La verità è che “la causa palestinese” è diventata un’industria. Una macchina di menzogne redditizia, alimentata da ONG, intellettuali in cerca di applausi e governi arabi che preferiscono un nemico esterno piuttosto che fare i conti con la propria corruzione. Una favola tossica che dura da 75 anni e che non smette di trovare terreno fertile nell’Occidente in cerca di battaglie facili.

“L’inganno palestinese” di Tanio Romano rompe questo incantesimo. Non è un libro che si limita a raccontare. È un atto d’accusa contro un conformismo intellettuale che ha deciso da tempo da che parte stare, ignorando fatti, date e documenti. È scomodo, perché toglie alla propaganda le armi più potenti: le menzogne travestite da verità storiche. Il risultato? Una narrazione ribaltata, che costringe a guardare Israele per quello che è sempre stato: un Paese che si difende, non un invasore. E i palestinesi per quello che sono diventati: ostaggi di una leadership corrotta, di un’identità costruita a tavolino, di un eterno vittimismo che serve solo a coprire la resa dei conti mai fatta con la storia.

Questa è la vera storia. Quella che nessuno vuole ascoltare perché spezza la favola comoda del “buono” contro il “cattivo”. Ma è anche l’unica storia che regge davanti ai fatti.

Il grande archivio di Israele

Abbonamenti de Il Riformista

In partnership esclusiva tra il Riformista e JNS

ABBONATI