L’ultimo ebreo di Vinnitsa non è più un mistero: identificato l’ufficiale delle SS nella foto simbolo della Shoah

di Paolo Crucianelli - 15 Ottobre 2025 alle 14:09

Per oltre ottant’anni la foto nota come “L’ultimo ebreo di Vinnitsa” è stata una delle immagini più agghiaccianti della Shoah, riprodotta in centinaia di libri, riviste e musei. Ritrae un uomo ebreo inginocchiato sul bordo di una fossa comune, lo sguardo perso in lontananza, mentre un ufficiale delle SS gli punta la pistola alla nuca. Sullo sfondo, almeno venti soldati e ufficiali tedeschi osservano la scena con indifferenza. Sul terreno, un cumulo di sabbia e decine di corpi già ammassati nella fossa completano il quadro.

Fino a oggi, quella fotografia rimaneva avvolta nel mistero: non si sapeva chi fosse la vittima e, fino a non molto tempo fa, anche la data e il luogo preciso erano incerti. L’unico indizio era la didascalia vergata a mano sul retro di una copia: “L’ultimo ebreo di Vinnitsa”. Ora una ricerca dello storico tedesco Jürgen Matthäus getta nuova luce e fornisce un’identificazione precisa. L’uomo con il berretto e gli occhiali che sta per sparare si chiamava Jakobus Oehnen, nato nel 1906 in un villaggio vicino al confine olandese. Prima della guerra era un insegnante di lingue e di educazione fisica. Ma con l’ascesa del nazismo aveva aderito alle SA, poi alle SS, e nel 1941 si trovava in Ucraina come membro delle unità mobili di sterminio, gli Einsatzgruppen.

Secondo Matthäus, la foto non fu scattata a Vinnitsa ma a Berdychiv, importante centro del chassidismo ebraico, il 28 luglio 1941, tre settimane dopo l’arrivo delle truppe tedesche e pochi giorni prima che gli ebrei della città fossero rinchiusi nel ghetto. Oehnen era parte di una squadra di circa 700 uomini incaricata di “ripulire le retrovie” durante l’avanzata in Unione Sovietica. Entro l’autunno del 1942, il suo reparto aveva già ucciso oltre 100.000 civili, in gran parte ebrei. Hitler stesso, in visita in Ucraina nell’agosto 1941, si congratulò con quegli uomini per l’efficienza dimostrata.

Lo studio di Matthäus si basa su documenti ritrovati negli archivi del Museo dell’Olocausto di Washington, in particolare il diario di guerra di un ufficiale della Wehrmacht, Walter Materna, che descrisse con linguaggio burocratico i massacri di quei giorni: 300 ebrei fucilati il 27 luglio, altri 180 il 28. Lo stesso Materna aveva conservato il negativo della fotografia, annotando sul retro: “28 luglio 1941. Esecuzione di ebrei da parte delle SS. Fortezza di Berdychiv”.

La conferma definitiva è arrivata grazie all’incrocio con fotografie di famiglia fornite da un discendente e all’uso dell’Intelligenza Artificiale: un’analisi biometrica ha stabilito con il 99% di probabilità che il tiratore fosse proprio Oehnen, morto in combattimento nel 1943.

La vittima, invece, resta senza nome. Un uomo qualunque, probabilmente uno dei 20.000 ebrei che abitavano Berdychiv prima della guerra, di cui solo quindici sopravvissero fino all’arrivo dell’Armata Rossa nel 1944. L’immagine, resa celebre durante il processo Eichmann del 1961, continua a colpire per la nitidezza con cui mostra non solo la vittima, ma anche i carnefici: visi sereni, atteggiamenti rilassati, un ufficiale che sembra in posa con gli stivali lucidati e la pistola puntata. Una foto che documenta la “Shoah dei proiettili”, lo sterminio a colpi di fucile che precedette le camere a gas, e che ricorda come la banalità del male si consumasse alla luce del sole, sotto gli occhi di decine di testimoni.

Grazie al lavoro di Matthäus, quell’immagine non è più soltanto un simbolo muto. Ha un contesto, una data, un nome per il carnefice. Manca ancora il nome della vittima, l’uomo inginocchiato al bordo della fossa. Ma forse è proprio questa assenza a rendere la foto universale: quell’uomo anonimo rappresenta i milioni di ebrei uccisi nei campi e nelle fosse comuni, la cui identità individuale è stata cancellata dalla violenza nazista.

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