Editoriali

Mentre le altre democrazie si voltano, Israele combatte per l’intero Occidente

di HaKol - 9 Settembre 2025 alle 12:52

Dal quadro attuale (includendovi l’incontro di Tanjin e l’esibizione al mondo di un asse Cina-Russia-India) risaltano in maniera impressionante tre dimensioni della debolezza dell’Occidente cis- e trans-atlantico, ovvero del sistema di civiltà (civilizations) a maggioranza cristiana e democratica. E sono: la frattura interna, moralmente immobilizzante, tra Politica e Critica; l’odio di sé, il Selbsthass spesso diagnosticato, come auto-colpevolizzazione per il proprio protagonismo nella storia mondiale; infine l’accidia delle civiltà senza scopi.

In più, una diffusa Kultur accusa l’Occidente di essere sempre e costitutivamente l’aggressore (anche l’11 settembre!), ovvero di fingere a sé stesso di avere Nemici. Eserciti e polizie sono relegate, non senza ipocrisia, al ruolo di parte malvagia delle società. Il ridicolo di tutto questo non fa problema. Ne consegue una drammatica e sperimentata difficoltà nel difendere noi stessi negli stati di emergenza.
Dallo stesso quadro risulta, allora, evidente che Israele è l’unica parte o parcella dell’Occidente che riconosce il Nemico e -oltre una certa soglia- ne trae le conseguenze legittime: rispondere, attaccare, distruggere. Israele è l’unica parcella dell’Occidente che combatte e, come si è detto bene, combatte per tutto l’Occidente.

Altre parcelle dell’Occidente stanno a mezza strada, nell’incertezza della diagnosi e nella ripugnanza per le conseguenze. Altre sono prone al Nemico, pensando che sia più conveniente l’acquiescenza o negando che il Nemico comunque rappresenti un rischio. Altre parti, anzitutto gli Usa, contando sulla propria forza, oscillano contingentemente tra minaccia e trattativa, ma non si possono accusare di ignavia. Altre sono decisamente dalla parte del Nemico, contando sulla sua magnanimità.
Colpisce per l’ennesima volta la capacità diagnostica della fabulazione di J.R.R.Tolkien. La parte che sta col Nemico, trasversalmente alle diverse formazioni sociali e ideologiche e con diversa (comunque ridotta) consapevolezza, è spesso la stessa sub-cultura che si vuole portatrice di “critica al potere” ed è ormai ubiquitaria; troppo occupata dalla figura del Potere cerca nella storia alleati per sconfiggerlo e li trova ovunque e indiscriminatamente (terroristi, marginali, “diversi” di ogni genere, criminali). Anche se è espresso con linguaggi non politici, almeno rispetto all’ideologia rivoluzionaria del dopoguerra, il terrore della auto-alienazione ci fa guardare al mondo fuori di noi come al Salvatore. Si tratta di una sindrome che forse colpisce solo l’intelligencija, ma nella postmodernità l’intelligencija stessa, ovvero la vocazione di rivelare la verità delle cose umane occultata dai potenti, dilaga.

Israele è l’unica nostra parcella combattente, dunque. Sa che ai propri confini nessuno vuole la sua salvezza, anche se alcuni si sono adattati a non volerne la distruzione. Molti, non tutti. E questo resto di nemici mortali è sempre attivo. Certo, in Israele vi è anche una parte, militante e ostile alla condotta combattente (e questa parte è, con comprensibile incoerenza, rafforzata dalle famiglie degli ostaggi); agisce come resistenza etica e politica, idealistica quanto suicida. Tanto sono diffuse in tutto l’Occidente le forme della negazione di sé, che è stupida oblazione di sé presente o futura, da raggiungere anche la società israeliana. Questa opposizione interna è, in effetti, una quota dell’Occidente che ovunque si auto-fustiga e si eccita come vivesse in una seconda realtà. Lo “spirito democratico” -non le istituzioni democratiche- oggi è, in grandi aree, un galleggiamento utopico in una storia quotidianamente travisata.

L’Israele dell’infamato presidente Netanyahu ha la capacità della decisione strategica, e il coraggio, poiché si affida ad una superiorità militare necessaria ma in sé non sufficiente nelle guerre ibride. Si tratta di sradicare il Nemico, che esiste, e porre le premesse materiali di una pace nella sicurezza nel Vicino Oriente. Ritengo che questa esemplare capacità di decisione dovrà trasferirsi dal livello geopolitico regionale al macro-Occidente. Varrebbe già come un deterrente. L’abisso che separa la mia diagnosi, e certo non solo mia, dall’atteggiamento diffuso di deprecazione anti-ebraica negli ultimi anni (ricorrente in tutte le crisi medio-orientali in cui Israele abbia combattuto, almeno dal 1967 ad oggi) mostra quanto sia lontano l’Occidente delle democrazie da una avvertenza del rischio che incombe sulla sua integrità e libertà. La sollevazione ‘morale’ delle anime buone, non meno che di quelle ‘belle’, per le sofferenze umane di una guerra che non riconoscono tale, dovuta a un nemico che non vedono tale (le spietate insorgenze terroristiche oggi guidate e alimentate dall’Iran), è una tragedia nella tragedia. È come avessimo in odio le nostre facoltà reattive e alimentassimo di ‘buoni sentimenti’ (ma lo sono veramente?) la nostra attesa inerte di un futuro di servitù.

Il grande archivio di Israele

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