Moralità di guerra: una scelta difficile ma necessaria
di Paolo Crucianelli - 31 Agosto 2025 alle 13:48
Avi Bareli è storico e ricercatore presso il Ben-Gurion Institute for the Study of Israel and Zionism all’Università Ben-Gurion del Negev, nonché curatore della rivista multidisciplinare Iyunim. Si occupa della storia politica d’Israele e del sionismo. Nell’editoriale intitolato “The difference between morality and ‘war morality’”, Bareli distingue con lucidità tra morale e moralismo, esortando a pensare in termini strategico-morali e non emotivo-normativi. Con questa espressione si intende un approccio guidato dall’emotività e da princìpi morali astratti applicati rigidamente, senza considerare le complesse conseguenze reali sul campo. Il suo messaggio è chiaro: la moralità in guerra richiede visione di lungo termine, non sentimentalismi che, pur mossi da buone intenzioni, finiscono per alimentare la sofferenza che vorrebbero evitare.
Dalla guerra di Gaza emergono fatti concreti che confermano questa critica. L’operazione “Carri di Gedeone”, concepita per isolare Hamas e salvare gli ostaggi, è stata eseguita con esitazione. Non è stato creato un corridoio umanitario per trasferire i civili dal nord al sud della Striscia, con il risultato che Hamas ha mantenuto il controllo del nord e gli aiuti umanitari non hanno potuto raggiungere quelle comunità. Ne è derivata una filtrazione sistematica degli aiuti da parte di Hamas, che se ne è appropriato usandoli a proprio vantaggio e rivendendo alla popolazione stremata le rimanenze. Questo stratagemma ha permesso sia di fornire sussistenza alimentare e finanziaria ad Hamas che a permettergli di inscenare immagini strazianti di carestia, contribuendo a un danno d’immagine per Israele ben più grave di quello strategico. Il risultato è stato alimentato da accuse internazionali di “fame programmata” e da una campagna di calunnie contro lo Stato ebraico.
Il moralismo indotto dall’esterno da “buonisti” o da una sinistra emotivamente reattiva ha contribuito a creare una narrazione globale che ha ferito più di quanto volesse curare. Per “sinistra emotivamente reattiva” si intende quella parte dell’opinione pubblica progressista che reagisce sulla base di emozioni forti e immediate — spesso legate alle immagini di sofferenza, peraltro quasi sempre abilmente pilotate — senza approfondire il contesto o considerare la complessità della situazione. In questo quadro, la critica ideologica e il giudizio morale hanno spesso impedito scelte pragmatiche che avrebbero potuto salvare vite: come evacuazioni rapide, creazione di corridoi umanitari, distribuzione sicura di aiuti, apertura di vie d’emigrazione per chi voleva allontanarsi dalla guerra. Queste iniziative comportano rischi, ma in uno scenario devastante producono meno danno della paralisi emotiva.
Questo non significa giustificare qualunque scelta militare: significa agire con responsabilità e con coraggio morale. La moralità in guerra non è cieca, non implica un “a ogni costo”, ma nemmeno coincide con una resa passiva alle richieste del mondo esterno. È una forma più alta di etica: quella che guarda in faccia la realtà, stabilisce obiettivi salvifici e si assume i rischi necessari per raggiungerli. In questo senso, si può parlare di una moralità di guerra, distinta dal moralismo buonista che, al contrario, separa, erige muri emotivi e finisce per distruggere le stesse possibilità di salvezza che vorrebbe difendere.
Avi Bareli ci invita quindi a ridefinire il concetto di moralità, che non può restare astratto ma deve necessariamente confrontarsi con la realtà. In un contesto come la guerra a Gaza – uno degli scenari bellici più complessi degli ultimi decenni – anche la bussola morale deve orientarsi verso una visione d’insieme e un obiettivo chiaro: costruire le condizioni per una pace duratura, non per altri ottant’anni di conflitto intermittente.