Perché non ci sarà il “nuovo processo di Norimberga” contro Israele e Netanyahu

di Paolo Crucianelli - 21 Ottobre 2025 alle 12:41

Con la tregua a Gaza e la prospettiva, per la prima volta in due anni, di una pace possibile, parte della sinistra ha dovuto cambiare copione. Terminata la benzina fornita dalla guerra a Gaza, serviva nuovo carburante per alimentare la piazza. Ed ecco allora arrivare l’invocazione della “giustizia”. Una giustizia indefinita, mai spiegata, ma evocata come un mantra, come un totem morale. “Netanyahu dovrà rispondere dei suoi crimini, e con lui il suo governo”, ripetono certi eurodeputati, certi capi di partito, certi opinionisti. Ma nessuno spiega chi dovrebbe eseguirla, dove dovrebbe tenersi il processo, o in base a quale diritto. Perché la verità è semplice: quel processo non ci sarà mai. E lo sanno anche loro.

La Corte Penale Internazionale, a cui forse fanno riferimento i nostrani Pasdaran, non dispone di un esercito, né di una polizia giudiziaria. Israele non ne riconosce la giurisdizione, così come non la riconoscono Stati Uniti, Russia, Cina, Iran e molti altri Stati del mondo. Nessuno Stato occidentale, né tantomeno uno arabo, arresterà mai il premier israeliano per consegnarlo all’Aia. Tutti lo sanno, anche quelli che oggi lo invocano a gran voce. Ma il punto non è la giustizia: è continuare la narrazione.

Invocare processi impossibili serve a non chiudere mai il ciclo dell’indignazione e della protesta. Serve a rimanere “dalla parte giusta della storia”. È un modo per spostare il discorso politico dal piano dei fatti a quello della colpa morale. Finita la guerra, si passa alla fase due: “Chi paga?”. E poiché la risposta non può essere trovata nella realtà, si costruisce una giustizia immaginaria, un nuovo processo di Norimberga virtuale, che esiste solo come strumento di lotta ideologica. Una giustizia selettiva, che giudica Israele ma non Hamas, che chiede processi a Netanyahu ma tace sui carnefici del 7 ottobre, in perfetta coerenza con il racconto immaginario che è stato perpetuato durante i due anni di conflitto. È esattamente lo stesso schema: prima, se non condannavi il “genocidio”, eri complice. Adesso, se non ti allinei alla richiesta di processare i “carnefici”, sei di nuovo complice.

Non importa se la CPI ha già emesso un mandato inapplicabile, non importa se i meccanismi giuridici lo rendono inutile. L’importante è mantenere viva la rabbia, continuare a muovere le piazze, spostando l’attenzione dalla realtà alla rappresentazione morale di cui loro, ovviamente, si considerano gli unici detentori.

La giustizia, quella vera, si fonda su prove, tribunali e giurisdizioni riconosciute e applicabili. Quella evocata da certa sinistra, invece, si fonda sulla piazza e sull’indignazione collettiva. Se la piazza protesta, allora è giusto. È una giustizia emotiva che non cerca equilibrio ma espiazione. E così, mentre Israele e gli Stati Uniti trattano per stabilizzare la regione, qui si continua a processare simbolicamente lo Stato ebraico nei talk show e nelle piazze.

Chi chiede “giustizia per Gaza” farebbe bene a chiedersi prima che cosa intende. Se è il diritto internazionale, non funziona a comando. Se invece è solo un modo per riaccendere la miccia dell’odio politico, allora si tratta di propaganda che, come la storia insegna, è l’esatto opposto della verità.

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