Rassegna stampa del 1 dicembre 2025
La rassegna di oggi mostra un panorama mediatico dominato da due direttrici: da un lato la cronaca delle violenze in Cisgiordania, con molti giornali che mettono l’accento esclusivamente sulle responsabilità israeliane; dall’altro una serie di analisi politiche incentrate su Netanyahu, spesso presentato in chiave personale più che nel contesto strategico del Paese.
Colpisce la continua insistenza di diverse testate italiane sul paradigma del “colono violento”, raramente accompagnata da fonti plurali o da una ricostruzione completa delle dinamiche sul terreno, mentre quasi nessuno ricorda il ruolo destabilizzante delle reti pro-Hamas nella regione.
In questo scenario, spiccano alcune voci che denunciano l’antisemitismo crescente nel discorso pubblico, mentre altre insistono su narrazioni ideologizzate che delegittimano Israele a priori. Il risultato è una fotografia disomogenea: poche analisi articolate, molta semplificazione, e un’evidente difficoltà nel distinguere critica politica legittima da propaganda anti-israeliana.
Quando l’informazione nutre l’odio antisemita
È l’articolo più solido: denuncia con rigore come porzioni del discorso mediatico normalizzino narrazioni antisemite e presentino Israele come aggressore a prescindere. L’autrice richiama fatti, non slogan, e sottolinea la responsabilità dei media nel non alimentare pregiudizi antiebraici.
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di Fiamma Nirenstein
Quando l’informazione nutre l’odio antisemita
Le parole dell’Albanese dopo l’attacco alla Stampa (giornale in cui ho lavorato per decenni e a cui sono affezionata) sono un invito a colpire i giornalisti che non scrivono quello che piace a lei. Ovvero che non si piegano, e ce ne sono, alla propaganda quotidiana che i media italiani e internazionali, in maggioranza, hanno fornito al posto dell’informazione sui due anni di guerra di Israele contro Hamas. C’è però qualcosa di giusto in quello che dice, alla rovescia: un monito non a esaltare la demonizzazione per scampare le botte, come la diva palestinista suggerisce, ma invece a ripensare qual è stato il messaggio prescelto, per chi è stato scritto. Per restare moralmente integri. L’informazione malata ha creato un antisemitismo degno degli anni ’30. Ha rovesciato l’idea stessa di diritti umani, ha manipolato l’opinione pubblica fino a generare l’ondata di violenza anti israeliana, anti ebraica, anti democratica. Il nostro Paese, magnifico per tanti aspetti, qui riempie di sgomento tutta la scena mondiale. L’Italia è l’unico Paese in cui il sindacato abbia indetto uno sciopero generale per la Palestina, l’unico in cui un segretario di partito, Rifondazione Comunista, esprime ieri «indignazione» contro i «mass media che fiancheggiano il genocidio». L’intero panorama nazionale è infestato dalle bandiere di Hamas, da slogan che esprimono l’ignoranza di folle che vedono il sionismo come un movimento colonialista e non come il ritorno a casa dell’unico popolo aborigeno sempre rimasto abbarbicato a Gerusalemme. La Stampa è stata aggredita e di questo non possiamo che infuriarci. Ma occorre pensare: secondo una ricerca presentata dal professor Sergio Della Pergola in una grande conferenza sull’antisemitismo indetta al Cnel dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, il giornale torinese è la testata italiana che più di ogni altra, dal 7 di ottobre al 19 settembre 2025, ha tenuto un marcato atteggiamento di propaganda antisraeliana. Editorialisti come Vito Mancuso, Anna Foa, Ilan Pappè, Rula Jebreal hanno dato il tono con un’autentica sistematica demonizzazione. La Stampa, nonostante la tradizione moderata e progressista, ha prevalentemente descritto in un flusso continuo gli atti di Israele come violenti, malvagi, punitivi; la ferocia di Hamas è sfumata nella descrizione delle condizioni di un popolo che certo ha sofferto la guerra ma che per quel quotidiano è vittima di genocidio, crimini di guerra, apartheid. Della Pergola nota che è stato oscurato il contesto storico e politico, si è dimenticato presto il 7 ottobre come la determinazione programmatica a distruggere Israele e l’uso di scudi umani. Fra i vari titoli: «Israele blocca anche le nascite», dopo un titolo che intende spiegare «come funzionano gli attacchi di Israele», il sommario spiega che «ha fatto strage di civili, una pratica standard dell’esercito israeliano»; «Si stringe la morsa di Israele»; quello molto espressivo che cita Rula Jebreal: «Israele non vuole la pace ma il dominio»… sono usuali. Il direttore della Stampa Andrea Malaguti, che al convegno ha difeso strenuamente il suo giornale, naturalmente si risente dell’attacco alla redazione, ed è ovvio che ritenga che le scelte del suo giornale ispirate da professionalità. Ma si sbaglia. Ciò che è accaduto dovrebbe accendere una luce per tutti quelli che cercano lo sfondo di una realtà a senso unico: quella realtà è piena di violenza, terrorismo, odio per la nostra stessa società democratica. Di Ghandi, che il direttore cita, ai suoi aggressori importa ben poco: a noi giornalisti deve importare il declino conoscitivo che ha portato alla violenza dei giovani vandali, e allo stravolgimento della più banale comprensione della realtà dei fatti, e il declino morale di quelle folle guidate da ignoranti. Riapriamo l’accesso all’informazione, dunque, non scriviamo per piantare le bandiere palestinesi in Europa, non ammicchiamo alla semplificazione del senso di colpa verso il terzo mondo, ai comunisti, ai fascisti, agli jihadisti e agli antisemiti. Questi sono gli aggressori e purtroppo in parte anche i lettori della Stampa.
Netanyahu chiede la grazia. Attivisti italiani aggrediti dai coloni in Cisgciordania
L’articolo mantiene un’impostazione orientata sul conflitto politico interno, senza contestualizzare la pressione internazionale e la minaccia di Hamas che incorniciano la situazione. Manca un accenno alle ragioni strategiche che incidono sulle scelte di Netanyahu. Nel complesso, informativo ma parziale.
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di Gabriella Colarusso
Netanyahu chiede la grazia. Attivisti italiani aggrediti dai coloni in Cisgciordania
Niente più accuse, processi, interrogatori: Benjamin Netanyahu vuole il perdono. «Chiedo di prendere in considerazione la concessione della grazia allo scopo di lasciarmi continuare a operare interamente per il bene dello Stato di Israele, senza che il processo giudiziario in corso continui a dividere il popolo e a influenzare decisioni governative», ha scritto il premier israeliano in una lettera indirizzata al presidente Isaac Herzog, invocando la «riconciliazione nazionale» impedita – a suo dire – dai processi in cui è coinvolto, che «ci lacerano dall’interno, alimentano divisioni e approfondiscono le fratture». Sostiene anche, Netanyahu, che l’obbligo di comparire in tribunale tre volte a settimana gli renda difficile guidare il Paese. Rivendica la sua innocenza, dunque, non ammette colpe né chiede scusa: «Nonostante il mio interesse personale a portare avanti il processo e a dimostrare la mia innocenza fino alla piena assoluzione, credo che l’interesse pubblico imponga diversamente». Netanyahu, 76 anni, è il premier più longevo della storia di Israele e anche l’unico a essere processato, sotto accusa in tre procedimenti diversi perché avrebbe accettato beni di lusso per oltre 260mila dollari da ricchi finanziatori, tra cui sigari, gioielli e champagne, in cambio di favori politici; e avrebbe tentato di ingraziarsi il favore di due media. Ha sempre definito le accuse una caccia alle streghe motivata da ragioni politiche, una cospirazione dello “stato profondo” per eliminarlo dalla scena politica. Il tentativo del suo governo, prima del 7 ottobre, di far passare una radicale riforma della giustizia che secondi i critici annullava l’indipendenza della Corte suprema, spaccò il Paese e aprì una profonda crisi istituzionale. L’ufficio del presidente ha fatto sapere che esaminerà la richiesta di grazia «consapevole che comporta implicazioni significative». Herzog può concederla solo dopo una eventuale condanna, ma in casi di interesse nazionale anche durante il processo. Poche settimane fa, del caso aveva parlato anche il presidente americano Trump, con una lettera al presidente in cui invocava la grazia per l’amico Netanyahu. L’opposizione reagisce con toni differenti. Il leader Yair Lapid chiede al presidente di non graziare il premier «senza un’ammissione di colpa, un’espressione di rimorso e un ritiro immediato dalla vita politica». L’ex primo ministro Naftali Bennett, da molti considerato il principale avversario di Netanyahu alle prossime elezioni, alle quali il premier ha già annunciato che si ricandiderà, appoggia la grazia ma solo a condizione che Bibi si ritiri dalla vita politica. Per Yair Golan, che guida i Democratici, «solo N chi è colpevole chiede di essere graziato», mentre l’ong Movimento per un Governo di Qualità pone un tema più generale: graziare Netanyahu nel bel mezzo del procedimento legale sarebbe «un colpo mortale allo stato di diritto e al principio di uguaglianza davanti alla legge». Nel 2008, quando era a capo dell’opposizione, Netanyahu chiese all’allora primo ministro Olmert, coinvolto in uno scandalo di corruzione, di dimettersi perché non poteva guidare il Paese e avrebbe preso decisioni influenzate dai suoi interessi personali. Olmert si dimise, poi fu condannato e scontò 16 mesi di carcere.
Umm Kultum. Così Israele vuol scippare la “voce” del mondo arabo
L’articolo più schierato negativamente: linguaggio carico, tesi non supportate da fonti plurali, una narrazione che attribuisce a Israele intenzioni culturali ostili senza verifiche o confronto con dati reali. Nessun riferimento al ruolo dei gruppi estremisti nella manipolazione identitaria regionale. È il pezzo più ideologico e sbilanciato della giornata.
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di Fabio Scuto
Umm Kultum. Così Israele vuol scippare la “voce” del mondo arabo
Giù le mani da Umm Kultum. Si indignano e protestano gli egiziani perché un’orchestra israeliana vuole organizzare una serie di concerti in onore dell’icona della musica egiziana, gridano all’oltraggio per aver “rubato” il patrimonio culturale dell’Egitto. “Firqat Alnoor”, un’orchestra di musica classica araba composta da musicisti ebrei e arabi provenienti da tutto Israele, ha girato un video promozionale sulle dune di Dubai. Il video mostra l’orchestra mentre suona “Ghanili Shway Shway” di Umm Kulthum e include immagini dell’artista che canta, utilizzando spezzoni del film egiziano “Salama”. Mentre il videoclip faceva il giro del mondo arabo, sui social media si sono moltiplicati i post che accusavano l’orchestra israeliana di appropriarsi della cultura egiziana. La famiglia di U m m K u lthum ha condannato il video, promettendo azioni legali. Umm Kulthum, a volte soprannominata la “Quarta Piramide” d’Egitto o “la signora del Cairo”, è stata una delle cantanti più venerate del mondo arabo, compresi gli ebrei mizrahi – quelli originari di Paesi arabi e nordafricani – con la sua voce profonda e risonante, le sue romanze che durano ore. Si esibì ad Haifa negli anni ‘30, quando la città faceva parte della Palestina durante il Mandato britannico. Dopo la sconfitta dell’Egitto contro Israele nella Guerra dei Sei Giorni del 1967, Umm Kulthum scelse canzoni con temi di orgoglio nazionale e una con testi sulla riconquista della Palestina. Morì otto anni dopo, nel febbraio 1975, all’età di 76 anni. Il suo funerale fu un evento nazionale e popolare senza precedenti in Egitto, a cui parteciparono oltre quattro milioni di persone. La sua voce non era semplicemente uno strumento per cantare: era uno specchio che rifletteva l’anima di un’intera nazione. Risuonava la coscienza collettiva del suo popolo, dando voce ai suoi sogni e ai suoi dolori. Umm Kulthum ha trasceso il ruolo di attrice e cantante per diventare un’i c on a culturale e nazionale, la voce del mondo arabo nei suoi momenti più significativi. Il direttore israeliano di “Firqat Alnoor”, Ariel Cohen, sostiene che Umm Kulthum non è mai stata una nemica, ma per i fan della “Stella d’Oriente” l’oltraggio resta.
O Greta o Gerusalemme
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di Giulio Meotti
O Greta o Gerusalemme
Il mio paese è noto per i mobili Ikea, qualche tennista e, naturalmente, per gli Abba” scrive sulla Free Press la giornalista svedese Annika Hernroth-Rothstein. “Oggi, il nostro prodotto d’esportazione più famoso è Greta Thunberg, che era stata accettata da molti come una sorta di coscienza mondiale: una ragazzina che diceva la verità al potere. Thunberg è un fenomeno. Ma, cosa ancora più importante, è un caso di studio di ciò che è andato storto in Svezia e nel resto d’Europa negli ultimi decenni. È una bambina perduta in un continente perduto, entrambi alla disperata ricerca di uno scopo. Ottant’anni fa, sulla scia della Seconda guerra mondiale e dell’Olocausto, gran parte dell’Europa giaceva devastata. Con l’inizio degli sforzi di ricostruzione, si è aggiunta una resa dei conti ideologica e filosofica. Come continente, l’Europa si è chiesta come il male si fosse impossessato di lei e come garantire che non si ripetesse mai più. Come per ogni autopsia, la caccia era aperta per una causa di morte definitiva, un colpevole chiaro da incolpare per le atrocità della guerra mondiale. Accettare che persone apparentemente normali in circostanze straordinarie possano fare cose terribili è insoddisfacente. Significa accettare che ci sia del bene e del male in questo mondo e in tutti noi. Ecco perché l’Europa decise che il colpevole era l’ideologia stessa. L’ideologia, fondata sulla fede religiosa e su un’identità definita, portò alla formazione di stati nazionali, confini e divisioni tra luoghi, persone e credenze. Questo, secondo l’idea del dopoguerra, fu ciò che causò il conflitto. Pensatori come Hannah Arendt, Jean-Paul Sartre, Albert Einstein, Jacques Derrida e Michel Foucault descrissero il nazionalismo e lo stato-nazione come pericoli morali e politici, sostenendo l’umanesimo globale e mettendo in discussione l’idea stessa di fondare un’identità condivisa sulla fede religiosa e sul sentimento nazionale. I leader politici dell’epoca seguirono l’esempio: il cancelliere tedesco Konrad Adenauer, il parlamentare europeo Altiero Spinelli e i politici francesi Robert Schuman e Jean Monnet sostennero l’idea di sostituire il nazionalismo con un’identità paneuropea, insieme a un ethos economico e culturale comune. E così un continente devastato dalla guerra, appena uscito da un conflitto globale su confini e identità, decise di abolire confini e identità, presumendo che questa sarebbe stata la strada verso una pace duratura. Questo gettò le basi per la successiva istituzione dell’Unione Europea nel 1993, sostituendo le singole nazioni con un’identità comune, quella europea. Gli anni successivi videro l’ascesa dello stato sociale in tutta l’Europa occidentale, con una forte componente filosofica che enfatizzava la responsabilità collettiva, la solidarietà e la giustizia sociale. Alla fine degli anni ‘60, le rivolte studentesche si diffusero in tutta Europa, fondendo anticapitalismo postcoloniale, antimperialismo, femminismo e umanesimo. Gradualmente, le giovani generazioni sostituirono le religioni del passato con l’ethos universalista. E il continente iniziò a considerarsi un modello per il resto del mondo: un’Europa senza confini, senza più nulla per cui combattere. Sulla carta, era il piano perfetto. Ma poi accadde qualcosa: si scontrò con la realtà. Quando la religione è stata espulsa dalle nostre vite, l’umanesimo e l’universalismo sono stati offerti come merce di scambio, creando un vuoto di fede e di significato – e vuoti, come sappiamo, che desiderano ardentemente essere colmati. Questo è accaduto in tutta Europa, ma forse in nessun luogo in modo più evidente che nel mio paese natale. Secondo l’European Social Survey 2023-24, meno del cinque per cento degli svedesi partecipa alle funzioni religiose almeno una volta alla settimana, una delle percentuali più basse al mondo. Dopo decenni di erosione ideologica e spirituale, la Svezia è ora un paese senza un Dio, un ethos nazionale o un senso di identità. Il paese in cui sono nata si rifiuta di sostenere qualsiasi cosa, e quindi cade in ogni cosa, ancora e ancora. Pensate alla crisi dei migranti. Nel 2015, la Svezia, un paese di dieci milioni di abitanti, ha accolto 163mila richiedenti asilo, provenienti principalmente da Siria, Afghanistan e Iraq. Nei successivi dieci anni, molti di questi immigrati non sono riusciti ad assimilarsi, causando sconvolgimenti sociali ed economici. Ciò è dovuto in gran parte al fatto che la Svezia non aveva un’identità nazionale. Non si può insegnare ciò che non si sa: questo è vero quando si cresce un figlio e quando si governa una nazione. A questo punto, la Svezia non è altro che una tenda aperta. Thunberg è un prodotto di questa nazione. Questo fornisce un contesto al cambiamento ideologico di Thunberg, nell’ottobre 2023, dall’attivismo per il clima all’attivismo anti-israeliano, un cambiamento a cui si sono uniti migliaia di altri in tutto il continente. Israele rappresenta l’esatto opposto del vuoto che l’Europa ha creato. E’ uno stato-nazione orgoglioso, con confini, fede, ideologia, scopi e ideali espliciti. Israele è tutto ciò che l’Europa un tempo rifiutava. Il suo successo sarebbe la prova che il cambiamento europeo è stato un fallimento, e lo è ancora. Ma Thunberg non si preoccupa di tutto questo. Il suo attivismo dovrebbe farmi arrabbiare, come ebrea svedese. Ma più di ogni altra cosa, mi spezza il cuore. Thunberg non è la malattia; ne è un sintomo, un sintomo del vuoto radicale che ora vediamo nelle nostre strade, feed dei social media e nei nostri figli. Lo so perché anch’io un tempo ero una ragazza svedese persa, desiderosa di appartenere a qualcosa più grande di me, desiderosa di un significato, di una comunità e di uno scopo. Come esseri umani, aneliamo a queste cose. Quando cresciamo in un luogo che ci dice che i valori sono il nemico, facciamo amicizia nei posti sbagliati. Fino ai miei vent’anni, tutti i miei amici facevano parte di un movimento radicale, che fosse femminista militante, ambientalista o pro-Palestina. Questo rifletteva il clima politico europeo dell’epoca. E avrei continuato così se l’attacco terroristico dell’11 settembre non mi avesse risvegliato dal conforto della noia europea e non mi avesse spinto a tornare alla fede e alla famiglia. Il problema della ribellione è che ha bisogno di qualcosa contro cui opporsi. Quando non c’è nulla contro cui ribellarsi, nessuna norma da contrastare, nessuna idea da mettere in discussione, l’energia della ribellione continua senza senso all’infinito. Invece del dibattito, rabbia infinita, e invece dell’ideologia, cause intercambiabili. Una volta finita la guerra, Thunberg passerà a un’altra questione. Dopotutto, è solo un segnaposto per un significato, un’inutile ideologia in un mondo privo di significato”.
Le alleanze disordinate di Gaza. Perché il piano Trump è fragile
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di Shlomo Ben-ami
Le alleanze disordinate di Gaza. Perché il piano Trump è fragile
I sistema di partnership regionali del presidente Usa è lacerato da profonde divisioni ideologiche e strategici Lasse Qatar-Turchia da una parte, il blocco saudita-emiratino-israeliano dall’altra. E resta l’incognita Egitto. Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump probabilmente non conosce nemmeno il libro di John Maynard Keynes del 1919, Le conseguenze economiche della pace, in cui si avvertiva che le dure condizioni imposte alla Germania dopo la Prima guerra mondiale — con i loro «presupposti economici ingiusti e impraticabili» — avrebbero destabilizzato tutta l’Europa. Ma il piano di pace per Gaza in 20 punti di Trump riflette una delle più importanti intuizioni di Keynes, espressa dall’avvertimento che «i pencoli del futuro non risiedono nelle frontiere e nelle sovranità, ma nel cibo, nel carbone e nei trasporti». Gaza non è mai stata al centro delle discussioni sul conflitto israelo-palestinese. Ma Trump vede l’enclave come il “punto di Archimede” da cui non solo può espandere l’impero commerciale della sua famiglia — una motivazione fondamentale alla base di gran parte della sua politica estera—ma anche consolidare le alleanze statunitensi in Medio Oriente e portare avana un grande programma di infrastnitture intemazionali in grado di contrastare la Belt and Road Initiative [Bri) della Cina. Investimenti alternativi. Queste ambizioni hanno preceduto di molto la guerra di Ga2aNel 2017, durante la sua prima presidenza. Trump ha raggiunto un accordo con il Giappone per offrire «alternative di investimento infrastrutturale di alta qualità nella regione indo-pacifica» e ha istituito una partnership volta a promuovere l’accesso universale a un’energia economica e affidabile nel Sud-est asiatico, nell’Asia meridionale e nell’Africa subsahariana. «In un mondo globalizzato», ha dichiarato l’allora segretario alla Difesa James Mattis, «ci sono molte cinture e molte strade, e nessuna nazione dovrebbe mettersi nella posizione di impone “One Belt, One Road”». L’ex presidente degli Stati Uniti Joe Biden si è occupato di infrastrutture nel 2022, quando ha istituito ³1 Gruppo I2Ü2 con India, Israele ed Emirati Arabi Uniti per concentrarsi su «investimenti congiunti e nuove iniziative in materia di acqua, energia, trasporti, spazio, salute, sicurezza alimentare e tecnologia». L’anno successivo, l’amministrazione Biden — insieme a Francia. Germania, India, Italia, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Unione Europea — si è impegnata a sviluppare un nuovo Corridoio economico India-Medio Oriente-Europa (Imec), volto a stimolare la crescita economica e lo sviluppo attraverso una maggiore connettività e integrazione. L’Imec si basa sul progetto Railways for Regional Peace del 2018, che collegherebbe Israele, Emirati Arabi Uniti, Giordania e Arabia Saudita tramite una ferrovia ad alta velocità. Aggiunge una rotta marittima dall’Indiaal Golfo Persicoecondutture per l’esportazione di gas, principalmente idrogeno verde, dall’India e dai paesi del Golfo all’Euiopa- Come ha detto la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, Ãé mec è più di «una semplice ferrovia o un semplice cavo»; èunwponteverde edigitale attraverso i continentieledvilta». Ma realizzare la visione dell’lmec non sarà un’impresa facile. Per cominciare, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti sono partner commerciali strategici della Ciña e fanno parte della Bri. Gli Emirati Arabi Uniti hanno anche aderito al gruppo Brics guidato dalla Cina nel 2024, mentre l’Arabia Saudita sta valutando l’adesione da quando è stata invitata nel 2023. Trump dovrà ora convincerli a prendere le distanze dai piani infrastrutturali cinesi per il Medio Oriente e a impegnarsi invece nella strategia sostenuta dagli Stati Uniti . Più fondamentalmente, il progresso della connettività richiede un Medio Oriente stabile, e questo presuppone una Gaza pacifica e ricostruita. Quindi, a differenza dell’amministrazione del presidente americano Woodrow tra le due guerre — che cedette alle pressioni isolazioniste inteme e si ritirò dal processo di pace in Europa, portando infine ad un altro conflitto — Trump è disposto a subire le critiche della sua base Maga per essersi troppo concentrato sugli affari esteri. Ha fatto leva sul potere americano per spingere gli attori regionali recalcitranti verso un accordo di pace che riflette la saggezza di Keynes. Piani poco chiari Ð piano di pace di Trump prevede non solo un cessate il fuoco permanente, il dispiegamento di una Forza internazionale di stabilizzazione temporanea [con mandato delle Nazioni Unite) e il disarmo di Hamas, ma anche la creazione di un’amministrazione civile palestinese di transizione e la ricostruzione e lo sviluppo economico di Gaza. Il piano afferma che Israele non occuperà o annetterà Gaza e che nessun palestinese sarà costretto a lasciare l’enclave. Sebbene il piano di Trump non delinei un percorso verso la creazione di uno Stato palestinese, esso riconosce comunque la sovranità come «l’aspirazione del popolo palestinese». Una volta che Ga2a sarà «riqualificata» e l’Autorità Palestinese sarà riformata, «potrebbero finalmente esserci le condizioni per un percorso credibile» verso questo obiettivo. Convincere il governo di estrema destra di Israele ad approvare, anche solo in linea di principio, un piano che includa un qualsiasi riferimento alla creazione di uno strato è un’impresa notevole. Ma questo è solo l’inizio. Il piano è più uno schema, che un progetto dettagliato, e la sua mancanza di chiarezza su come saranno gestite le varie lasi lascia ampio spazio a interpretazioni divergenti dalle diverse parti. Hamas ha già dichiarato che non rinuncerà alle armi, e sia Hamas che Israele probabilmente si opporranno a molti altri elementi del piano. Il cessate il fuoco rimane fragile. inoltre, l’alleanza regionale di Trump è lacerata da profonde divisioni ideologiche e strategiche: l’asse Qatar-Turchia è troppo favorevole ad Hamas e ai Fratelli Musulmani per il blocco saudita-emiratino-israeliano. Resta inoltre da vedere come l’Egitto tollererà il ruolo della Turchia a Ga2a – Tuttavia, Trump ha posto le basì per una nuova pace in Medio Oriente, fondata sull’integrazione economica e sulla connettìvità delle infrastnitture, Potrebbe ora essere imminente un’estensione degli Accordi di Abramo, gli accordi bilaterali di Israele che stabiliscono relazioni diplomatiche con quattro paesi arabi (Bahrain, Marocco, Sudan ed Emirati Arabi Uniti}. Per aumentare le possibilità di successo. Trump ha intrapreso una serie di passi per aumentare l’influenza della sua amministrazione sugli attori regionali, tra cui la firma di un accordo sugli anni con l’Arabia Saudita e di un patto di sicurezza con il Qatar, oltre a indicare che potrebbe revocare il divieto di vendita degli F-35 alla Turchia. Per l’Egitto, la prospettiva di assicurarsi importanti contratti per la ricostruzione di Gaza è molto allettante. Trump ha persino portato la Siria nell’orbita americana, mentre le aziende turche e statunitensi si preparano alla grande occasione offerta dalla ricostruzione. Forse la cosa più importante è che Trump ha chiarito che il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha bisogno di lui, arrivando persino a inviare una lettera al presidente israeliano per chiedere la grazia totale per Netanyahu nel processo per corruzione in corso. Isolato a livello internazionale, completamente dipendente dal sostegno militare e politico degli Stati Uniti e di fronte a una cittadinanza desiderosa di porre fine alla guerra più lunga in Israele, Netanyahu non ha altra scelta che quella di piegarsi alla volontà di Trump. Altro discorso è se la visione edulcorata del piano di pace di Trump riguardo alla creazione di uno Stato palestinese coincida con quella della parte araba.
Un milione di gazawi esposti senza riparo a inverno e malattie
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di Miriam Berger
Un milione di gazawi esposti senza riparo a inverno e malattie
Una grave carenza di tende e altri materiali per ripari sta lasciando oltre un milione di palestinesi a Gaza esposti alle intemperie invernali e alle malattie, mentre le Nazioni Unite e altre agenzie si affannano a riparare le infrastrutture per le acque piovane e migliaia di ricoveri di fortuna danneggiati o distrutti dalle piogge recenti. Da mesi le autorità israeliane hanno bloccato o parzialmente limitato l’ingresso di articoli essenziali per i ripari – tra cui tende, pali, attrezzi e teloni – nonostante il cessate il fuoco sostenuto dagli Stati Uniti entrato in vigore […], che impone a Israele di consentire il flusso senza ostacoli degli aiuti umanitari. Israele ha dichiarato che non esiste alcun limite alla quantità di aiuti umanitari che può entrare a Gaza e ha attribuito alle Nazioni Unite la responsabilità delle carenze […]. Tuttavia, secondo funzionari Onu, Israele ha classificato alcuni articoli di soccorso – compresi i pali per tende – come «a doppio uso», ritenendo che possano essere riutilizzati dai militanti per fabbricare armi o altre attrezzature. Le autorità hanno inoltre vietato ad alcuni gruppi umanitari di portare tende, approvando invece materiali per ripari provenienti da determinati Paesi donatori, non tutti impermeabili o abbastanza resistenti per le condizioni invernali […]. Inoltre, le restrizioni israeliane […] hanno rallentato le indispensabili riparazioni dei sistemi idrici e fogni danneggiati, […] a rischio collasso o straripamento in caso di nuove tempeste.
Albanese, la regina dei radical chic che disprezza tutti, anche i suoi
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di Gianluigi Paragone
Albanese, la regina dei radical chic che disprezza tutti, anche i suoi
I graffiti piacciono solo se rossi: oscurato quello che la ritrae con un membro di Hamas n Se penso alla perfetta radical chic penso proprio a Francesca Albanese. Look da radical chic. Puzza sotto il naso da radical chic. Arroganza da radical chic. La Albanese possiede anche il tocco sublime della perfetta radical chic, possiede cioè quella capacità di cantare le «cretinate in diesis», cioè con quel pezzetto di nota aggiuntivo che gli stessi compagni non sanno se è una stonatura o una raffinatezza. Perché lei è parecchio divisiva anche a sinistra: adorata da quel pezzo che crede di aver capito tutto della vita; stucchevole per chi invece ne ha le scatole piene di questa sinistra qui (è un pezzo che non conta granché). La Albanese è talmente affascinata dalla causa palestinese da non poter fare a meno di disprezzare tutto il resto del mondo. Perché lei è una che disprezza di un disprezzo con la erre moscia, un disprezzo perfettamente di sinistra tanto che nel curvarsi sa di odio. La Albanese disprezza la Segre perché la sinistra deve cambiare prospettiva. Come disprezza il sindaco pd di Reggio Emilia, colpevole ai suoi occhi di non usare le parole giuste del glossario antagonista cool. Infine disprezza i giornalisti ai quali lancia il monito: guardate che i miei amici pro Pal mica possono sopportare tutto quello che scrivete. Per la Albanese è quasi una seccatura doversi scusare, dover prem ette re, d ove r sottrarre al suo radicalismo quel tanto che basta per non farsi criticare: rifiuta la violenza ma…; solidarizza con La Stampa ma… «La violenza contro La Stampa non è accettabile, ma sia di monito per i giornalisti», commentava quasi con la stessa altezzosità di Miranda Priestly, la tirannica direttrice protagonista di Il diavolo veste Prada. Ecco, la Albanese pare la protagonista de La sinistra veste Pal: lei una spanna sopra la scialuppa della Flotilla. Lei e l’amica Greta sopra le «navigelle» le damigelle delle navi – della sinistra fighetta, Annalisa Corrado e Benedetta Scuderi. La disputa si gioca a sinistra nella metà del cielo oggi protagonista, quella femminile: se la Boldrini è stata presidente della Camera, lei – la Albanese – può non guardare a Palazzo Chigi? «Secondo me mi criticano perché faccio paura; rappresento il cambiamento e il risveglio delle coscienze», ha detto ad Accordi e disaccordi col suo fare swing. «Sono stata chiarissima: condanno la violenza nei confronti della redazione della Stampa; la mia colpa è aver criticato anche la stampa italiana e occidentale per il pessimo lavoro, indegno, sulla questione palestinese», ha insistito, non curante che una cretinata reiterata la trasforma in saggezza. Quindi La Stampa diventa la parte per il tutto e i violenti che hanno assaltato la redazione sono un po’ come «quei» compagni che sbagliano: del resto se nel giornale che fu di Carlo Casalegno non lo hanno ancora capito… Ma sì, lei fa paura; lei risveglia le coscienze: per questo i suoi giannizzeri hanno cancellato il murales che la ritraeva assieme a Greta Thumberg in un abbraccio solidale con un miliziano di Hamas. Il politicamente scorretto dei graffiti vale solo se la bomboletta è rossa. Correte, corsari delle cause giuste, c’è un murales che dev’essere tappezzato perché prende di mira le Erinni della causa palestinese. Copriamo chi ci attacca e soprattutto diversifichiamo l’attacco: Sorgi quasi quasi rovescia la frittata e dice che la colpa è del ministro Piantedosi, colpevole di non aver eretto le trincee a difesa del quotidiano torinese: non sapevamo che Askatasuna e gli altri teppisti dell’assalto avessero libertà di mal-azione se il Viminale non schiera le forze dell’ordine. Dovevamo capirlo con la lezione di Bologna dove il sindaco felsineo non voleva che si giocasse la partita tra la Virtus e il Maccabi. Ormai tutto è ribaltato nel mondo delle Albanesi: «La violenza non è mai una risposta neanche in una situazione violenta come l’Italia in questo momento. Neanche in un sistema violento bisogna utilizzare la violenza». Toh, l’Italia in questo momento è violenta. Del resto se il compagno Michele Serra arriva a equiparare l’integralismo islamico con «il fondamentalismo cattolico dei Maga», anche la scemata della Albanese in Mi bemolle per piano e tromboni troverà esecutori degni.
Hannoun e Greta insieme. Il «dream team» di Flotilla scende in piazza a Roma
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di Giulia Sorrentino
Hannoun e Greta insieme. Il «dream team» di Flotilla scende in piazza a Roma
Finalmente il cerchio si chiude con il fantastico selfie tra l’attivista climatica Greta Thunberg e Mohammad Hannoun, sanzionato dal dipartimento del Tesoro Usa in quanto ritenuto una propaggine di Hamas in Italia. Sabato, infatti, erano insieme sul carro della manifestazione ProPal tenutasi a Roma. Greta con la maglietta di «Cambiare rotta», il movimento che si definisce «organizzazione giovanile comunista», lui con la kefiah al collo. Ma non c’erano solo loro, perché Hannoun sorrideva, con in mano la bandiera della Palestina, anche con Thiago Avila, l’attivista brasiliano che è stato il frontman della Global Sumud Flotilla. Il carro circondato da bandiere del sindacato di base Usb e su cui compariva il cartello con scritto «Free Mohamed Shahin», l’imam di Torino espulso perché aveva giustificato il 7 ottobre, ritenuto un esponente della Fratellanza Musulmana. E ora continueranno a dire che non si conoscevano? Che la Flotilla non aveva nessun legame con Hannoun? Il Tempo aveva da subito denunciato la commistione tra figure ritenute vicine ad Hamas e la missione che voleva forzare il blocco navale israeliano. Ma erano state ridotte a illazioni, nonostante le numerose prove fotografiche e documenti mostrati. E avevamo aggiunto un altro tassello quando eravamo entrati nella riunione che si teneva su Zoom tra Hannoun e Yassine Lafram, presidente dell’Ucoii, anche lui presente sull’imbarcazione. Circostanza in cui non si era discostato dal giordano filo Hamas, così come nessun parlamentare dell’opposizione lo ha fatto. preferendo negare le frequentazioni o riducendo gli articoli a «fango mediatico». Così come nessuno ha mai smentito il documento del ministero della Diaspora israeliano in cui si evidenziava come, oltre ad Hamas, ci fossero altri nomi riconducibili al terrorismo palestinese: «Alcuni membri del comitato direttivo della Global Sumud Flotilla hanno partecipato a incontri con rappresentanti di organizzazioni terroristiche designate dagli Stati Uniti, tra cui Hamas, la Jihad Islamica Palestinese (PIJ) e il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP). Inoltre, hanno fornito finanziamenti a diverse organizzazioni nella Striscia di Gaza». I volti, in quella piazza, erano i soliti, e tra loro c’era anche la relatrice Onu Francesca Albanese. Sarà finita inconsapevolmente a parlare proprio dal carro su cui poco prima la sua amica Greta si era fotografata con Hannoun e con Avila? I cortei sono cambiati, le sigle si sono mostrate compatte in una commistione tra Palestina, sinistra estrema e sinistra parlamentare. Il tutto con un disegno ben preciso che si esplica in slogan e movimenti che includono Palestina e riarmo, lotta per la casa, diritti e uguaglianza, lavoro. Una fase storica in cui l’Islam politico prende piede in modo manifesto, nel silenzio di chi dovrebbe capire, denunciare e non avallare i rischi per un Occidente che rischia di essere definitivamente sotto scacco.
Dopo il raid a “La Stampa” Centri sociali nel mirino «Chiudere Askatasuna»
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di Antonio Petrucci
Dopo il raid a “La Stampa” Centri sociali nel mirino «Chiudere Askatasuna»
Polemica su Francesca Albanese, la richiesta di revocare le cittadinanze onorarie La condanna del ministro Crosetto: «Nessuno ha il diritto di usare violenza» Il centrodestra chiede un intervento giudiziario contro gli antagonisti torinesi ROMA «Nessuno ha il diritto di usare violenza, di manifestare le proprie idee con violenza. Non condannare queste cose innesca meccanismi che poi nessuno controlla, e il cancro della violenza si diffonde». È ferma la replica del ministro della Difesa, Guido Crosetto, dopo le parole della relatrice Onu, Francesca Albanese, che aveva definito l’attacco dei pro Pal alla sede del quotidiano La Stampa «un monito per i giornalisti». Durante il corteo, una foto del ministro era stata bruciata, e anche su questo gesto Crosetto ha sottolineato il suo disappunto: «Sono abituato a manifesti di insulti e anche alla poca solidarietà. La solidarietà alla persona offesa non la si dà per la persona ma per dire che quel gesto è sbagliato. Se devi spiegare queste cose, vuol dire che non siamo ancora una democrazia matura». Una polemica che non accenna a placarsi, e che ha visto prese di posizione e distinguo su un tema, la libertà di opinione e di espressione, che appassiona e coinvolge una vasta platea di commentatori. Non le manda a dire il presidente dei senatori di Forza Italia, Maurizio Gasparri, che invoca un intervento giudiziario nei confronti del centro sociale dal quale provengono alcuni degli antagonisti, responsabili del raid nella redazione giornalistica: «Askatasuna è un problema noto e annoso. Un centro sociale che semina violenza». E l’incendio non accenna a perdere di intensità, anzi, come dimostra l’intervento piccato del vicepremier e segretario di Forza Italia, Antonio Tajani, che nella doppia veste di politico e giornalista tuona dal palco dell’assemblea di Noi Moderati a Roma, contro le parole di Albanese: «Anche da giornalista dico che è una vergogna inaccettabile quello che è stato detto. Non mi faccio dare lezioni da squadristi. Sennò ritorniamo a Matteotti, dicendo ‘hanno sbagliato, però hanno dato una lezione all’opposizione’. Inoltre – prosegue il ministro degli esteri – il centro sociale Askatasuna va chiuso. Ci sono state tante manifestazioni di Forza Italia per chiedere che vada chiuso questo centro sociale anarchico, perché è fonte costante di aggressione e di violenza». Al riguardo, arriva però un distinguo da parte di Alessandra Algostino, docente ordinaria di diritto costituzionale all’Università di Torino, che prova a riportare la discussione sul tema puramente giuridico, sottolineando come, pur essendo un atto esecrabile quanto accaduto al giornale torinese, «l’accostamento fra violenza e il progetto ‘bene comune’ che coinvolge il comune è strumentale». Algostino, componente del comitato dei garanti che supervisiona il progetto, ha ribadito che «si tratta di responsabilità individuali, il centro Askatasuna non è il cardine di un’associazione per delinquere». Intanto, un altro capitolo della diatriba è in corso a Bologna, dove oggi la Lega presenterà in aula un ordine del giorno per ritirare la cittadinanza onoraria alla relatrice Onu, come preannunciato dal capogruppo in consiglio comunale, Matteo Di Benedetto. Una cittadinanza arrivata meno di due mesi fa, e che già al momento della votazione aveva suscitato forti polemiche in area centrodestra, con il capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera, Galeazzo Bignami, che nell’occasione definì la scelta «una vergogna». Anche allora la miccia erano state alcune dichiarazioni dei Albanese, che Bignami criticò perché «ha mostrato disprezzo verso gli ostaggi israeliani e criticato le forze dell’ordine».
Tre italiani feriti dai coloni
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di Beppe Boni
Tre italiani feriti dai coloni
Seppur in una grande, nebulosa incertezza, la tregua sembra reggere a Ga2a, mentre la tensione sale invece vertiginosamente in Cisgiordania dove i coloni israeliani si fanno sempre più aggressivi e dove gli scontri con i palestinesi sono quasi quotidiani. Ultime dal fronte di questa guerra-non guerra: tre attivisti italiani, due uomini e una donna, aggregati ad un’organizzazione palestinese sono stati assaliti, picchiati, minacciati e derubati di telefoni, passaporti, oggetti personali vicino a Gerico da coloni israeliani mascherati. «Wake up», Italians, svegliatevi italiani, poi giù pugni, calci, bastonate soprattutto ad uno dei ragazzi del gruppo. Botte ne hanno prese tante in mezz’ora di terrore ma non sono gravi, mentre sembrano più serie le condizioni di una cooperante canadese che fa parte del gruppo. Questo episodio dai contorni non ancora del tutto chiari fa seguito ad una raffica di casi violenti in Cisgiordania e Gerusalemme e negli ultimi mesi da parte dei coloni: auto distrutte, incendi alle coltivazioni palestinesi, aggressioni, una moschea incendiata. Nel conto vanno messi anche controverse uccisioni di presunti terroristi da parte dell’esercito israeliano con due vittime di 15 anni, due adulti giustiziati dopo un blitz e altro ancora. Tutti episodi che hanno sempre due verità, difficili da decifrare. Ma la Cisgiordania è un fuoco che può diventare incendio. La spedizione punitiva nei confronti dei tre volontari italiani si è verificata a Ein al-Duyuk, vicino a Gerico, una zona ad alta tensione. L’altra notte il commando di dieci coloni mascherati ha fatto irruzione nell’abitazione di palestinesi dove il gruppo alloggiava dando il via ad un pestaggio in piena regola. Il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha confermato che i tre italiani sono feriti non in modo grave e che dopo le medicazioni sono stati dimessi e trasferiti al sicuro a Ramallah. Ma sono decisi: «Noi rimaniamo qui». La ragazza italiana di 27 anni ha fatto un breve racconto ai microfoni di Sky Tg24. «Stavamo dormendo quando alle 5 siamo stati attaccati da coloni mascherati armati di bastoni e fucili. In quella zona dove non dovrebbe esserci alcuna presenza israeliana. Hanno cominciato a picchiarci con pugni, calci in faccia, nelle costole, nell’addome, lungo le gambe. Io ho un forte dolore alle costole. Sapevano che siamo stranieri e, quando se ne sono andati ci hanno detto Don’t come back here, cioè non tornate». Il caso è seguito dalla Farnesina e dal Consolato italiano a Gerusalemme, mentre è stato diffuso il messaggio del ministro degli Esteri Antonio Tajani (che respinge l’ipotesi di annessione della Cisgiordania): «Il raid contro i volontari è un fatto gravissimo, basta aggressioni. L’appello che lanciamo a Israele è di fermare i coloni e impedire che continuino queste violenze perché non servono alla realizzazione del piano di pace per il quale tutti quanti stiamo lavorando. Dobbiamo passare dalla prima alla seconda fase, iniziative del genere non aiutano a rasserenare gli animi». I tre italiani fanno parte dell’organizzazione internazionale a guida palestinese CampagnaFaz3a, una forma di protezione civile. Aiutavano pastori e contadini, accompagnavano bambini a scuola e si occupavano in senso lato di assistenza. I coloni israeliani radicali però li vedono come nemici. Il bilancio dell’Onu è drammatico. Nell’ultimo mese risultano 264 attacchi da parte dei coloni e 1.030 palestinesi sono stati uccisi in Cisgiordania dal 7 ottobre 2023 ad oggi. Dice Alessia Melcangi, analista e docente alla Sapienza: «La violenza dei coloni si estende anche ai cristiani di Cisgiordania e verso chi aiuta la comunità palestinese, come i cooperanti italiani. Questo dà il senso dell’impunità di cui pensano di godere».
Appello di 180 professori: «Liberate l’imam di Torino»
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di Redazione
Appello di 180 professori: «Liberate l’imam di Torino»
Presidio anarchico fuori dal Cpr ¦ Un appello firmato da 181 docenti e ricercatori delle università italiane per esprimere «profonda preoccupazione per la situazione di Mohamed Shahin», l’imam della moschea Omar Ibn al-Khattab di Torino, attualmente trattenuto nel Centro di permanenza per il rimpatrio di Caltanissetta dopo il decreto di espulsione emesso dal Ministero dell’Interno. «Liberatelo», è il grido di battaglia. Tra le firme c’è quella di Alessandra Algostino, ordinaria di diritto costituzionale a Torino e anche componente del comitato dei garanti che supervisiona il progetto della regolarizzazione di Askatasuna. «Mohamed Shahin – si legge nel testo diffuso sul web – è da lungo tempo impegnato in pratiche di dialogo interreligioso e cooperazione sociale. Numerose comunità religiose, associazioni civiche e gruppi interconfessionali hanno pubblicamente attestato il suo contributo alla costruzione di relazioni pacifiche tra diverse componenti della città di Torino, evidenziando la natura collaborativa e aperta della sua attività». E ancora: «È noto che il signor Shahin, prima del suo arrivo in Italia oltre vent’anni fa, era considerato oppositore politico del regime egiziano. La prospettiva di un suo ritorno forzato in Egitto lo esporrebbe concretamente a rischi di persecuzione, detenzione arbitraria e trattamenti inumani. Le motivazioni alla base della revoca del permesso di soggiorno appaiono collegate alle sue dichiarazioni pubbliche sulla situazione a Gaza e alle sue posizioni critiche rispetto all’operato del governo israeliano. Se così fosse, ci troveremmo di fronte a un precedente estremamente preoccupante: l’uso di strumenti amministrativi per colpire l’esercizio della libertà di opinione, tutelata dall’articolo 21 della Costituzione e da convenzioni internazionali cui l’Italia aderisce». La domanda sorge spontanea: difendere gli attacchi terroristici del 7 ottobre del 2023 perpetrati da Hamas va considerata libertà di pensiero? Intanto, ieri, un centinaio di persone ha organizzato un presidio davanti all’ingresso del Cpr di Torino in segno di solidarietà a Mohamed Shahin. L’iniziativa è stata portata avanti dal coordinamento “Torino per Gaza”. «Una semplice dichiarazione fatta in piazza – è stato spiegato – è bastata come scusa per arrestare Shahin, revocargli il titolo di soggiorno e rinchiuderlo nel Cpr di Caltanissetta, lontano dalla sua comunità e dai suoi affetti, per una deportazione che, se avvenisse, porterebbe a reclusione e torture nelle carceri egiziane». La protesta è stata rivolta anche verso i Cpr, definiti fra i «luoghi più opachi e disumanizzanti a disposizione della macchina repressiva dello Stato». Fra i presenti una massiccia presenza di anarchici.
Sinistra in imbarazzo per le parole di Albanese. E a Bologna parte la corsa per ritirare la cittadinanza
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di Enrico Paoli
Sinistra in imbarazzo per le parole di Albanese. E a Bologna parte la corsa per ritirare la cittadinanza
Dai dem del sindaco Lepore ai consiglieri della sua lista Civica, tanti pentiti per aver votato il premio alla relatrice speciale dell’Onu, diventata un vero problema. A Firenze, invocando la piazza, provano a tirare dritto. Da tutti per la Albanese (Francesca, la relatrice speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati, eroina dei pro-Pal) a tutti contro la Albanese, diventata merce che scotta, al punto da volerne prendere le distanze. Perché dopo le parole deliranti dei giorni scorsi («condanno l’irruzione nella redazione de La Stampa a Torino, ma questo deve essere anche un monito alla stampa per tornare a fare il proprio lavoro»), ritrattate in modo assai maldestro su X («Visto che le mie parole sono state ancora una volta travisate, chiarisco quanto già detto: condanno fermamente l’aggressione alla redazione», ma «la critica ai giornali è sacrosanta», in pratica lo stesso concetto detto in altre parole…), chi avrebbe voluto dargli la cittadinanza onoraria, Bologna in particolare, adesso gira alla larga dall’idea. E se il centrodestra fa il suo mestiere, chiedendo di fermare ogni tipo di riconoscimento nei confronti della pasionaria della causa palestinese, il problema vero riguarda la sinistra, costretta ad una inversione a U sulla relatrice dell’Onu, diventata un enorme motivo d’imbarazzo per il Pd. «Le parole dell’Albanese sull’assalto squadristico alla sede de quotidiano torinese sono inaccettabili», tuona Andrea De Maria, deputato dem, «francamente sono incompatibili con la cittadinanza onoraria di Bologna, città Medaglia d’Oro della Resistenza, che dovrebbe ricevere. Una città che, nella sua storia, si è sempre battuta per la libertà di opinione e di espressione, contro ogni forma di violenza e di intolleranza». «Quando la stampa libera viene colpita non ci sono motivazioni di sorta», afferma il sindaco di Bologna, Matteo Lepore, del Pd. Quanto alla Albanese «una democrazia è forte quando l’opinione pubblica e la stampa sono rispettate. Non c’è nessuna causa giusta che può giustificare la violenza contro il giornalismo e contro nessuno». Anche alcuni consiglieri di centrosinistra, che votarono il riconoscimento onorario, adesso si dicono pentiti: «Su di lei ci siamo sbagliati». Ancor più netto Filippo Diaco, il consigliere comunale di Anche tu Conti, la lista civica del sindaco Lepore, particolarmente duro nei confronti della Albanese. «Ritengo doveroso riconoscere che mi sono sbagliato. Non ho difficoltà ad ammetterlo», dice, «il tono usato» dalla Albanese e «l’eccesso di giudizi non sono compatibili con l’onore che Bologna concede attraverso la cittadinanza onoraria». Più chiaro di così… Ma proprio perché il cortocircuito interno al centrosinistra, provocato dalla deriva pro Hamas della Albanese, è così evidente il centrodestra esorta la sinistra a uscire allo scoperto. La Lega, con un post pubblicato su Instagram, chiede di togliere «le cittadinanze (dis)onorarie che sono state assegnate a questa “signora”, che ogni giorno si distingue in peggio». Ritenendo le sue dichiarazioni «folli» e chiaro «attacco alla democrazia», la presa di posizione del Carroccio, a Bologna, è netta. «In Aula presenterò un ordine del giorno per ritirare la cittadinanza onoraria conferita a Francesca Albanese», annuncia Matteo Di Benedetto, capogruppo della Lega in Consiglio comunale, a Bologna, «la maggioranza potrà dimostrare col voto da che parte sta». Ma se a Bologna si discute e ci si pente, a Firenze danno l’impressione di voler tirare dritto, con vero disprezzo del ridicolo. Mercoledì, nella Sala Capitale di Palazzo Vecchio, con ingresso libero per i cittadini che vorranno assistere (la debolezza della politica la si copre con la presunta forza del “popolo”), si riunisce la Commissione 7 dell’amministrazione comunale del capoluogo toscano. All’ordine del giorno la proposta di risoluzione presentata dal consigliere comunale di Sinistra progetto comune, Dmitrij Palagi, dal titolo che non lascia margine ai dubbi: “Solidarietà e cittadinanza onoraria a Francesca Albanese”. Il testo ricorda diversi atti approvati dal Consiglio comunale fiorentino che testimoniano l’impegno di Firenze città di pace e in conclusione propone quindi di conferire ad Albanese la cittadinanza onoraria di Firenze. Sulla proposta il centrodestra, come è ovvio, ha già annunciato una durissima opposizione. Infine Milano, dove Enrico Fedrighini, consigliere comunale del Gruppo misto, componente della maggioranza, ha presentato un ordine del giorno per conferire alla Albanese la cittadinanza onoraria. Ma la coalizione che sostiene la giunta guidata dal sindaco, Beppe Sala, se ne guarda bene dal metterla in discussione, volendo evitare inutili imbarazzi all’esecutivo cittadino, nonostante la simpatia per i pro Ga2a. In fondo, come sottolinea Pina Picierno, c’è solo da sperare che la Albanese comprenda «la gravità delle cose che dice». Nel frattempo meglio stargli alla larga…
Albanese danneggia l’Onu e l’Italia. Ma adesso l’Onu non potrà più fare finta di niente
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di Francesco Maria Del Vigo
Albanese danneggia l’Onu e l’Italia. Ma adesso l’Onu non potrà più fare finta di niente
No, non è un caso. Non è una boutade. Non è una gaffe e non è nemmeno una provocazione per épater le bourgeois. La frase sconsiderata pronunciata da Francesca Albanese sull’assalto alla redazione della Stampa, purtroppo, non è una voce dal sen fuggita. Non è incoerente, né sorprendente rispetto alle esternazioni che la relatrice delle Nazioni Unite ha recapitato alla pubblica opinione negli ultimi mesi. È orribilmente consequenziale a tutto ciò che ha fatto e detto: dallo sguaiato attacco a Liliana Segre alla reprimenda nei confronti del sindaco di Reggio Emilia, colpevole di aver osato citare gli ostaggi israeliani. Ripassiamo le parole che disse in quell’occasione, perché ci aiutano molto a capire e interpretare ciò che ha detto due giorni fa: «Io il sindaco non lo giudico, lo perdono, però mi deve promettere che questa cosa non la dice più» (il tutto mentre il primo cittadino le stava consegnando una cittadinanza onoraria). Un misto di saccenteria e megalomania: giudica come un’insegnante in cattedra dinnanzi a un’aula di scolaretti e perdona come è proprio di eminenze religiose e divinità dislocate nell’alto dei cieli. L’espandersi del conflitto in Medioriente è stato direttamente proporzionale a quello del suo ego. Infatti non risulta che abbia celebrato il piano di pace di Trump. Anzi. La stessa allergia al pubblico dibattito e alle altrui opinioni che ha dimostrato fuggendo a gambe levate, in diretta tv, dallo studio di In Onda, indispettita dal fatto che Francesco Giubilei avesse osato nominare la sopraccitata senatrice a vita, per la quale, con ogni evidenza, la dottoressa Albanese nutre una sorta di ossessione. Come dicevamo prima: da una sincera democratica come lei non c’è da stupirsi se pensa che devastare la redazione di un quotidiano sia un «monito ai giornalisti per tornare a fare il loro lavoro». Dalle parti di Hamas, probabilmente, la pensano allo stesso modo. Ma il problema è un altro: Francesca Albanese non è (solo) una libera pensatrice di estrema sinistra, Francesca Albanese è (soprattutto) relatrice speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati. È in virtù del suo ruolo che le accendono microfoni e telecamere per dire quello che le pare. Rappresenta l’Onu. E – al netto delle crepe dell’istituzione -, per quanto potrà andare in giro per il mondo a esprimere opinioni personalissime su cose che spesso hanno nulla a che fare con il suo compito? L’Onu può permettersi che una sua relatrice giustifichi delinquenti che intimidiscono i giornalisti e attaccano la libertà di stampa? Al Palazzo di Vetro sono a conoscenza del fatto che la Albanese fa politica attiva nel nostro Paese? Perché, per quanto sgangherate e spesso in difesa di posizioni discutibili, le Nazioni Unite sono pur sempre una delle organizzazioni più importanti del mondo e dovrebbero richiedere una certa terzietà. Non lo diciamo noi, lo dicono loro e lo diceva pure lei. Tra i requisiti richiesti dall’Onu per il suo ruolo ci sono «competenze riconosciute, alto profilo internazionale e indipendenza politica». Sospendiamo il giudizio sui primi due, ma sul terzo non abbiamo alcun dubbio, la Albanese è assolutamente partigiana, nella prima accezione del vocabolario Treccani: «Chi parteggia, chi si schiera da una determinata parte, chi aderisce a un partito, sostenendone le idee, seguendone le direttive, per lo più con spirito fazioso e settario». La stessa Albanese, nel suo profilo ufficiale in lingua inglese, prometteva di impegnarsi «durante il suo mandato a perseguire l’imparzialità e l’inclusività». Oggi l’imparzialità suona come una provocazione e l’inclusività la abbiamo vista solo per i vandali che sfasciano i giornali. Ed è proprio per questo che all’Onu dovrebbero capire quale danno di immagine e reputazione comporta avere una relatrice «tecnica» così tanto politica.
Askatasuna e cittadinanze onorarie. La sinistra va in tilt sui violenti
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di Alberto Giannoni
Askatasuna e cittadinanze onorarie. La sinistra va in tilt sui violenti
Centrodestra e Azione incalzano il sindaco dem di Torino: «Chiuda il centro sociale» Imbarazzo sulle onorificenze alla Albanese in molte città. La petizione: «Ritiratele» Il blitz contro la Stampa di Torino è solo l’ultimo episodio che, in ordine di tempo, segnala una realtà inquietante: il movimento pro Pal (cioè anti-Israele) ha un rapporto irrisolto con l’odio e (quindi) con la violenza. E troppi hanno fatto finta di non vederlo. Smetterla di coccolare i violenti, non onorare i cattivi maestri. E magari stanare chi, con l’ambiguità e silenzi, li legittima. Il blitz contro la Stampa di Torino è solo l’ultimo episodio che, in ordine di tempo, segnala un a realtà inquietante: il movimento pro Pal (cioè anti-Israele) ha un rapporto irrisolto con l’odio e (quindi) con la violenza. E troppi hanno fatto finta di non vederlo. Le reazioni ai fatti di Torino, oggi si dispiegano su vari livelli. Il problema dei centri sociali, intanto. A gran voce arriva la richiesta di chiudere finalmente il covo da cui pare provenisse la gran parte dei protagonisti di questa storia. Per la Lega «è necessario intervenire con sgomberi rapidi, a partire dal famigerato Askatasuna di Torino». «Il centro sociale Askatasuna va chiuso» ribadisce anche il segretario di Forza Italia, Antonio Tajani. E la richiesta non si limita alla maggioranza. «Inutile girarci attorno: il centro sociale Askatasuna va chiuso» insiste Daniela Ruffino di Azione. Il tema chiama in causa anche il sindaco: «Lo Russo esca subito dall’ambiguità: stracci il patto di collaborazione con Askatasuna» pressano i leghisti. Perché il centro antagonista, come ricorda anche il capogruppo Maurizio Gasparri, «dispone di una sede», anche se «si tratta di un vero e proprio centro di eversione e di violenza». Il Comune, intanto, tergiversa o balbetta. E sulla ambiguità di molti nei confronti delle frange oltranziste si innesta il secondo piano della questione. Risuonano ancora le parole della relatrice Onu Francesca Albanese, secondo cui l’accaduto dovrebbe essere considerato «un monito». Un monito «alla stampa per tornare a fare il proprio lavoro» e «se riuscissero a permetterselo, anche un minimo di analisi e contestualizzazione». Per queste parole, ora molti chiedono di togliere le cittadinanze onorarie che alla Albanese sono state conferite, e di ritirare le proposte di nuovi conferimenti. Il Pd su questo è in grave imbarazzo. A Firenze se ne parlerà nei prossimi giorni, a Milano c’è una proposta, che Fdi chiede di ritirare, e la Lega proporrà oggi di revocare quella di Bologna. E anche l’associazione SetteOttobre rilancia una petizione on line. Intanto Luciano Belli Paci, di «Sinistra per Israele», pensando al caso cita il famigerato «colpirne uno per educarne cento». «Quella uscita della Albanese – ammette mi ha ricordato quello slogan atroce». Ma a sinistra solo i riformisti condannano apertamente i riflessi antagonisti della relatrice Onu. Va detto che Albanese ha poi precisato che lei «chiaramente condanna la violenza nei confronti della redazione della Stampa». La mia colpa ha aggiunto – «è quella di aver condannato anche la stampa italiana e occidentale per il pessimo lavoro». Ecco, per Albanese il quadro è questo: Israele è colpevole di genocidio, i governi occidentali sono complici del genocidio e la stampa occidentale fa un lavoro «indegno» perché non racconta queste cose come vorrebbe lei, come dice lei, cioè conformandosi a una narrazione a senso unico, faziosa e unilaterale, che dipinge Israele come Stato dedito al genocidio, nato «malato» e quindi destinato a finire. Non vuol sentir parlare di Israele come democrazia, non vuol sentir parlare di «guerra», e d’altro canto «contestualizza» il 7 ottobre e Hamas. Non a caso, ha sfilato a braccetto con Maya Issa, giovane leader palestinese secondo lui il 7 ottobre «è stata una delle tantissime date della resistenza palestinese». E sono moltissimi a pensare e dire cose del genere, anche nelle università, e non sono solo tra gli studenti. Intanto, sabato a Roma è stata bruciata una foto del ministro Guido Crosetto. Come i suoi sacerdoti e le sua «sacerdotesse», tutto il movimento pro Pal è ambiguo sui violenti, perché ispirato dall’odio verso Israele e l’Occidente. E chi non condanna le violenze in modo chiaro, finisce per legittimarle.
Netanyahu chiede la grazia nel processo per corruzione. Manifestazioni di protesta
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di M. Ev.
Netanyahu chiede la grazia nel processo per corruzione. Manifestazioni di protesta
Esaminerò la richiesta di grazia con responsabilità e sincerità, dopo avere ricevuto tutti i pareri pertinenti». A parlare con estrema prudenza è il presidente di Israele, Isaac Herzog. Al suo ufficio sono state consegnate 111 pagine, scritte dall’avvocato Amit Hadad, in cui è richiesta la grazia per il primo ministro Benjamin Netanyahu. Dal 2020 il premier è sotto processo per corruzione, frode e abuso di fiducia. Tre i filoni dell’inchiesta: secondo l’accusa, Netanyahu ha ricevuto regali da uomini d’affari in cambio di favori, ha concluso un accordo per aiutare un giornale in cambio di articoli positivi, infine ha promosso regole che hanno aiutato un magnate delle telecomunicazioni. Il processo è in corso e questo spiega quanto sia anomala la richiesta. Molti giuristi israeliani hanno sottolineato che la grazia viene richiesta in seguito a una condanna. In questo caso, andrebbe a interrompere un procedimento senza che vi siano un’ammissione di colpa e tanto meno le dimissioni. Esiste un solo precedente paragonabile nella storia d’Israele e, con uno scherzo del destino, riguarda Chaim Herzog, padre dell’attuale capo dello Stato. Anche Chaim Herzog era presidente e nel 1986 concesse la grazia prima dell’incriminazione ad alti funzionari dello Shin Bet (i servizi segreti) che avevano insabbiato l’esecuzione di due palestinesi. I funzionari però avevano ammesso la loro colpevolezza e il capo dello Shin Bet si era dimesso. Per questo oggi, in un paese già lacerato dalle proteste sulla riforma della giustizia che ci furono prima dell’attacco del 7 ottobre, la grazia a Netanyahu potrebbe causare una crisi istituzionale. Il Ministero della Giustizia dovrà raccogliere pareri tecnici e svolgere valutazioni giuridiche: secondo il Jerusalem Post «la decisione potrebbe richiedere settimane o mesi». Ieri ci sono state manifestazioni davanti alla residenza di Herzog contro la concessione della grazia. RAGIONI Come motiva Netanyahu la sua richiesta? Il primo ministro ha spiegato nella lettera inviata al presidente Isaac Herzog: «Chiedo di prendere in considerazione la concessione della grazia allo scopo di lasciarmi continuare a operare interamente per il bene dello Stato di Israele, senza che il processo giudiziario in corso continui a dividere il popolo e a influenzare decisioni governative. Il procedimento giudiziario nei miei confronti contribuisce ulteriormente a tali fratture. C’è la necessità di una riconciliazione nazionale tra tutti i cittadini». Il primo ministro ricorda anche: «Di fronte alle accuse infondate, il mio interesse personale è staIL PRESIDENTE HERZOG: «ESAMINERÒ IL CASO CON RESPONSABILITÀ» L’ACCUSA METTE A RISCHIO IL FUTURO POLITICO DEL PRIMO MINISTRO to e rimane quello di proseguire il processo fino alla fine, fino alla piena assoluzione. La realtà della sicurezza e della situazione politica e l’interesse nazionale impongono un’altra strada. Il proseguimento del processo ci lacera dall’interno e approfondisce le fratture. Ho riflettuto a lungo. Ciò che ha fatto pendere la bilancia è il fatto che mi viene richiesto di testimoniare tre volte alla settimana. È una richiesta impossibile». Ultima carta giocata da Netanyahu: anche il presidente americano sostiene la sua richiesta. Ricorda: «Trump ha chiesto la fine immediata del processo, in modo che insieme potessimo promuovere interessi vitali condivisi da Israele e Stati Uniti durante una finestra temporale che difficilmente si ripresenterà». L’opposizione ha però già detto no alla grazia. Yair Lapid, leader del partito Yesh Atid: «Mi rivolgo al presidente Herzog: non può concedere la grazia a Netanyahu senza un’ammissione di colpa, l’espressione di pentimento e il ritiro immediato dalla vita politica». Yair Golan, capo del Partito democratico e generale in pensione: «L’unica soluzione accettabile è che Netanyahu si assuma la responsabilità, ammetta la colpa, abbandoni la politica». Il presidente del Partito di Unità Nazionale, Benny Gantz: «Si sta comportando come un piromane che appicca un incendio e chiede il pizzo per spegnerlo. Smetta di danneggiare la democrazia. Deve indire elezioni e solo allora può cercare un patteggiamento o la grazia».
Riaperti i valichi con l’Egitto: 500 tir di aiuti
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di Redazione
Riaperti i valichi con l’Egitto: 500 tir di aiuti
Le autorità israeliane hanno riaperto ieri i valichi di Kerem Shalom e Al-Awja con la Striscia di Gaza per ricevere i camion carichi di aiuti umanitari provenienti dal valico di Rafah, sul lato egiziano. Lo riferiscono fonti della sicurezza egiziana. Sono stati spediti cinquecento camion di aiuti umanitari destinati a Gaza: in particolare la Mezzaluna Rossa egiziana sta consegnando circa 10.500 tonnellate di aiuti umanitari e oltre 91.000 articoli di abbigliamento invernale, 5.500 tonnellate di cesti alimentari e farina, oltre 2.800 tonnellate di forniture mediche e di soccorso e oltre 1.270 tonnellate di prodotti petroliferi. Sono ancora invece ancora bloccati gli aiuti della Global Sumud Flotilla come ha denunciato ieri la portavoce italiana Maria Elena Della. “Stiamo ancora aspettando da Tajani un salto oltre le solite dichiarazioni di rito: chiediamo sanzioni ai coloni, sospensione dei rapporti con Israele e pressione immediata per aprire i valichi e far entrare le tonnellate di aiuti raccolti da Music For Peace e arrivati da tutta Italia, ancora bloccati in Giordania”.
Bibi chiede una strana amnistia. I suoi coloni malmenano tre italiani
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di Riccardo Antoniucci
Bibi chiede una strana amnistia. I suoi coloni malmenano tre italiani
Una mossa impensabile in altre circostanze, ma attesa. Che forza le leggi di Israele, risulta di difficile lettura anche per i giuristi, e riduce tutto all’essenza di un esercizio potere che si considera superiore alle leggi. Benjamin Netanyahu ha chiesto formalmente di essere graziato al presidente israeliano Isaac Herzog, ieri. Sei anni dopo essere stato incriminato per frode, corruzione e abuso d’ufficio (per favori fatti a imprenditori della sua cerchia in cambio di regali) e dopo essersi trascinato per quattro anni un processo mentre rivestiva la carica di primo ministro in mezzo a pandemia, 7 ottobre 2023, guerre a tutto campo a Ga2a, Libano, Iran. Herzog si è visto recapitare ieri un vero e proprio dossier. 111 pagine in cui lo studio legale dell’avvocato del premier, Amit Haddad, illustrava i motivi per ritenere infondato il processo per corruzione e auspicabile “per il bene dello Stato” l’amnistia. Netanyahu s’è espresso in un video sui social. Non ha ammesso alcuna colpa e ha chiesto di essere sgravato dal fardello del processo per “concentrarsi d’ora in poi esclusivamente sulla gestione della guerra e contro il terrorismo da Ga2a” da premier. Impossibile non notare la tempistica: nelle ultime udienze del processo i giudici non sono rimasti convinti dagli argomenti della difesa del premier, e hanno contestato come inumana la richiesta dei giudici di tenere tre deposizioni a settimana per accelerare. È una strana richiesta di perdono, ma ci sono pochi dubbi sul fatto che il premier israeliano sia convinto, come ha già dimostrato, di piegare a suo favore le leggi e gli equilibri internazionali. Le norme fondamentali dello Stato di Israele (che si basa su un regime di rule of law all’anglosassone) stabiliscono in poche righe che il presidente della Repubblica ha facoltà di graziare un condannato. Netanayhu è ancora solo imputato, non è stato giudicato colpevole, e i giuristi israeliani hanno sempre considerato impossibile l’amnistia preventiva, come accade negli Usa. C’è però il precedente del caso del “bus 300”, quando nel 1984 l’allora presidente Chaim Herzog (padre dell’attuale), graziò due agenti dello Shin Bet che avevano ucciso due attentatori palestinesi mentre erano in custodia. Fu un unicum che causò uno scontro tra il premier Shimon Peres e il procuratore generale. Ma la grazia arrivò prima dell’inizio del processo, e dopo un’ammissione di colpa da parte degli agenti, che si dimisero dall’incarico. Tutto diverso da Netanyahu, che punta addirittura a correre alle prossime elezioni. I legali argomentano che è sufficiente essere “sospettati” per essere graziati, e che i poteri di grazia possono essere estesi. Forzature che non nascondono che la decisione è politica, di rapporti di forza. Il presidente ieri ha dichiarato che valuterà la richiesta sulla base del parere del ministero della Giustizia, ma in molti sono convinti che esista un accordo tra i due, perché altrimenti Netanyahu non si sarebbe mosso. In più, c’è il fattore Trump. Il presidente Usa ha chiesto pubblicamente la grazia per Netanyahu nella sua visita alla Knesset a ottobre e in una lettera a Herzog. Alla luce degli eventi, ora la grazia appare una sorta di “condizione ombra”del piano di pace per Ga2a: ne è convinto per esempio Eli Salzberger, ordinario di diritto all’Università di Haifa. L’iter decisionale richiederà due o tre mesi. E se è probabile che Herzog concederà la grazia, è sicuro che le opposizioni la impugneranno davanti alla Corte suprema. Ieri c’è stata una manifestazione sotto la residenza di Herzog, con lo slogan: “Repubblica delle banane”. I giudici supremi sono di orientamento conservatore (Netanyahu ha lasciato scadere il mandato di tre togati liberal senza sostituirli), “ma un approccio conservatore al diritto porterebbe a negare la grazia”, commenta Salzberger. “Di certo, se passasse, la grazia sarebbe un ulteriore attentato alla Rule of law. Ma forse è ciò che vuole Netanyahu”.
L’agonia di Gaza è già dimenticata
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di Anna Foa
L’agonia di Gaza è già dimenticata
Sembra che ci siamo dimenticati di Gaza. Dopo tante manifestazioni a sostegno della Palestina che hanno riempito di grandi folle le strade italiane come quelle di molte altre parti dell’Italia e del mondo, dopo tanto parlare e scrivere, dopo che la distruzione di Gaza e l’uccisione di tante migliaia di palestinesi erano diventate l’argomento del giorno nelle nostre scuole, nelle nostre università, nei nostri talk show televisivi, a partire dal 10 ottobre, data di inizio della tregua, su Gaza e sulla questione palestinese è sceso il silenzio, o almeno qualcosa di molto simile al silenzio. Forse perché la tregua regge? Perché non ci sono più bombardamenti sulla Striscia martoriata di Gaza? Non è così, la tregua regge, ma una tregua che consente ancora bombardamenti e uccisioni. Dal 10 ottobre ad oggi sono stati uccisi 354 palestinesi. Sembra poco, se paragonati ai numeri precedenti, ma provate ad immaginarveli tutti in fila, nei loro sudari. O forse perché i rifornimenti bloccati alla frontiera sono stati lasciati passare, la popolazione rifornita di cibo ed acqua, i medicinali tornati in ciò che resta degli ospedali? Non è così, Israele apre e chiude i valichi, e le chiusure corrispondono ai momenti di tensione, quasi i rifornimenti fossero in realtà ostaggio dello svolgimento delle operazioni legate alla tregua. Non restituisci tutte le salme degli ostaggi, noi teniamo in ostaggio cibo, acqua, medicine sembra dire la chiusura a singhiozzo dei valichi. Ma gli ostaggi sono tornati, e con loro sono stati liberati i prigionieri palestinesi chiusi nelle carceri di Israele. È un risultato importante. Che gli ostaggi nascosti da Hamas nei tunnel di Gaza tornino alle loro famiglie, che si possano seppellire i morti, è cosa che ha fatto tirare un sospiro di sollievo ad Israele, come ha fatto tirare un sospiro di sollievo ai palestinesi la liberazioni di famigliari spesso detenuti sulla base di semplici sospetti e in condizioni che gli ultimi scandali ci hanno rivelato non aver poi molto da invidiare a quelle degli ostaggi israeliani di Hamas. Eppure, sia Gaza che Israele hanno accolto con speranza e favore la tregua. Perché ha significato l’idea, almeno l’idea, di non essere più in guerra. Ma più le settimane passano, più questo sollievo diminuisce, più le speranze sfumano. Ma se possiamo capire e condividere il sollievo che la tregua ha procurato ad israeliani e palestinesi, riesce meno facile capire perché anche il mondo sembra credere che tutto stia andando per il meglio. Le grandi manifestazioni, importanti nonostante le sbavature politiche e gli accenni antisemiti, sembrano aver dato luogo al vecchio copione dei gruppi sociali che se la prendono a caso con tutti quelli che considerano espressione del “potere”, come dimostra la devastazione di questo giornale, devastazione che di “Pro-Pal” ha solo il nome e ci ricorda invece l’inizio del fascismo un secolo fa, con gli attacchi e le devastazioni squadriste a l’Avanti, l’organo del Partito Socialista. Sul fronte dell’alta politica, gli Stati dell’Ue tacciono, o sono invece impegnati a disquisire sull’antisemitismo crescente, senza vedere che soprattutto di una conseguenza di quanto succede si tratta, non di una sua spiegazione. Solo Trump e in parte i Paesi arabi insistono, e per motivi loro, tutti diversi. E se fosse tutto, sul fronte mediorientale, si potrebbe anche trarre un sia pur piccolo sospiro di sollievo. Ma, intanto, se Gaza non è più sulle bocche di tutti, la Cisgiordania è in fiamme, e non solo ad opera dei coloni che aspettano il Messia sbarazzandosi dei palestinesi e distruggendone case e campi, ma ormai direttamente ad opera dell’esercito. I video che ci arrivano mostrano episodi che suscitano in noi una sorta di inorridita incredulità, come quello dei due palestinesi – terroristi o no, che importa, dal momento che si arrendevano con le mani alzate? – assassinati a sangue freddo dai militari. A Gaza è subentrata la Cisgiordania, ma sembra che non susciti nel mondo una pari indignazione. O forse, l’indignazione è a tempo, ad un certo punto si esaurisce, la clessidra ha versato tutta la sua sabbia, parliamo d’altro. Si parlasse almeno dell’altro fronte di guerra, quella scatenata dallo Zar della Russia. Ma di quella si è già smesso di parlare da tempo. E non perché fosse arrivata la questione di Gaza, evidentemente. È perché l’attenzione di chi vive tranquillo nel tepore della sua casa è limitata. La abbiamo consumata già tutta? E su quanto succede oggi in Cisgiordania, niente o poco da dire?
Bibi “il mago” e l’incantesimo su Israele: mossa a orologeria per ricandidarsi
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di Redazione
Bibi “il mago” e l’incantesimo su Israele: mossa a orologeria per ricandidarsi
Non è per caso se tanto i Bibisti quanto i detrattori del campo “Rak Lo Bibi” (“Chiunque tranne Bibi”) lo chiamano “HaKosem”, “il Mago”. La sopravvivenza politica e le manovre strategiche sono specialità in cui Benjamin Netanyahu, il premier più longevo nella storia d’Israele (16 anni quasi ininterrotti), eccelle. Da sempre. Ed eccolo, il nuovo numero magico: liberarsi dalla corda del processo che si stringe attorno al suo collo. Ma non per scomparire, tra gli applausi – e i sospiri di sollievo – di una buona metà dell’elettorato israeliano. Al contrario, la magia ardita di Netanyahu prevede, nel finale, che egli possa candidarsi, vincere le prossime elezioni e «dedicare tutto il suo tempo, le sue capacità e le sue energie al progresso di Israele in questi tempi critici» in cui «sono previsti sviluppi straordinari in Medio Oriente», come scrive il suo avvocato. E, naturalmente, Bibi sarebbe in una posizione avvantaggiata se potesse candidarsi come persona libera da processi pendenti, se gli venisse concessa la grazia. Il sortilegio inizia con un tentativo di ipnosi. In un video di due minuti, subito dopo aver depositato una richiesta formale di grazia al dipartimento legale dell’ufficio del Presidente, Netanyahu spiega via social che in realtà sta facendo un favore al Paese. Perché, spiega ancora, la disposizione della corte di testimoniare tre volte a settimana «paralizza la sua capacità di governare». Del resto, questa è la prima volta che un primo ministro in carica subisce un processo. L’ex premier Ehud Olmert è stato condannato per corruzione, ma si è dimesso prima dell’inizio del processo. E anche «l’equilibrio dei poteri tra giudice e imputato quando Netanyahu entra in aula con tutte le sue guardie – rileva Eli Salzberger, ex preside della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Haifa ed esperto di teoria e filosofia del diritto, e di etica giuridica e Corte Suprema israeliana – non è quello di un processo normale». Fuor da incantesimo, il team legale del premier è riuscito a trascinare e ritardare il processo per sei anni. Ma non sembra che Netanyahu sia riuscito a convincere i giudici della legalità delle azioni a lui contestate con tre capi d’accusa (corruzione, abuso di fiducia e frode per ricezione di regali illeciti e scambio di cortesie con certi media israeliani per ottenere una copertura favorevole). Questo è dunque il momento migliore per sfilarsi dal processo, dopo che il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha preparato il campo durante il discorso alla Knesset del 13 ottobre sull’“alba storica di un nuovo Medio Oriente”. «È tutta una mossa orchestrata», secondo Salzberger. Ora, lo scenario più probabile secondo gli analisti è che il presidente Isaac Herzog concederà la grazia, nonostante Netanyahu, in cambio, non si assuma responsabilità, non si dichiari colpevole, né offra dimissioni – al contrario, nella sua lettera ribalta le colpe della polarizzazione. Secondo la prassi politica, il presidente esamina una richiesta di grazia solo dopo la conclusione di tutti i procedimenti legali e la possibilità di una grazia prima della condanna, pur in presenza di un precedente storico, è estremamente rara perché costituisce una minaccia per lo stato di diritto e mina il principio di uguaglianza davanti alla legge. Ma non sarebbe ancora questa la fine: la questione probabilmente arriverebbe alla Corte Suprema. E sarebbe un’altra occasione, per Netanyahu, di attaccare il sistema giudiziario. E se il numero magico dovesse fallire? Dice Salzberger che «c’è ancora la possibilità (per Netanyahu, ndr) di ricorrere a un patteggiamento. In fondo, teme soprattutto una cosa: finire condannato e dietro le sbarre».
Cisgiordania, coloni all’attacco: feriti tre volontari italiani
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di Gabriella Colarusso
Cisgiordania, coloni all’attacco: feriti tre volontari italiani
Tre volontari italiani, due donne e un uomo, e un’attivista canadese sono stati aggrediti a calci e pugni da un gruppo di coloni israeliani mascherati e armati che li hanno assaltati di notte nel villaggio di Ein al-Duyuk, a ovest dell’antica città di Gerico, in Cisgiordania, un territorio occupato da Israele dopo il 1967. Gli attivisti, ancora sotto choc, hanno deciso di non lasciare sola la popolazione del villaggio, abitato principalmente da pastori, e torneranno a fare il loro lavoro di sostegno e monitoraggio con l’associazione Faz3a. Chi fossero i volontari lo ha spiegato il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, che ha definito l’episodio «gravissimo»: «Giovani cooperanti che accompagnavano le attività dei palestinesi, accompagnavano i bambini a scuola, gli agricoltori o i pastori, come fare una sorta di protezione civile per la popolazione». È quello che fanno attivisti israeliani e internazionali da molti anni, affrontando rischi sempre più elevati perché la violenza dei coloni che vivono negli insediamenti illegali è cresciuta, e non sembra trovare impedimenti. Assaltano le case, rubano il bestiame e gli olivi, incendiano i capannoni agricoli, le moschee, attaccaT no i villaggi cristiani, picchiano e a volte uccidono. L’obiettivo è costringere i palestinesi ad andare via, per occupare la loro terra. Meno di una settimana fa, Italia, Francia, Germania e Gran Bretagna avevano preso posizione contro i continui attacchi in Cisgiordania e «le attività destabilizzanti che rischiano di compromettere il successo del piano per Ga2a e le prospettive di una pace e sicurezza nel lungo termine». Tajani ribadisce il concetto rivolgendosi a Israele affinché «fermi i coloni e impedisca che continuino queste violenze che non servono alla realizzazione del piano di pace». La realtà sul terreno tuttavia non offre molte speranze. Solo pochi giorni fa sei parlamentari Pd erano rimasti bloccati per alcune ore sulla strada di rientro da Gerusalemme a Gerico per l’ennesimo raid israeliano. In Cisgiordania vivono oltre 500mila coloni in insediamenti illegali secondo il diritto internazionale, e sono sempre più aggressivi e impuniti. Il mese di ottobre è stato il peggiore degli ultimi due anni, dice l’Ocha: 264 attacchi contro i palestinesi, che hanno fatto morti, distrutto case, campi, proprietà. È l’annessione graduale ma inesorabile della West Bank, denunciano le associazioni pacifiste. Agli attacchi dei coloni, spesso protetti dall’esercito israeliano, si sommano espropri e checkpoint. Dal 7 ottobre, gli israeliani hanno costruito 1000 nuove barriere in Cisgiordania, scrive l’associazione Peace Now nel suo ultimo rapporto. Secondo il quotidiano Yedioth Ahronoth, sono state costruite o autorizzate circa 48.000 nuove case negli insediamenti illegali solo durante l’ultimo mandato di Netanyahu, entro fine anno saranno 50mila. Sempre nello stesso periodo, circa 26.000 dunam di terra in Cisgiordania (2.600 ettari) sono stati confiscati e dichiarati “terreno statale” da Israele. Per fare un confronto: negli ultimi 27 anni, gli ettari di terra confiscata erano stati 2.800.
Papa Leone preoccupato: “I due Stati la soluzione ma Israele non la accetta”
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di Iacopo Scaramuzzi
Papa Leone preoccupato: “I due Stati la soluzione ma Israele non la accetta”
Il dono più prezioso non è la piastrella che regala al presidente libanese e raffigura i minareti di una moschea accanto a un campanile cristiano, ma le parole che pronuncia sul volo che da Istanbul lo porta a Beirut. Leone XIV inizia la seconda tappa del suo primo viaggio internazionale, e quando è ancora ad alta quota mette in chiaro cosa pensa della guerra di Ga2a, epicentro dell’instabilità mediorientale. «La Santa Sede già da diversi anni pubblicamente appoggia la proposta di una soluzione di due Stati», scandisce in buon italiano: «Sappiamo tutti che in questo momento Israele ancora non accetta quella soluzione, ma la vediamo come l’unica che potrebbe offrire una soluzione al conflitto che continuano a vivere». Una dichiarazione che suona come musica per la leadership libanese, che da mesi subisce i bombardamenti israeliani. Il Libano è l’unico paese mediorientale dove i cristiani sono circa un terzo della popolazione. E dove per prassi costituzionale è cristiano il presidente, Joseph Aoun. Che ieri al palazzo presidenziale della Baabda, dove il Papa è stato accolto con lanci di riso e di petali, ha ricordato quanto disse Giovanni Paolo II: «Il Libano è più di un paese, è un messaggio di libertà e un esempio di pluralismo per l’Oriente e l’Occidente». Ora, però, a rischio di implodere. A causa della «emorragia di giovani e di famiglie che cercano futuro altrove», come l’ha chiamata Leone, a cauI sa della devastante esplosione dell’agosto 2020 al porto di Beirut, a causa della corruzione, a cui Prevost fa un garbato accenno, e dei conflitti settari. E, da ultimo, a causa della guerra con Israele. Leone XIV si muove con diplomazia e franchezza nel groviglio mediorientale. Ad Ankara ha tributato un omaggio alla capacità del presidente turco Recep Tayyip Erdogan di mediare, dialogando con tutti, nelle crisi internazionali. E sul volo dalla Turchia al Libano ha deciso, a sorpresa, di sottoporsi a una breve conferenza stampa, la prima del pontificato, rispondendo a un paio di domande dei giornalisti turchi presenti nel seguito. Con Erdogan, ha raccontato, ha parlato sia di Ucraina, e delle relative «proposte concrete di pace», che di Ga2a. «Noi», ha puntualizzato, «siamo anche amici di Israele e cerchiamo con le due parti di essere una voce mediatrice che possa aiutare a avvicinarci alla soluzione con giustizia per tutti». La carezza attutisce appena il colpo, il messaggio a Israele è chiaro. E del resto, pur filtrata da una certa inclinazione all’understatement molto lontana dallo stile spumeggiante del suo predecessore, questa è la posizione che Leone XIV ha sempre sostenuto. Quando al presidente palestinese Abu Mazen, a inizio novembre, ha assicurato il sostegno della Santa Sede a «porre termine al conflitto, perseguendo la prospettiva della soluzione a due Stati». O quando al presidente israeliano Isaac Herzog, a inizio settembre, ha chiesto di «garantire un futuro al popolo palestinese» ribadendo che la soluzione dei due Stati, accantonata dal governo Netanyahu, rimane la «unica via d’uscita dalla guerra in corso». Il Papa è preoccupato che la guerra a Ga2a investa il già fragile Paese dei cedri, ma è attento a non farsi arruolare. Alla vigilia della sua visita in Libano, Hezbollah che secondo il patriarca maronita Bechera Rai ha «trascinato» il Paese nella guerra – ha rivolto a Leone un appello affinché respinga «l’aggressione e l’ingiustizia» israeliana contro il Libano. Il gruppo armato sciita ieri ha mandato i sostenitori ad accogliere il Papa, con foto di Leone affiancate a quelle del leader Nasrallah, ucciso da Israele. Ma nel primo discorso ufficiale, il Papa esorta le autorità libanesi alla pace, obiettivo che dovrebbe essere «anteposto a tutto», e alla riconciliazione. Se nel mondo «sembra avere vinto una sorta di pessimismo e sentimento di impotenza», dice ai libanesi, «la vostra resilienza è caratteristica imprescindibile degli autentici operatori di pace: l’
opera della pace, infatti, è un continuo ricominciare».
Intervista a Alon Pinkas: “Bibi sa che in aula può perdere, ora è in cerca di una scappatoia”
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di Francesca Caferri
Intervista a Alon Pinkas: “Bibi sa che in aula può perdere, ora è in cerca di una scappatoia”
Alon Pinkas non si nasconde: del premier Netanyahu non è mai stato un fan, anzi. Ex diplomatico, consigliere del presidente Shimon Peres e del premier Ehud Barak, commentatore di Haaretz – il giornale dell’intelligentsia di Tel Aviv – esperto di politica internazionale ma attento osservatore della realtà di casa, è la persona giusta per spiegare al mondo esterno una decisione che è invece tutta interna, come quella del primo ministro di chiedere la grazia proprio ora. Qual è il significato di questa mossa fatta in questo momento? «È una domanda troppo difficile: davvero non è possibile dirlo…». Le ragioni che lo hanno spinto però non sono difficili da indovinare… «No, non lo sono. Netanyahu sa che dall’aula di tribunale può uscire sconfitto. E sa anche che, se pure riuscisse a prolungare ancora il processo per mesi, e quindi a non arrivare a una sentenza prima delle elezioni, non potrebbe presentarsi alle urne con queste accuse di corruzione ancora in piedi. E dunque prova a chiuderle». A Quindi il senso della mossa è chiudere in tempi rapidi… «In realtà le interpretazioni possibili sono due: la prima è quella di chi dice che c’è già un accordo fra il premier e il presidente Herzog, che il perdono è cosa fatta e quindi Netanyahu doveva solo fare la richiesta formale. Se fosse vero, ci attenderebbero un paio di settimane di teatrino politico, di indignazione, poi la grazia verrebbe concessa e la partita sarebbe chiusa. Ma questo scenario non è semplice come si può pensare: un provvedimento di grazia deve passare attraverso il ministero della Giustizia, l’ufficio del Procuratore generale e infine Herzog. Poi ci sarebbe sempre la possibilità di fare appello alla Corte suprema. Se pure fosse possibile arrivare a chiusura, non parliamo di tempi rapidi». E il secondo scenario? «Il secondo scenario è che questo è l’inizio di un negoziato, non la sua fine. Nella sua dichiarazione Netanyahu non ha ammesso alcuna responsabilità, né tantomeno ha chiesto scusa: ha detto che la grazia serve a unire il Paese. E lo ha detto ben sapendo che metà del Paese non è d’accordo: proprio perché lo sa, vuole intavolare un negoziato». Per arrivare dove? «È importante ricordare che già nel 2017, all’inizio del procedimento giudiziario contro di lui, gli fu offerto di patteggiare. Ma accettare il patteggiamento avrebbe richiesto assumersi una responsabilità per l’accaduto e lasciare la politica. Chiunque conosca Netanyahu sa che non accetterebbe mai una cosa così: e infatti, non ha accettato. Dunque ora cerca, con la trattativa, una via di uscita diversa da quella che gli era stata proposta». Ci può essere una via d’uscita senza ammissioni? «Herzog – per dirlo in maniera elegante – non ha mai tenuto una posizione molto forte su questa vicenda. Ma anche se decide di non fare un’opposizione di principio, e anche se è sotto una enorme pressione, non vedo come possa arrivare a una forma di perdono che non preveda ammissioni di colpa». Neanche su richiesta di Trump? Il presidente americano nel discorso alla Knesset di ottobre ha chiesto pubblicamente la grazia… «Questo fa parte della enrome pressione a cui è sottoposto Herzog. Io sono convinto che Trump non abbia chiesto il perdono di sua spontanea volontà, ma che lo abbia fatto per rispondere a una richiesta venuta dalla cerchia di Netanyahu. Gli avranno detto: “In cambio della sua intercessione, il primo ministro si impegna a mantenere la pace a Ga2a e di conseguenza a lei daranno il Nobel per la Pace”. Ma non è così facile: il sistema israeliano prevede una serie di garanzie, di controlli, che negli Stati Uniti non ci sono. Sulla grazia non decide solo il presidente». Che conseguenze avrà tutto questo sulle elezioni, al momento previste per fine 2026? «È presto per dirlo: questa vicenda può chiudersi in tre settimane o andare avanti per mesi. Dipenderà da come e quando finirà. Ma di certo c’è una cosa: i sondaggi dicono che anche se il Likud di Netanyahu resta solido, non avrà i voti per creare una maggioranza di governo. E lui lo sa bene».
La maestrina dell’estremismo
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di Antonio Polito
La maestrina dell’estremismo
Francesca Albanese appartiene a quel genere di persone che vogliono «raddrizzare il legno storto dell’umanità». Per questo il suo «magistero» presso i giovani è pericoloso: perché predica che il mondo non potrà mai essere giusto e felice finché non vincerà la sua Causa. Che nel caso specifico è la causa palestinese. Ma è una tesi che nel corso della storia contemporanea, da Hegel in poi, è stata applicata a qualsiasi cosa: la Nazione, la Classe, la Razza, la Religione. Da questo punto di vista si può dire che Albanese è una fondamentalista. Perché pretende di salvare l’umanità da Israele, per giunta vestendosi dell’autorità dell’Onu. «Fra tutti gli ideali politici, quello di rendere la gente felice è forse il più pericoloso; esso porta invariabilmente al tentativo di imporre agli altri la nostra scala di valori superiori, per far sì che si rendano conto di ciò che a noi sembra della massima importanza per la loro felicità, al fine, per così dire, di salvare le loro anime». Lo ha scritto Karl Popper ne La società aperta e i suoi nemici. Ecco perché Francesca Albanese, pur condannando le violenze dei teppisti pro Pal alla redazione della Stampa, si sente dalla loro parte, ne capisce l’urgenza e le emozioni. E dunque avverte la stampa tutta: «Che sia di monito perché torni a fare il proprio lavoro». Colpirne uno per educarne cento. Ecco perché sale così di frequente in cattedra, novella «maestrina dalla penna rossa» che insegna il Verbo antisionista e corregge gli «errori»; al massimo, se sono in buona fede, li perdona, come fece col sindaco di Reggio Emilia per umiliarlo mentre quello la premiava, ma che non accada mai più. Ed ecco perché è una nemica della società aperta, e cioè del libero dibattito delle idee, della diversità di vedute, della complessità del reale, e del confronto che in democrazia non rinuncia mai a mettere allo stesso tavolo anche le opinioni opposte. È un fondamentalismo pro Pal che si applica perciò anche a chi, anzi forse innanzitutto a chi, è stato più attento alle ragioni dei palestinesi e più critico dei comportamenti di Israele, come ha fatto in questi mesi La Stampa di Torino con i suoi reportage, i suoi commenti e le sue analisi di qualità. L’estremismo non accetta compagnie, ma solo subordinati. Andrea Malaguti, direttore del giornale colpito a cui va la solidarietà del Corriere e dei suoi giornalisti, ha ricordato ieri gli slogan intonati nel corso dell’irruzione: «Giornalista, sei il primo della lista». «Giornalista, ti uccido». E ha aggiunto: «Slogan da Brigate rosse, chissà se lo sanno. Suppongo di no». E se invece lo sapessero? Se invece avessero fatto ciò che hanno fatto proprio perché noi sapessimo che loro lo sanno? Ogni tentativo di banalizzazione, come quello ahimè compiuto dal ministro Piantedosi, il quale semplifica dicendo che per i ragazzi del centro sociale Askatasuna «ogni motivazione ideale» è buona per fare un po’ di teppismo, sottovaluta la potenza che le idee possono avere sul comportamento dei giovani. E invece non dobbiamo dare ragione a chi sui social è tornato a espressioni come «sedicenti pro Pal»: ripetendo il luogo comune di quella sinistra, a sinistra del Pci, che considerava i terroristi rossi come «compagni che sbagliano». Gli stessi «compagni» che nel 1977 uccisero l’ex partigiano Carlo Casalegno, vicedirettore della Stampa, colpevole di essere un «pennivendolo di Stato». So benissimo che oggi in Italia non ci sono le condizioni politiche e sociali per un ritorno del «partito armato». Ma neanche allora, negli anni di piombo, c’erano le condizioni per riprendere la Resistenza imbracciando un fucile. Eppure ci fu chi lo fece, e non furono pochi. Aggiungo che l’appello alla causa palestinese può creare una miscela esplosiva anche perché è una causa internazionale, che è già stata usata per alimentare un sanguinario terrorismo internazionale contro i Paesi occidentali. Insomma: quando suona la campana, come l’altro giorno a Torino, è bene ricordare che suona per ognuno di noi.
Pugni e calci in faccia. Tre italiani aggrediti in casa dai coloni. Tajani: vanno fermati
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di Fabrizio Caccia
Pugni e calci in faccia. Tre italiani aggrediti in casa dai coloni. Tajani: vanno fermati
«Stavamo dormendo quando, alle 5 del mattino, siamo stati attaccati da un gruppo di coloni. Erano in 10, mascherati, armati di bastoni e fucili…». Un racconto drammatico fatto ieri dai tre volontari italiani della missione di solidarietà internazionale «Faz3a», due ragazze e un ragazzo, aggrediti all’alba insieme a una loro collega canadese dai coloni israeliani in Cisgiordania. «E questo è successo in zona A — hanno precisato a Tg3 e Sky Tg24 — quindi dove per legge, anche per gli accordi di Oslo, non dovrebbe esserci alcun tipo di presenza israeliana». E invece è avvenuto: «I coloni ci hanno svegliato al grido di “wake up italians”, sveglia italiani!». Secondo loro tanta violenza si sarebbe scatenata perché «probabilmente sono al corrente del supporto della popolazione italiana alla causa palestinese ed erano ancora più arrabbiati per questo». «Hanno cominciato a picchiarci con dei pugni e a schiaffeggiarci. Ci hanno dato pure dei calci in faccia, nelle costole, nell’addome, ai genitali, lungo le gambe. Io ho un forte dolore alle costole — ha raccontato una delle due ragazze italiane, di 27 anni —. La mia amica del Canada che è qui con me sta molto peggio: ha dei lividi neri per tutta la lunghezza di una gamba e dell’addome. Loro sapevano benissimo che eravamo stranieri e, quando se ne sono andati, dopo aver rubato tutta la nostra roba, ci hanno detto in inglese “Don’t come back here”, cioè non tornate qui». Ma loro hanno risposto all’unisono che torneranno. L’attacco, secondo l’agenzia di stampa palestinese Wafa, è avvenuta nella comunità di Ein al-Duyuk, vicino a Gerico. Dopo il brutale pestaggio, i coloni hanno portato via anche soldi, passaporti e telefoni cellulari alle loro vittime, ricoverate in ospedale e assistite in prima battuta dal sindaco di Gerico e dalla polizia palestinese a cui hanno denunciato l’episodio. Il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, si è subito messo in contatto con il console d’Italia a Gerusalemme: «I feriti non sono gravi e stanno rientrando a Ramallah — ha detto Tajani a caldo —. Si tratta di giovani cooperanti che accompagnano le attività dei palestinesi, portano i bambini a scuola, aiutano gli agricoltori, i pastori, costituiscono una sorta di protezione civile per la popolazione locale». Durissime le parole del titolare della Farnesina: «Proprio l’altro giorno avevamo diffuso una nota congiunta di condanna — firmata da Italia, Francia, Germania e Gran Bretagna — per ciò che stanno facendo i coloni in Cisgiordania. Abbiamo anche avviato delle sanzioni, come Unione Europea, nei confronti di alcuni. Basta aggressioni, non è questo il modo per rivendicare anche le proprie ragioni. La Cisgiordania non deve essere annessa, siamo assolutamente contrari, deve essere rispettata la popolazione civile palestinese». E una condanna ieri è arrivata pure dal ministero degli Esteri del Canada. Ancora Tajani: «È gravissimo inoltre che vengano attaccati villaggi cristiani, non perché i cristiani abbiano più diritto che altri palestinesi, ma perché i cristiani rappresentano un alimento di stabilità e di moderazione in tutto il Medio Oriente. Quindi l’appello che lanciamo al governo di Israele è di fermare i coloni e impedire che continuino queste violenze che non servono alla realizzazione del piano di pace per il quale tutti quanti stiamo lavorando». E lo scontro in Italia torna a farsi politico. L’opposizione va all’attacco: «Il governo italiano deve imporre sanzioni a Israele per la sistematica violenza dei coloni in Cisgiordania», chiede Angelo Bonelli (Avs). E per il suo collega di partito, Nicola Fratoianni, «non bastano le parole di condanna del ministro Tajani, dopo che 3 nostri connazionali sono stati aggrediti e feriti dai coloni israeliani. Il governo Meloni convochi immediatamente alla Farnesina l’ambasciatore in Italia del regime di Netanyahu». E il responsabile della politica estera del Pd, Peppe Provenzano non ha d
ubbi: «Tre italiani sono stati colpiti da coloni in Cisgiordania e il popolo palestinese dopo il cessate il fuoco non è al sicuro. La causa palestinese deve essere la nostra causa». La campagna Faz3a («faz’a» é un termine colloquiale palestinese che vuol dire «aiuto nel momento del bisogno») è sostenuta da varie associazioni italiane ed è coordinata da Assopace Palestina di Luisa Morgantini. Dimessi dall’ospedale di Gerico, ieri, i 4 attivisti sono rientrati a Ramallah e «lasceranno il Paese solo al termine della loro missione», fanno sapere dall’organizzazione.
Il Papa: Israele non accetta due Stati ma è l’unica soluzione al conflitto
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di Gian Guido Vecchi
Il Papa: Israele non accetta due Stati ma è l’unica soluzione al conflitto
È calato il buio e piove a dirotto quando il volo di Leone XIV, da Istanbul, atterra a Beirut. Non è un bel momento, il Papa rimarrà fino a domani nella città che ancora pochi giorni fa, il 23 novembre, ha subìto l’ultimo raid israeliano, un attacco missilistico aereo che ha ucciso il capo militare di Hezbollah Ali Tabatabai nel sobborgo di Dahiyeh, una roccaforte sciita a sud della capitale, poco distante dall’aeroporto. Il senso della seconda tappa del viaggio è tutto nella riposta che Prevost, raggiunti i giornalisti in aereo, ha dato a chi gli chiedeva se avesse parlato con Erdogan di Gaza e dell’Ucraina: «Certamente, abbiamo parlato di tutte e due le situazioni. La Santa Sede, già da diversi anni, appoggia pubblicamente la proposta della soluzione di due Stati. Sappiamo tutti che in questo momento Israele non accetta ancora quella soluzione, ma la vediamo come l’unica al conflitto che continuamente vivono. Noi siamo anche amici di Israele, e cerchiamo di essere con le due parti una voce, diciamo, mediatrice che possa aiutare ad avvicinarci ad una soluzione con giustizia per tutti». Pontefice, del resto, significa «costruttore di ponti» e Leone interpreta il suo ministero alla lettera. Di qui il dialogo con Erdogan che «certamente è d’accordo» sui due Stati, e le considerazioni sul «ruolo importante» che la Turchia e il suo presidente potrebbero avere anche sulla guerra in Ucraina: «Già qualche mese fa, ha aiutato molto a convocare le due parti. Ancora non abbiamo visto una soluzione, purtroppo, però oggi di nuovo ci sono delle proposte concrete per la pace, e speriamo che Erdogan, con il suo rapporto con i presidenti di Ucraina, Russia e Stati Uniti, possa aiutare in questo senso a promuovere un dialogo, il cessate il fuoco, e vedere come risolvere questa guerra». L’ultimo appuntamento del Papa in Turchia è stata la «liturgia divina» celebrata con il patriarca ortodosso di Costantinopoli Bartolomeo I. E l’invito a «essere costruttori di pace in questo tempo di sanguinosi conflitti e violenze in luoghi vicini e lontani» suonava come una premessa al Libano. Nel palazzo presidenziale, sulla collina di Baabda, Prevost è stato ricevuto dal presidente libanese Joseph Aoun: «Santo Padre, la imploriamo di dire al mondo che non moriremo, né ce ne andremo, né ci dispereremo, né ci arrenderemo». Rivolto alle autorità, il Papa si è soffermato sulla «resilienza» dei libanesi, perché chi opera per la pace deve saper «ricominciare» ogni volta: «Quasi in tutto il mondo sembra avere vinto una sorta di pessimismo e sentimento di impotenza. Le grandi decisioni sembrano essere prese da pochi, spesso a scapito del bene comune, e ciò appare a molti come un destino ineluttabile». Ma non basta che tacciano le armi, c’è la «via ardua della riconciliazione» da percorrere: «Se non si lavora a una guarigione della memoria, a un avvicinamento tra chi ha subito torti e ingiustizie, difficilmente si va verso la pace. Ognuno resta prigioniero del suo dolore».
«A Gaza uccise 356 persone da inizio tregua»
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di Redazione
«A Gaza uccise 356 persone da inizio tregua»
Il ministero della Salute di Gaza, controllato da Hamas, afferma che 356 persone sono state uccise negli attacchi israeliani a Gaza dopo il cessate il fuoco. Secondo il ministero nelle ultime 24 ore sono stati confermati altri tre palestinesi uccisi e due feriti, a seguito dei raid israeliani sulla Striscia. Dall’entrata in vigore del cessate il fuoco, l’11 ottobre, il ministero ha dichiarato di aver registrato anche 908 feriti. Sono stati recuperati 607 corpi di persone uccise in attacchi precedenti. Il bilancio totale delle vittime a Ga2a dal 7 ottobre 2023 è salito a 70.103.