Rassegna stampa del 15 e 16 novembre 2025

Le rassegne stampa del 15 e 16 novembre delineano un quadro mediatico e diplomatico segnato da un crescente sbilanciamento narrativo contro Israele, mentre le dinamiche geopolitiche intorno a Gaza si intrecciano con giochi di potere globali. Nella prima giornata emerge il “Risikò” all’ONU: il Piano Trump – che prevede una forza di stabilizzazione e un governo transitorio – si scontra con la risoluzione russa che legittima la permanenza di Hamas e rifiuta ogni smilitarizzazione. L’ipotesi di un tacito scambio USA-Russia, con concessioni sull’Ucraina in cambio del via libera sul dossier Gaza, rafforza la percezione di una crisi usata come merce geopolitica più che come emergenza di sicurezza. Su questo scenario pesa anche il blocco arabo-egiziano-qatariota, deciso a imporre condizioni che escludono un ruolo israeliano e subordinano ogni disarmo di Hamas a concessioni politiche da parte di Gerusalemme. La retorica delle accuse – come quella egiziana sui presunti ostacoli israeliani agli aiuti – si riflette in un ecosistema mediatico incline a enfatizzare un presunto squilibrio di violenze, soprattutto in Cisgiordania.

Il 16 novembre la narrazione vira sulla catastrofe umanitaria provocata dal maltempo, immediatamente strumentalizzata per rafforzare l’accusa di “punizione collettiva”. Le immagini delle tendopoli allagate e i dati non verificati dei camion fermi al valico vengono presentati come prova dell’ostruzionismo israeliano, mentre resta sullo sfondo il ruolo di Hamas nella gestione distorta degli aiuti e nel tentativo di riprendere il controllo del territorio attraverso tassazioni e sequestri. In parallelo, il fronte diplomatico si complica: il Piano Trump torna al voto ONU, contrastato dalla Russia, mentre indiscrezioni parlano di una possibile divisione di Gaza che rischierebbe di creare un nuovo epicentro di instabilità. La telefonata di Putin a Netanyahu alla vigilia del voto alimenta il sospetto di una partita a scacchi più ampia, in cui Gaza diventa pedina di equilibri globali.

In questo doppio assalto – geopolitico e umanitario – emergono poche voci dissonanti. Da un lato l’ambasciatore israeliano Peled, che denuncia la battaglia per l’opinione pubblica occidentale e richiama l’Europa alla minaccia del terrorismo. Dall’altro Bernard-Henri Lévy, che su La Stampa mette a nudo l’antisemitismo travestito da antisionismo nelle piazze occidentali, mostrando come l’offensiva contro Israele sia ormai diventata una crisi ideologica dell’Occidente stesso.

Intervista a Jonathan Peled – «Piazze anti-israeliane ma vogliamo rilanciare i rapporti con l’Italia»

L’Ambasciatore israeliano Jonathan Peled offre una prospettiva chiara e strategica in linea con la necessità di difesa dello Stato ebraico. L’articolo evidenzia che la vera sfida di Israele è il pregiudizio diffuso nell’opinione pubblica e nei media occidentali. Peled ribadisce che Israele ha completato i suoi impegni nella prima fase della tregua, ritirandosi e consentendo gli aiuti, a differenza di Hamas che non ha rilasciato tutti gli ostaggi. Soprattutto, l’Ambasciatore mette in guardia l’Europa: combattendo Hamas, Israele difende l’Occidente intero dal terrorismo, invitando a “svegliarsi” di fronte alla presenza di cellule di Hamas in Paesi come la Germania. L’articolo non si sottrae alle critiche, annunciando una futura indagine interna sul fallimento del 7 ottobre e sulla risposta militare, prova di trasparenza democratica.

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Da New York ai fuochi di Parigi contro gli “insoumis” antisemiti

L’analisi di Bernard-Henri Lévy è un testo cruciale che sposta il dibattito dal fango di Gaza all’infezione ideologica in Occidente, in perfetta linea con l’obiettivo di criticare la propaganda anti-israeliana con argomenti di merito. Lévy fornisce una diagnosi netta dell’antisemitismo mascherato da anti-sionismo in Europa e negli Stati Uniti. L’autore porta prove documentate, citando le parole del candidato progressista di New York, Zohran Mamdani, che accusa l’IDF di “allacciare lo stivale della polizia newyorkese sul collo” dei manifestanti, un clamoroso riciclo di un classico cliché antisemita. Lévy condanna anche il sostegno dei leader francesi de La France Insoumise (LFI), come Mélenchon, che giustificano l’atto di teppismo di lanciare fumogeni e provocare il panico durante il concerto dell’Orchestra Filarmonica di Israele a Parigi. L’articolo dimostra come la “strumentalizzazione della causa palestinese” da parte di questi gruppi oscuri la bussola etica dell’Occidente e renda ciechi di fronte a veri drammi come gli Uiguri o il Sudan.

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Witkoff vedrà il leader di Hamas

L’articolo del Corriere riporta i dettagli di un piano statunitense che mira a dividere la Striscia di Gaza a lungo termine in una “zona verde” (ricostruzione, sotto controllo israeliano e internazionale) e una “zona rossa” da lasciare “in rovina”, dove le forze di interposizione si schiererebbero al fianco dei soldati israeliani. Questa prospettiva, pur cercando una transizione, è ambigua e imperfetta, e rischia di legittimare una frammentazione permanente dell’enclave, lasciando spazio al terrorismo in una zona diroccata. L’articolo menziona anche il canale di comunicazione aperto tra l’inviato speciale americano Steve Witkoff e il capo negoziatore di Hamas, Khalil al Hayya, sottolineando la necessità per Washington di progredire alla Fase 2 del piano per Gaza. Il focus è sulla geopolitica, ma la proposta di una “zona rossa” non è strategicamente perfetta per l’obiettivo di sicurezza totale.

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Intervista a Badr Abdelatty – Abdelatty “L’Egitto non accetterà che Israele divida la Striscia ai palestinesi la guida della fase 2”

L’intervista al Ministro degli Esteri egiziano Badr Abdelatty è un chiaro manifesto della retorica anti-israeliana. L’Egitto respinge in modo assoluto l’idea americana di dividere Gaza o di avviare la ricostruzione nella zona controllata da Israele, definendo questi tentativi “inaccettabili” e un minare alle prospettive di pace. L’ostacolo agli aiuti umanitari, secondo il Ministro, è dovuto esclusivamente all’”occupazione israeliana” del valico di Rafah, ignorando le responsabilità di Hamas e la complessità logistica. Inoltre, l’Egitto pone un veto su qualsiasi piano che preveda un “allontanamento” dei palestinesi e insiste affinché la guida della Striscia rimanga all’ANP, senza affrontare la questione cruciale del disarmo di Hamas.

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Tendopoli nel fango a Gaza Onu, Putin sente Netanyahu

L’articolo si concentra in modo iper-emotivo sulla catastrofe delle inondazioni nei campi profughi di Gaza, trasformando un disastro meteorologico in una chiara accusa a Israele per “violazione del diritto internazionale” attraverso le restrizioni agli aiuti. La retorica è carica: si descrivono fogne esondate, tende piene di “melma maleodorante” e la diffusione di nuove malattie. La fonte principale e quasi esclusiva è l’UNRWA (Philippe Lazzarini e Natalie Boucly), che spinge la narrativa dei “6mila camion bloccati”, una cifra allarmante che però non è verificata in modo indipendente e omette la complessità dei controlli di sicurezza. L’articolo, pertanto, manca di pluralità e oggettività nel suo resoconto, non menzionando minimamente i problemi di governance interna alla Striscia, la confusione logistica o il ruolo attivo di Hamas (riportato da altre testate) nel dirottamento e tassazione degli aiuti. Il pezzo, in sostanza, serve unicamente a rafforzare il frame della “punizione collettiva” israeliana senza offrire un’analisi equilibrata.

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