Rassegna stampa del 17 novembre 2025
L’agenda mediorientale di oggi è dominata da due fattori cruciali: la ferma opposizione di Israele alla creazione di uno Stato palestinese e la pressione diplomatica internazionale volta a forzare una svolta. Nonostante gli sforzi dell’amministrazione Trump per imporre il suo piano di pace a Gaza, culminato nel voto di una bozza di risoluzione ONU, il Governo Netanyahu ha ribadito la sua linea rossa invalicabile. Il premier, supportato dai suoi ministri, ha dichiarato che lo Stato palestinese non esisterà “in nessun territorio a ovest del Giordano” e in particolare non “nel cuore della Terra di Israele”. Questa posizione, dettata dall’imperativo di sicurezza dopo il pogrom del 7 ottobre, si scontra direttamente con le richieste internazionali.
Il fronte più caldo della pressione è quello saudita. Riad ha chiarito che qualsiasi normalizzazione dei rapporti con lo Stato ebraico è condizionata a una “chiara proposta diplomatica per la creazione di uno Stato palestinese” e non può avvenire con l’attuale esecutivo. Gli Accordi di Abramo, promossi da Washington, sono percepiti oggi più come una “idea entusiastica americana che una realtà”. L’Arabia Saudita sfrutta l’interesse americano per il partenariato strategico, chiedendo in cambio un patto di difesa e l’accesso ad armamenti avanzati, come gli F-35. Questo negoziato, che fonti israeliane temono possa minare il Vantaggio Militare Qualitativo (QMV) di Israele, è un chiaro tentativo di usare l’asse Usa-Riad per imporre una soluzione politica inaccettabile per Gerusalemme. La stampa mainstream, come Repubblica e Corriere della Sera, si limita a riportare l’analisi geopolitica, spesso evidenziando come la rigidità di Israele sia il principale ostacolo alla pace regionale.
A livello di sicurezza, l’attenzione mediatica si concentra sull’incidente al confine libanese, dove l’IDF ha sparato contro i caschi blu dell’UNIFIL, giustificando l’accaduto come un “errore” dovuto al maltempo. Sebbene l’IDF abbia ammesso l’errore, questo episodio è immediatamente amplificato per alimentare la narrazione di una “tensione alle stelle”, oscurando il contesto più ampio: le continue incursioni israeliane nel Sud del Libano, necessarie per impedire il riarmo di Hezbollah e mantenere la sicurezza al confine Nord. L’obiettivo strategico di Israele rimane, come ribadito dal capo di stato maggiore Zamir, lo “Smantellamento di Hamas e la smilitarizzazione della Striscia”, un obiettivo che i media tendono a minimizzare o a inquadrare in modo esclusivamente colpevolista.
Infine, la narrativa anti-israeliana raggiunge nuovi picchi di delegittimazione con interventi come quello dello scrittore David Grossman, che nell’intervista su La Stampa dichiara che Israele ha commesso “errori e crimini” e si sente in dovere di usare la parola “genocidio” a fronte delle vittime civili. Questo tipo di attacco frontale, emotivo e decontestualizzato, fa il gioco della propaganda, riducendo un conflitto complesso a una mera opposizione tra vittima e aguzzino, un meccanismo che Il Foglio definisce efficacemente come i “Due minuti d’odio” orwelliani, sintomo di una narrazione mediatica viziata e profondamente ostile a Israele.
I Due Minuti d’Odio: la profezia di Orwell si è avverata
L’articolo coglie nel segno la degenerazione del dibattito su Israele, che non è più un’analisi complessa, ma una rituale e coordinata dimostrazione di ostilità. Santus utilizza la potente metafora orwelliana dei “Due minuti d’odio” per descrivere il clima di accusa automatica e furia morale che ha trasformato Israele nel capro espiatorio globale. Il pezzo smaschera l’ipocrisia di un’informazione che, anziché contestualizzare, si accoda alla narrazione più emotiva e meno fondata, contribuendo a creare un’atmosfera di odio collettivo.
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Intervista a Vali Nasr – «A Riad non bastano gli F-35 E con l’Iran non è finita»
L’intervista al politologo Vali Nasr fornisce un’analisi dettagliata, ma non perfetta, sullo stallo degli Accordi di Abramo e la normalizzazione con l’Arabia Saudita. L’articolo riconosce che il piano di pace di Trump non sta funzionando e che Riad, sensibile all’opinione pubblica araba, non può accettare la normalizzazione finché la guerra a Gaza non sarà finita. Tuttavia, il pezzo è sbilanciato nel momento in cui identifica nella “posizione di Israele sulla creazione di uno Stato palestinese” il nodo centrale e insuperabile. Questa inquadratura, pur riportando una realtà diplomatica, manca di un’analisi profonda sull’origine della fermezza israeliana, ovvero l’imperativo di sicurezza dopo il 7 ottobre. Accettare uno Stato palestinese governato da entità terroristiche rappresenta un rischio vitale, e l’articolo non riesce a bilanciare adeguatamente questo elemento rispetto alla pressione diplomatica.
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Intervista a David Grossman – “Israele ha compiuto errori e crimini Doveva essere casa, non fortezza”
Questa intervista allo scrittore israeliano David Grossman è l’esempio più lampante di come il giornalismo possa trasformare l’autocritica in una pericolosa arma di propaganda. Grossman spinge la sua analisi fino a dichiarare che Israele ha commesso “errori e crimini” e confessa il suo dilemma nell’usare la parola “genocidio” per descrivere la risposta militare a Gaza. Simili affermazioni, cariche di emotività e totalmente prive di contestualizzazione geopolitica e militare, ignorano la realtà della guerra di annientamento condotta da Hamas e la necessità di difesa dello Stato. Equiparare le azioni di Israele, volte a smantellare un’organizzazione terroristica, a crimini internazionali (con il rischio di evocare paralleli storici abietti, come accade spesso in questo tipo di narrazione) è un atto di delegittimazione estrema. L’articolo fornisce munizioni intellettuali a chi cerca di isolare e demonizzare Israele nel consesso internazionale.
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