Rassegna stampa del 2 dicembre 2025
La stampa di oggi ruota attorno a tre fili: la crescente pressione diplomatica attorno a Netanyahu (e il possibile asse con Washington), la crisi umanitaria e la questione degli ostaggi a Gaza, e il clima di tensione internazionale — dagli scontri con Hezbollah alle minacce degli Houthi — che allarga il conflitto regionale.
In Italia dominano anche i temi della sicurezza interna: sfregi antisemiti e proteste nelle università vengono collegati alla polarizzazione sull’evento in Medio Oriente. Molti articoli oscillano fra cronaca, commento politico e strumentalizzazione: ci sono pezzi che valorizzano il sostegno internazionale ad Israele e altri che, generalizzando sofferenze e responsabilità, offrono narrazioni parziali.
Vigliacchi antisemiti, sconfiggeremo pure voi
Nirenstein analizza il quadro politico e militare con rigore, partendo dai fatti e non dalle reazioni emotive. Ricostruisce la cornice internazionale in cui si muove Israele, evidenziando come molte critiche rivolte allo Stato ebraico ignorino contesto, minacce regionali e responsabilità dirette di Hamas. Il pezzo distingue chiaramente tra operazioni difensive, propaganda anti-israeliana e narrazioni distorte, insistendo sulla necessità di valutare le accuse con fonti verificate e non di parte.
Leggi l'articolo
di Fiamma Nirenstein
Vigliacchi antisemiti, sconfiggeremo pure voi
Quando ancora speravamo di poter rivedere a casa i bambini Kfir e Ariel Bibas, testoline rosse, con la loro mamma Shiri, ho visto una donna strappare dal muro la loro fotografia, farne a pezzi con le unghie la faccina; qualcuno, nella realtà dei fatti intanto li strangolava a Ga2a. Adesso, ieri i vandali che hanno assalito la sinagoga Beit Michael a Monteverde hanno insozzato la lapide di Stefano Gaj Tachè, il bambino ucciso a due anni da terroristi antisemiti mentre usciva dal Tempio maggiore. Nella Shoah sono morti un milione e mezzo di bambini ebrei. Così le 4 sorelline di mio padre, e il ragazzo Moshe, suo adorato fratello. Il 4 ottobre del 1943 a Poznan il Reichsfuhrer Heinrich Himmler spiegò agli ufficiali nazisti che avrebbero dovuto uccidere anche tutti i bambini così da terminare per sempre l’esistenza del popolo ebraico e da evitare vendette. Yahya Sinwar, nei suoi ordini scritti a mano per i carnefici del 7 ottobre, ordinava alle Nukbe di Hamas di fare a pezzi, violentare, bruciare e rapire anche i bambini in braccio alle mamme e alle nonne, e così fecero. Adesso a Roma vediamo i loro parenti, animali antisemiti che minacciano la civiltà, la morale, la nostra pelle e quella di tutto il mondo democratico e libero, dove le donne, i gay, i dissidenti, non vengono perseguitati come in Iran, o a Ga2a, ma onorati. Dopo la guerra… Gli ebrei sono tornati a casa, in Israele o dove volevano, contro ogni previsione hanno resuscitato una vita di comunità ovunque, hanno uno dei tassi di natalità più alti del mondo fra le democrazie, i bambini percorrono felici le vie di Gerusalemme e di Tel Aviv e della Piazza di Roma. I nazisti sono stati sconfitti. Dopo Sinwar, Hamas è a pezzi rintanato in quel che resta nelle gallerie, gli ebrei non sono mai stati così forti. Abbiamo pianto nel ricostruire la nostra difesa, nel ritrovare noi stessi dopo che ci hanno toccato i bambini, abbiamo puntato i piedi e fatto del nostro meglio, dal ghetto di Roma a Kfar A2A. Se voi, vigliacchi nazisti, comunisti, jihadisti pensate di poter distruggere il Popolo ebraico, di spaventarci, se immaginate «Palestina libera» (libera di uccidere, naturalmente) e «gli ebrei in America» come cantavate attaccando il Tempio, se fantasticate che la vostra negazione della conoscenza, dei pensiero, dei diritti umani, della libertà in nome dell’odio antisemita e antioccidentale terrorizzi il popolo ebraico, lo metta in fuga, bene, sappiate che state solo risvegliando tutta la potenza del pensiero e del sentimento di identità che da 2.700 anni, nato e cresciuto in Israele, tiene insieme il popolo più antico, insegna ai suoi bambini la libertà e l’eguaglianza. E anche, come difendere la propria identità e la propria casa, con le unghie e coi denti, e con la benedizione internazionale di chi capisce che quelle frange rabbiose sono parte di una guerra geopolitica che vede da una parte le democrazie, dall’altra i tiranni. In una parola: vigliacchi, sarete sconfitti.
Ancora a Gaza i corpi di due ostaggi, la Croce rossa e Hamas li cercano
Leggi l'articolo
di Gabriella Colarusso
Ancora a Gaza i corpi di due ostaggi, la Croce rossa e Hamas li cercano
Sono gli ultimi due ostaggi rimasti a Gaza: il sergente maggiore Ran Gvili, poliziotto israeliano ucciso il 7 ottobre nel kibbutz Alumim, e Sudthisak Rinthalak, cittadino thailandese freddato dai miliziani armati di Hamas nel kibbutz di Be’eri. Dalla consegna dei loro corpi dipende la chiusura formale della fase uno del piano Trump, che dovrebbe accelerare il passaggio alla fase due, sulla quale ci sono ancora molti nodi da sciogliere, a cominciare dalla composizione e dal mandato della forza di stabilizzazione internazionale. La Croce rossa sta cooperando con Hamas nella ricerca delle salme. Ieri sembrava che una potesse essere restituita, ma la notizia è stata smentita in serata. S Nel frattempo non si fermano le operazioni militari dell’esercito israeliano nella Striscia. L’Idf ha comunicato di aver «identificato 2 terroristi in due distinti incidenti mentre attraversavano la linea gialla nel nord di Gaza: rappresentavano una minaccia» e sono stati uccisi. Sono informazioni impossibili da verificare, perché l’accesso a Gaza resta vietato alla stampa internazionale anche a due mesi dall’avvio della tregua. Sabato due fratellini di 10 e 12 anni, Fadi e Juma Tamer Abu Assi, sono stati uccisi in un attacco di droni a est di Khan Yunis. Lo zio ha raccontato che stavano raccogliendo legna perché il padre è bloccato sulla sedia a rotelle e non può farlo.
Esecuzioni, pestaggi, espulsioni. Un giorno come un altro in Cisgiordania
Il pezzo descrive la situazione quotidiana in Cisgiordania come uno stato di continui abusi: esecuzioni, pestaggi ed espulsioni presentati come fenomeni diffusi e normalizzati. L’articolo utilizza linguaggio fortemente emotivo e casi eclatanti per costruire una narrazione di oppressione sistematica, con scarsa evidenza di pluralità di fonti istituzionali o dati contestualizzati sul quadro giudiziario o militare.
Leggi l'articolo
di Umberto De Giovannangeli
Esecuzioni, pestaggi, espulsioni. Un giorno come un altro in Cisgiordania
Un giorno di ordinaria violenza. Lo racconta su Haaretz da Amira Hass: “Da venerdì 7 novembre, le nostre coraggiose forze dell’Idf occupano il quartiere di Malul, nella parte sud-occidentale di Ya’bad, nel nord della Cisgiordania. Hanno fatto irruzione in sei case e hanno cacciato le 11 famiglie che ci vivevano, che da allora vagano tra le case di parenti e amici”. Violenza legalizzata. Umiliazioni quotidiane. Esecuzioni sommarie che rimangono impunite. Le squadracce fasciste dei coloni, i soldati che li sostengono, il governo che li copre, non chiedono la carta d’identità a quelli che aggrediscono. «Stavamo dormendo quando, alle 5 del mattino, siamo stati attaccati da un gruppo di coloni. Erano in 10, mascherati, armati di bastoni e fucili…». Il video che mostra l’esecuzione a freddo di due palestinesi da parte dei soldati israeliani a Jenin ha fatto il giro del mondo. Un po’ d’indignazione, qualche lacrima di coccodrillo, il tempo di un clic e si fa avanti. Ma non per tutti è così. Amira Hass conosce la Cisgiordania come le sue tasche. L’ha vissuta, l’ha raccontata negli anni. Con reportage che le sono valsi svariati riconoscimenti internazionali, ha documentato la violenza legalizzata dei coloni, i pogromisti ebrei che hanno fatto della Cisgiordania il “regno di Giudea e Samaria”. Il “regno” dei fanatici di Eretz Israel. Un “regno” supportato da un governo fascista. Espulsione, perdita dei mezzi di sussistenza, interruzione degli studi: solo un altro giorno come tanti in Cisgiordania. Un giorno come tanti in Cisgiordania. Un giorno di ordinaria violenza. Raccontato magistralmente su Haaretz da Amira Hass: “Da venerdì 7 novembre, le nostre coraggiose forze dell’Idf occupano il quartiere di Malul, nella parte sud-occidentale di Ya’bad, nel nord della Cisgiordania. Hanno fatto irruzione in sei case e hanno cacciato le 11 famiglie che ci vivevano, che da allora vagano tra le case di parenti e amici. I soldati hanno messo il loro quartier generale in una delle case e in un laboratorio di vetro e alluminio al piano terra. Il laboratorio è il mezzo di sussistenza per sei famiglie e i suoi sei lavoratori sono stati costretti a fermarsi, ha detto il proprietario, Ali Kilani, 63 anni. La maggior parte delle scuole di Ya’bad sono state chiuse e i bambini sono passati all’apprendimento online. Dopo che Kilani ha contattato l’amministrazione civile israeliana, gli è stato permesso di entrare nella sua casa, prendere alcuni effetti personali e occuparsi del pollame allevato dalla famiglia: 45 polli, sette tacchini e uccelli ornamentali. È entrato nella sua casa per la prima volta quattro giorni dopo l’occupazione. La seconda volta, venerdì scorso, ha trovato le carcasse del pollame. Alcuni uccelli ornamentali erano apparentemente volati via perché le loro gabbie erano state lasciate aperte. C’è anche un apiario nella grande area che circonda la casa, che aiuta a sostenere il sostentamento della famiglia. Kilani teme che senza prendersi cura dell’apiario, le api non torneranno. All’interno della casa ha trovato disordine e ha visto molti soldati sparsi sui materassi. Accompagnato dai soldati, è entrato nel laboratorio e ha visto che gli attrezzi e le materie prime erano spariti. Ha anche notato vestiti civili sparsi ovunque e manette di plastica sparse in giro. Si tratta – spiega Hass – di
una pratica militare sempre più segnalata: come a Tulkarm, nei campi profughi di Nablus e nella stessa Ya’bad, l’esercito sequestra una casa e la trasforma in un centro di interrogatorio. Alcune persone vengono arrestate. Secondo fonti uf?ciali palestinesi, dal momento dell’occupazione un residente di Ya’bad è stato arrestato, il 20 novembre. Non si sa se sia stato interrogato in questa casa. Insomma, un non-evento dal nostro punto di vista israeliano, un altro giorno in Cisgiordania: l’espulsione di decine di persone dalle loro case, la perdita dei mezzi di sussistenza, l’interruzione degli studi, la scomparsa dei beni e i danni alla proprietà. Il portavoce dell’Idf ha risposto alla domanda sullo scopo dell’occupazione: “Il 7 novembre, alcuni sospetti del villaggio di Ya’bad hanno bloccato una strada usata dai civili (cioè gli israeliani – A.H) nella regione con pietre e pneumatici, mettendo così in pericolo la vita dei residenti. Si è quindi deciso di mettere una presenza militare permanente nel villaggio per prevenire il terrorismo nella zona. Dopo aver esaminato le possibili alternative, il 9 novembre il comandante autorizzato ha ?rmato un ordine di sequestro della casa. L’ordine è stato pubblicato come richiesto e successivamente prorogato dopo che è stato stabilito che era ancora necessaria ‘una presenza militare continua nel villaggio’. L’unità del portavoce dell’Idf non ha risposto alla domanda su chi fosse il livello autorizzato e se ciò fosse stato fatto con l’approvazione del procuratore generale militare. All’unità del portavoce dell’Idf è stato anche chiesto: ‘Pensate che questo sia il giusto tipo di educazione per soldati di 19 e 20 anni, che ogni volta che il loro comandante lo desidera, espellono le persone dalle loro case e usano le loro case, le loro proprietà, la loro elettricità e la loro acqua?’. A questa domanda non abbiamo ricevuto alcuna risposta. L’unità del portavoce dell’Idf ha concluso la sua risposta con la strana affermazione che ‘ad oggi non sono state presentate obiezioni all’ordine’. Come se, in assenza di obiezioni, le persone accettassero di essere sradicate dalle loro case e di vederle trasformate in basi militari. Questo è successo venerdì scorso. Alla fine di questa settimana, la casa era ancora occupata”. Non è un caso isolato. È prassi quotidiana. “Ecco come si presenta la vendetta collettiva di routine da parte di un esercito che si prepara a governare per sempre su una popolazione che considera superiore. Questo è l’esercito che, da quando gli Accordi di Oslo hanno istituito l’Autorità Palestinese, si considera esente da tutti i suoi obblighi ai sensi del diritto internazionale nei confronti della popolazione occupata”, conclude Hass. Violenza legalizzata. Umiliazioni quotidiane. Campi vandalizzati. Esecuzioni sommarie che rimangono impunite. Le squadracce fasciste dei coloni, i soldati che li sostengono, il governo che li copre, non chiedono la carta d’identità a quelli che aggrediscono, picchiano, umiliano. «Stavamo dormendo quando, alle 5 del mattino, siamo stati attaccati da un gruppo di coloni. Erano in 10, mascherati, armati di bastoni e fucili…». Un racconto drammatico fatto ieri dai tre volontari italiani della missione di solidarietà internazionale «Faz3a», due ragazze e un ragazzo, aggrediti all’alba insieme a una loro collega canadese dai coloni israeliani in Cisgiordania. «E questo è successo in zona A — hanno precisato a Tg3 e Sky Tg24 — quindi dove per legge, anche per gli accordi di Oslo, non dovrebbe esserci alcun tipo di presenza israeliana». E invece è avvenuto: «I coloni ci hanno svegliato al grido di “wake up italians”, sveglia italiani!». Secondo loro tanta violenza si sarebbe scatenata perché «probabilmente sono al corrente del supporto della popolazione italiana alla causa palestinese ed erano ancora più arrabbiati per questo». «Hanno cominciato a picchiarci con dei pugni e a schiaffeggiarci. Ci hanno dato pure dei calci in faccia, nelle costole, nell’addome, ai genitali, lungo le gambe. Io ho un forte dolore alle costole — ha raccontato una delle due ragazze italiane, di 27 anni —. La mia amica del Canada che è qui con me sta molto peggio: ha dei lividi neri per tutta la lunghezza di una gamba e dell’addome. Loro sapevano benissimo che eravamo stranieri e, quando se ne sono andati, dopo aver rubato tutta la nostra roba, ci hanno detto in inglese “Don’t come back here”, cioè non tornate qui». Ma loro hanno risposto all’unisono che torneranno. L’attacco, secondo l’agenzia di stampa palestinese Wafa, è avvenuto nella comunità di Ein al-Duyuk, vicino a Gerico. Dopo il brutale pestaggio, i coloni hanno portato via anche soldi, passaporti e telefoni cellulari alle loro vittime, ricoverate in ospedale e assistite in prima battuta dal sindaco di Gerico e dalla polizia palestinese a cui hanno denunciato l’episodio. In Italia, insorge l’opposizione: «Il governo italiano deve imporre sanzioni a Israele per la sistematica violenza dei coloni in Cisgiordania », chiede Angelo Bonelli (Avs). Per Nicola Fratoianni, leader di Sinistra italiana, «non bastano le parole di condanna del ministro Tajani, dopo che 3 nostri connazionali sono stati aggrediti e feriti dai coloni israeliani. Il governo Meloni convochi immediatamente alla Farnesina l’ambasciatore in Italia del regime di Netanyahu». Incalza il responsabile della politica estera del PD, Peppe Provenzano: «Tre italiani sono stati colpiti da coloni in Cisgiordania e il popolo palestinese dopo il cessate il fuoco non è al sicuro. La causa palestinese deve essere la nostra causa». “Si tratta di giovani cooperanti che accompagnano le attività dei palestinesi, portano i bambini a scuola, aiutano gli agricoltori, i pastori, costituiscono una sorta di protezione civile per la popolazione locale”, puntualizza il ministro degli Esteri Antonio Tajani”. “Quindi l’appello che lanciamo al governo di Israele è di fermare i coloni e impedire che continuino queste violenze che non servono alla realizzazione del piano di pace per il quale tutti quanti stiamo lavorando», conclude il titolare della Farnesina, che forse dimentica che nel governo a cui si appella dominano due ministri sfacciatamente dalla parte dei coloni: Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich e che solo qualche giorno fa il ministro della Difesa israeliano Israel Katz (del partito Likud, lo stesso del premier Netanyahu) ha sdegnosamente negato che i coloni in armi siano dei terroristi ma al massimo dei “disturbatori dell’ordine pubblico”. La campagna Faz’a («faz’a» è un termine colloquiale palestinese che vuol dire «aiuto nel momento del bisogno») è sostenuta da varie associazioni italiane ed è coordinata da Assopace Palestina di Luisa Morgantini. Dimessi dall’ospedale di Gerico, domenica, i 4 attivisti sono rientrati a Ramallah e «lasceranno il Paese solo al termine della loro missione», fanno sapere dall’organizzazione. Questa è la quotidianità nel “regno dei coloni”. Il regno della violenza legalizzata. Il terrorismo che si fa Stato.
Gli Houti minacciano dalla Siria
Leggi l'articolo
di Roberto Motta
Gli Houti minacciano dalla Siria
Rafforzate le strutture difensive delle alture del Golan, il fronte settentrionale di Israele non è più solo un problema libanese. In una seduta a porte chiuse della Commissione affari esteri e difesa della Knesset, il Parlamento israeliano, il ministro della difesa Israel Katz ha espresso una valutazione che non lascia spazio a illusioni: Israele non si sta dirigendo verso alcun accordo di pace con la Siria e la situazione della sicurezza sulle alture del Golan si sta rapidamente deteriorando. «Oggi in Siria ci sono forze che stanno attivamente valutando l’idea di invadere gli insediamenti nel Golan», ha avvertito Katz ai membri del comitato, secondo diverse fonti presenti. Ha poi lasciato cadere un dettaglio ancora più allarmante: «Gli Houthi stanno mantenendo una presenza all’interno della Siria e stanno valutando la possibilità di lanciare infiltrazioni di terra nelle comunità israeliane sulle alture del Golan». Sì, gli stessi Houthi che da oltre un anno lanciano missili balistici dallo Yemen verso Eilat, ora, secondo l’apparato di difesa israeliano, si stanno posizionando a pochi chilometri dalle case israeliane sul Golan. «Questo fa parte dello sforzo sistematico dell’Iran di circondarci con un anello di fuoco», ha dichiarato al Jerusalem Post, in condizione di anonimato, un alto ufficiale del Comando Settentrionale dell’IDF. «Non sono riusciti a distruggerci da Gaza, stanno sanguinando in Libano, quindi ora Teheran sta aprendo un terzo fronte attivo, questa volta dal territorio siriano». La presenza degli Houthi è solo un tassello di un puzzle più ampio e inquietante. Le valutazioni dell’intelligence condivisa con il comitato rivelano che la Jihad Islamica Palestinese (JIP) ha notevolmente ampliato la sua presenza armata intorno a Damasco negli ultimi mesi, in particolare nei distretti profughi palestinesi di Yarmouk e nelle aree circostanti. I combattenti della JIP, temprati dalle battaglie di Gaza e Jenin, ora godono di libertà di movimento e di scorte di armi all’interno della Siria, uno sviluppo che conferisce al gruppo terroristico sostenuto dall’Iran una nuova profondità strategica mai avuta prima. Ancora più preoccupante: il governo siriano, non solo tollera questo aumento di tensione, ma vi si impegna attivamente. Damasco ha nominato un inviato dedicato per mantenere contatti diretti e di alto livello con la leadership della Jihad islamica. Incalzata dalla Israel Broadcasting Corporation (Kan), una fonte della sicurezza siriana ha insistito: «Non c’è alcuna intenzione di consentire alcuna azione militare contro Israele dal suolo siriano». Questa affermazione, tuttavia, suona falsa a Gerusalemme. «Abbiamo già sentito queste rassicurazioni», ha dichiarato il primo ministro Benjamin Netanyahu in una riunione di gabinetto la scorsa settimana. «La Siria afferma che non permette attacchi, eppure i suoi alleati iraniani si stanno armando sotto il suo naso. Noi giudichiamo gli Stati dalle loro azioni, non dai loro comunicati stampa». Sul campo, le IDF non perdono tempo. Nei giorni scorsi, una pattuglia israeliana è entrata nel villaggio di Al-Ashah, nella campagna di Quneitra, appena a est della Linea Alpha, e ha trasmesso un messaggio chiaro e diretto ai residenti locali: Israele inizierà presto estesi lavori di scavo e fortificazione immediatamente a ovest del villaggio. I civili sono stati avvertiti di tenersi lontani dai terreni agricoli adiacenti. «Se qualcuno si avvicina all’area di lavoro, apriremo il fuoco», avrebbe detto il comandante della pattuglia agli anziani del villaggio, secondo quanto riferito dai residenti che hanno parlato con i media israeliani. Questa mossa segnala che le IDF stanno preparando strutture difensive, fossati anticarro e nuovi sistemi di sensori per contrastare esattamente il tipo di infiltrazione di fanteria contro cui Katz aveva messo in guardia. Il capo del Consiglio Regionale del Golan, Uri Kellner, ha accolto con favore l’intensificarsi delle attività delle IDF, ma ha avvertito che il tempo stringe. «Ogni giorno che passa senza rifugi rinforzati e strade migliorate è un giorno in cui siamo più vulnerabili», ha detto Kellner. «Gli Houthi in Siria non sono una minaccia teorica: sono già qui e hanno chiarito di voler spargere sangue ebraico». Per i residenti di comunità come Merom Golan, Alonei Habashan ed Ein Zivan, città che si trovano letteralmente in vista dei nuovi schieramenti per procura iraniani, il messaggio dell’apparato di difesa è chiaro: la quiete seguita alla caduta di Assad è stata solo temporanea. «Non aspetteremo il prossimo 7 ottobre per arrivare sul Golan», ha promesso il ministro della Difesa Katz concludendo il briefing di mercoledì scorso «Chiunque tenti di attraversare questo confine con intenti ostili incontrerà tutta la potenza delle Forze di Difesa Israeliane. Le alture del Golan appartengono a Israele, per sempre, e ne difenderemo ogni centimetro».
Gaza. Smilitarizzazione, asse Trump-Netanyahu
Leggi l'articolo
di Redazione
Gaza. Smilitarizzazione, asse Trump-Netanyahu
Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha parlato con Donald Trump e ha dichiarato di aver discusso del disarmo del gruppo militare palestinese Hamas e della smilitarizzazione della Striscia di Gaza. Durante la chiamata hanno anche parlato di stabilire rapporti tra Israele e i paesi che non lo riconoscono, Trump aveva scritto sui social media che Israele dovrebbe mantenere il dialogo con la Siria.
Abu Mazen ospite ad Atreju. Il 12 dicembre incontrerà Meloni
Leggi l'articolo
di Tommaso Manni
Abu Mazen ospite ad Atreju. Il 12 dicembre incontrerà Meloni
Il presidente dell’Autorità nazionale palestinese Abu Mazen sarà ospite di Atreju. È quanto confermano fonti parlamenti di Fratelli d’Italia. La festa del partito di Giorgia Meloni si terrà da sabato 6 al 14 dicembre, con la chiusura affidata alla presidente del Consiglio, nei giardini di Castel Sant’Angelo a Roma. Abu Mazen, che ha incontrato Meloni il 7 novembre a Palazzo Chigi, dovrebbe essere ricevuto nuovamente dalla premier il 12 dicembre alle 15,30. Abu Mazen nella sua recente visita a Palazzo Chigi aveva avuto un colloquio di un’ora la presidente del Consiglio Giorgia Meloni: «Vogliamo uno Stato palestinese completamente privo di armi. Non tolleriamo che Hamas non sia disarmato. Siamo pronti a ricevere le loro armi e consegnarle a un garante internazionale. Finora Hamas ha rifiutato ma noi ribadiamo che Hamas deve essere disarmato e non può avere alcun posto nella futura governance palestinese». Nel corso del colloquio Meloni aveva «ribadito la necessità di consolidare il cessate il fuoco e di avviare la stabilizzazione e la ricostruzione di Gaza, procedendo rapidamente con la piena attuazione del Piano di Pace del Presidente Donald Trump, anche attraverso il disarmo di Hamas che non potrà avere alcun ruolo nel futuro del popolo». E «valorizzato il forte e costante impegno italiano sia nell’assistenza umanitaria alla popolazione civile, attraverso l’iniziativa “Food for Gaza”, le evacuazioni mediche e il “corridoio universitario”, sia nella formazione delle forze di polizia e nel processo di riforme dell’Autorità palestinese». Nella sua ultima visita Abu Mazen aveva incontrato anche il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che aveva ribadito come «occorre procedere con grande concretezza per gli aiuti umanitari e la ricostruzione di Gaza e verso la creazione di due Stati nella regione. Questi obiettivi passano attraverso il disarmo di Hamas e il forte coinvolgimento dei Paesi arabi. Dobbiamo eliminare tutti quegli ostacoli che si frappongono alla soluzione dei due Stati due popoli».
Il frontman di Flotilla amico di Greta Thunberg legato a Iran ed Hezbollah
Leggi l'articolo
di Giulia Sorrentino
Il frontman di Flotilla amico di Greta Thunberg legato a Iran ed Hezbollah
Si chiama Thiago Avila il frontman brasiliano della Global Sumud Flotilla. Lo stesso che abbiamo visto in piazza durante la manifestazione tenutasi a Roma durante il weekend vicino ad Hannoun, Greta Thunberg e Francesca Albanese. Ma, come lo stesso Avila ha scritto, ha ricevuto un premio dall’ambasciata iraniana in Brasile il 27 marzo del 2025. «Che grande onore. L’altra sera ho ricevuto un premio dall’ambasciata iraniana in Brasile per il mio lavoro nella comunicazione e solidarietà con il popolo palestinese», sono le parole che lo stesso Avila scrive a corredo di un suo selfie con il riconoscimento tenuto tra le mani. A conferirgli l’onorificenza sono stati Sayid Marcos Tenório, l’Ambasciatore Abdollah Nekounam Ghardirli e Mehdi Shoushtari. Quest’ultimo, come scrive il Tehran Times è «assistente del ministro degli esteri iraniano e capo dell’ufficio per l’Asia occidentale e il Nord Africa presso il ministero degli esteri iraniano», che nell’agosto del 2023 «ha incontrato Seyyed Hassan Nasrallah, segretario generale di Hezbollah in Libano». Thiago era seduto tra loro. Sorrideva con loro, con una persona che frequentava un terrorista e che ha un ruolo di primo piano in un regime teocratico. Ma Avila era anche andato in prima persona al funerale del “martire” Nasrallah il 23 febbraio. Lo stesso Nasrallah che il dittatore Khamenei, la guida suprema dell’Iran, aveva commemorato. Insomma, un giro di veri e propri terroristi. Ma perché Avila, che dice di battersi per la liberazione di un popolo, quello palestinese, non pensa all’oppressione che subisce la popolazione iraniana? Un’oppressione che si declina, anche e soprattutto, nel maltrattamento e persecuzione degli omosessuali e nella sottomissione della donna relegata a essere inferiore. Ecco, quindi, che si apre un altro spaccato dopo i legami tra la Flotilla e il terrorismo palestinese. Come Il Tempo aveva mostrato in anteprima, secondo il documento del ministero della Diaspora israeliano, oltre ad Hamas veniva evidenziata la rete di chi era riconducibile al terrorismo palestinese: «Alcuni membri del comitato direttivo della Global Sumud Flotilla hanno partecipato a incontri con rappresentanti di organizzazioni terroristiche designate dagli Stati Uniti, tra cui Hamas, la Jihad Islamica Palestinese (PIJ) e il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP). Inoltre, hanno fornito finanziamenti a diverse organizzazioni nella Striscia di Gaza». Nella lunga lista di volti sospetti c’è Muhammad Nadir Al-Nuri, malese classe 1987 fondatore e CEO di Cinta Ga2a Malaysia (CGM) che «ha sostenuto il finanziamento di diverse iniziative a beneficio di entità di Gaza affiliate ad Hamas. Tra le altre attività, ha finanziato la costruzione di un edificio per l’Ufficio per lo Sviluppo Sociale, un’istituzione che opera sotto il controllo di Hamas». Altro membro del comitato direttivo della Flotilla è Wael Nawar, che in passato ha ricoperto il ruolo di coordinatore e portavoce del Soumoud Convoy, e che ha incontrato rappresentanti di Hamas, del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina e della Jihad Islamica Palestinese. Thiago Avila, quindi, che rapporti ha con l’Iran?
Israele tenta l’affondo sugli Hezbollah libanesi dal versante siriano
Leggi l'articolo
di Redazione
Israele tenta l’affondo sugli Hezbollah libanesi dal versante siriano
Israele intensifica la pressione sugli Hezbollah libanesi dal versante siriano, cercando di costruire un fronte unico che colleghi il sud della Siria al Libano meridionale. È quanto emerge dalle manovre militari israeliane sui due teatri, siriano e libanese, sempre più collegati in un unico arco offensivo che dalla costa mediterranea corre verso la Bekaa, passando per il Golan e l’Antilibano. L’epicentro di queste manovre è una località siriana, Beit Jinn, strategicamente rilevante nel rafforzare l’occupazione israeliana del sud-ovest siriano, ad appena venti chilometri in linea d’aria dalla capitale Damasco. Proprio da Damasco alcuni ambasciatori arabi accreditati in Siria si sono recati a Beit Jinn, accompagnati da un delegato del ministero degli Esteri siriano, per porgere le condoglianze ai familiari dei tredici civili uccisi, secondo i media ufficiali, da bombardamenti israeliani sulla zona. I raid si erano verificati venerdì scorso dopo che una pattuglia di militari con le insegne dello Stato ebraico era entrata nella zona in pieno territorio siriano. Uomini armati hanno aperto il fuoco contro i soldati, ferendone sei, dei quali tre in condizioni gravi, secondo media israeliani. La ritorsione è stata immediata: droni e jet israeliani hanno colpito Beit Jinn. A terra, senza vita, sono rimasti tredici civili, riferiscono fonti mediche di Damasco.
Effetto pro-Pal: Israele ormai detesta l’Italia
Leggi l'articolo
di Costanza Cavalli
Effetto pro-Pal: Israele ormai detesta l’Italia
Come sta il tuo naso? È la prima cosa che mi sento chiedere in un locale di Tel Aviv. Siamo entrati grazie a un codice che ci hanno dato due ragazzi nel bar dove eravamo a bere un calice di vino: «Volete ballare? Andate qui e digitate questo». Il tizio con la barba argentata e gli occhiali con le lenti scure in un posto in cui già non si vede un tubo insiste: «Come sta il tuo naso?». Mi tocco il naso, è ancora al suo posto, distolgo la mente da Gogol (era ebreo anche lui? No, cristiano ortodosso) e capisco. «Sono a posto, grazie». «Sicura?». «Sì». La domanda non dovrebbe mettermi in agitazione: anche nel locale precedente, sulla Herzl Street, i bagni erano occupati da gruppetti di due o tre giovani, a ripetizione. Tuttavia mi rimane in testa per un tempo fastidiosamente lungo. Quasi che non importi nient’altro. Non del fatto che stamattina eravamo in un’altra città, Sderot, un chilometro a nord della Striscia di Gaza. Dalla collina si vede il confine e il sud di Ashkelon e le montagne Hebron meridionali. Con il binocolo (cinque shekel, anche con bancomat), si vede fino al porto di Ashod, dove è approdata la Global Sumud Flotilla. E si vedevano i bombardamenti fino a che non è arrivato il piano di pace americano. Dal 7 ottobre 2023, due memorie innervano questa collina: la prima è una scultura in ferro e cemento dedicata ai quattro caduti dell’operazione “Margine di protezione”, luglio 2014. Gli abitanti di Sderot e dei kibbutzim sentivano il rombo delle ruspe di Hamas che scavavano un tunnel, a settecento metri dal monumento, l’esercito intervenne per prevenire l’invasione. La seconda è il 7 ottobre, appunto, quando l’esercito non è intervenuto e questa città di 33mila abitanti, che potrebbe essere un villaggio dell’America rurale se non fosse per i rifugi a ogni angolo, è stata presa d’assalto dai commando di élite della forza Nukhba di Hamas. Qui, nel parcheggio del centro ambulanze, crivellato di colpi di proiettile, c’è Ophir Tor, volontario del Magen David Adom, la croce rossa israeliana. Ha 63 anni ed è ex un comandante dei paracadutisti. Ora insegna nuoto ai beduini. Il 7 ottobre si è ritrovato con quaranta corpi sul piazzale: sopravvissuti all’Olocausto, bambini, giovani soldati delle Forze di Difesa Israeliane. In totale i morti sono stati 72. Dice che si vergogna di non essere riuscito a reagire, perché nell’intera struttura avevano solo una pistola. E di non aver capito in tempo, dopo vent’anni a vivere sotto i razzi, la magnitudo dell’attacco dei 60 terroristi che, sui pickup e a piedi, armati di lanciarazzi, granate, mitra, hanno tenuto per ore in ostaggio la città. Si chiede perché ha dato l’allarme alle 7 del mattino e sono arrivati ad aiutarli soltanto alle 14. Ci son voluti cecchini, forze dell’unità d’élite antiterrorismo Yamam, un elicottero dell’esercito e un bulldozer per radere al suolo la stazione di polizia, dove si erano asserragliati gli ultimi terroristi. Tor ha scritto un libro, ma non gli permetteranno di stamparlo. C’è sotto un complotto internazionale, dice. Non del fatto che nel pomeriggio eravamo in un’altra “città”, Kfar A2A, un kibbutz di 700 abitanti nel deserto del Negev. Insieme con Be’eri e Nir Oz, è stata la comunità più colpita dall’attacco di Hamas due anni fa. Sembra di stare in un golf club, con i prati tutti pari e le aiuole così colorate. Hanno ricominciato a costruire: una squadra di operai sta posando l’armatura per un vialetto. «Posso farvi una foto?». «Da dove vieni?». «Italia». «Italiani brava gente? Non più». Le piazze europee e le università americane pro-Pal le hanno viste anche loro. «Se ti portano via tuo figlio tu che cosa fai?», chiede Avishay Argentro. Sposato, due figli, fa lo chef. Il 7 ottobre ha passato 22 ore nello shelter. «Siamo vivi soltanto perché i terroristi hanno preso a destra invece che a sinistra». Anche i suoi genitori sono vivi: suo padre ha staccato la maniglia esterna del rifugio e ha sbarrato la porta dall’interno con delle assi in legno. Le pareti delle stanze sono crivellate di colpi, rimbalzati senza andare a segno. «Allora? Se rapissero i tuoi figli che cosa faresti? Che cosa c’entra che al governo ci sia Netanyahu o qualcun altro (l’opposizione neanche ha un volto, ndr)? Non rispondere che porgi l’altra guancia. Non ti crede nessuno». Muoia Sansone e tutti i Filistei. È chiaro non appena si arriva al limitare del kibbutz, dove abitavano i giovani, in monolocali con le lampade dell’Ikea e tutte le spezie in fila sul lavabo e i libri, i giochi in scatola e la friggitrice ad aria sul tavolino, lungo la strada che guarda sulla recinzione e sulla boscaglia nella quale si sono nascosti i miliziani. Qui chi ha cercato riparo negli shelter non ha avuto scampo: sono ideati per proteggere dai razzi, non da nemici che vanno di casa in casa, non è prevista una chiusura. I terroristi hanno appiccato incendi e hanno sparato agli israeliani che scappavano dal fuoco. Qualcuno è stato rapito, qualche cadavere è stato trovato con le mani legate, altri sono stati decapitati, un corpo è stato sepolto senza testa, hanno scavato ovunque ma non è mai stata ritrovata. Si sentono ancora le bombe. «L’inferno è vuoto, e tutti i diavoli sono qui». O lì, a Sderot, o lì, a Tel Aviv, dove Ellada, che fa l’artista e arriva dal Tagikistan ed è innamorata di Pasquale che però abita a Monaco, regge pericolosamente il suo terzo drink al mango e peperoncino e dice che noi in Occidente siamo dei gran brontoloni, che abbiamo troppe regole e non sappiamo che cos’è la libertà. E che dovresti provare a fare un salto in bagno. C’è da divertirsi.
«Maestra porta gli alunni in mezzo ai filo-Hamas»
Leggi l'articolo
di Redazione
«Maestra porta gli alunni in mezzo ai filo-Hamas»
Ennesimo caso di indottrinamento progressista? «Venerdì scorso», denuncia il deputato leghista Rossano Sasso, ex sottosegretario all’Istruzione, «durante lo sciopero dei sindacati di base, a Genova si è verificato qualcosa di sgradevole che rende l’idea di cosa possa arrivare a fare un docente ideologizzato. Insieme alla signora Francesca Albanese», riferisce Sasso, «sono scesi in piazza alcuni docenti. Tra questi una maestra elementare, Cinzia Pennati, che ha gioito per aver visto in piazza bambini di 7 anni, probabilmente i suoi alunni, come mostrato sui suoi canali social con foto». Il leghista spiega: «Si vedono alcuni bambini bardati di bandiere palestinesi e kefiah. Anziché essere in classe erano in mezzo a bandiere rosse e simboli islamici. Voglio sperare che ci fossero anche i genitori, altrimenti saremmo dinanzi a qualcosa di grave. Ma questo non attenua la mia critica nei confronti della Pennati». La maestra, candidata e non eletta in Liguria nel 2020, è iscritta alla Cgil da 28 anni, si definisce scrittrice e in occasione della protesta contro il governo ha scritto sui social: «Sempre fiera della mia scuola e della sua partecipazione». Il messaggio continua: «W la Daneo (scuola primaria di Genova, ndr). W la scuola pubblica, W Genova resistente, W la Palestina libera. W la scuola capace di dissentire da un governo che spende più soldi in armamenti, sovvenziona le scuole private e taglia fondi alle scuole pubbliche. Un governo che mette i bavagli», si legge ancora nel testo. Nel post scriptum Pennati ha aggiunto: «Sono un po’ stanca di difese tiepide e divisioni. Si scende insieme, si lotta insieme. Grazie Francesca Albanese, Greta Thunberg e Thiago Avila (attivista della Flotilla, ndr). Sasso torna alla carica: «I bambini di 7 anni che erano in piazza insieme a gente che inneggiava ad Hamas e al 7 ottobre, oltre a gridare “dal fiume al mare”, di preciso a cosa verrebbero educati? Spero che nessuno abbia detto a quei bambini cosa hanno fatto gli islamici il 7 ottobre 2023».
Meloni contro l’ateneo di Bologna condizionato dai collettivi pro Pal
Leggi l'articolo
di Adalberto Signore
Meloni contro l’ateneo di Bologna condizionato dai collettivi pro Pal
Il corso universitario negato agli ufficiali dell’Esercito è un caso. Bernini: «Si farà». Il caso lo ha aperto sabato scorso il capo di Stato Maggiore dell’Esercito Carmine Masiello che ha puntato pubblicamente il dito contro l’Università di Bologna per aver rifiutato di attivare un corso di laurea in Filosofia per un gruppo selezionato di ufficiali dell’Accademia di Modena. Una denuncia a cui hanno fatto prima seguito i ministri Guido Crosetto (Difesa) e Anna Maria Bernini (Università) e poi, ieri, la premier Giorgia Meloni. Il non detto della vicenda, infatti, è che il rifiuto dell’Alma Mater Studiorum di Bologna non sia dipeso da ragioni organizzative o di eccessivi costi, come ha spiegato l’ateneo. Ma sia in verità il frutto di un clima dove un pugno di collettivi universitari di estrema sinistra e pro-Pal riescono a condizionare e indirizzare le scelte di una libera università. Uno di questi, il Cua, aveva infatti letto la richiesta dell’Esercito come «un’ulteriore prova della militarizzazione degli atenei», collegandolo al contesto internazionale e alla vendita di armi a Israele. Perché, spiega il bolognese Galeazzo Bignami, capogruppo di Fdi alla Camera, a Bologna «si vive in un mondo alla rovescia» dove «l’università che dovrebbe essere simbolo di inclusione dà un pessimo esempio di esclusione» e dove in Comune «il Pd fa una battaglia ideologica per dare la cittadinanza onoraria a Francesca Albanese e ora, dopo le parole sul blitz pro-Pal alla Stampa, prova a rimediare all’errore». Una polemica, quella legata all’ateneo bolognese, che sale ulteriormente di tono con l’intervento di Meloni. «Ritengo che la decisione assunta dal dall’Università di Bologna sia un atto incomprensibile e gravemente sbagliato», affonda la premier. Si tratta, aggiunge, «non solo di una scelta inaccettabile», ma «di un gesto lesivo dei doveri costituzionali che fondano l’autonomia dell’Università». E questo, sottolinea, perché «in quanto centro di pluralismo e confronto ha il dovere di accogliere e valorizzare ogni percorso di elevazione culturale, restando estraneo a pregiudizi ideologici». «Questo rifiuto – conclude Meloni – implica una messa in discussione del ruolo stesso delle Forze Armate, presidio fondamentale della difesa e della sicurezza della Repubblica». Parole a cui fanno seguito le prese di posizione di Pd e Avs che parlano di «polemica inutile». Mentre nel tardo pomeriggio la ministra Bernini assicura che «il corso si farà» e fa sapere di aver proposto «la creazione di un gruppo interforze delle università dell’Emilia-Romagna, guidato dall’Ateneo di Modena-Reggio Emilia, proprio per rispondere in modo efficace alle esigenze formative degli allievi dell’Accademia». Il punto, però, resta la scelta dell’Alma Mater Studiorum di cedere alle pressioni dei collettivi in nome della battaglia pro-Pal. Palestina che nel governo sono convinti vada difesa in ben altro modo. Quello giusto, sembra lasciare intendere Fdi facendo filtrare il nome di uno degli invitati alla nove giorni di Atreju, è ospitare alla storica kermesse della destra Abu Mazen, il presidente dell’Autorità nazionale palestinese che il 12 dicembre sarà anche ricevuto da Meloni a Palazzo Chigi.
L’ultimo orrore: la taglia sugli ebrei. E l’Italia vigila: «Massima allerta»
Leggi l'articolo
di Bianca Leonardi
L’ultimo orrore: la taglia sugli ebrei. E l’Italia vigila: «Massima allerta»
«Centomila dollari per uccidere un ebreo». Non è il titolo di un film, né una tremenda provocazione: è il tariffario della morte pubblicato online contro accademici e studiosi israeliani ed ebrei di tutto il mondo. La nuova agghiacciante frontiera dell’odio antisemita, una Shoah 2.0. A documentare per primo la vicenda è stato il Jerusalem Post, la fonte che ha rivelato l’esistenza di quella che potrebbe essere la più violenta escalation contro gli ebrei e contro gli israeliani dai tempi bui fino ad oggi. Dietro il portale si presenta il «Punishment for Justice Movement», un gruppo che si definisce «antisionismo estremista». La home page – visionata anche da il Giornale – accusa accademici e ricercatori di «usare le loro conoscenze per uccidere persone innocenti e bambini, diffondendo armi di distruzione di massa all’esercito israeliano». È questa la premessa ideologica con cui si giustifica una schedatura globale. Sul sito infatti si vedono uno dopo l’altro nomi, cognomi, foto, indirizzi, familiari, numeri di telefono di tutti i bersagli da colpire. Ma la cosa più macabra sono le taglie sotto ogni faccia sorridente delle persone da «eliminare». I bersagli, come riporta il Jerusalem Post, sono accademici della Ben-Gurion University, del Technion, del Weizmann Institute, dell’Università Ebraica di Gerusalemme, dell’Università di Tel Aviv, di Harvard, Oxford e perfino del CERN in Svizzera. Persone che vivono principalmente in Regno Unito e negli Stati Uniti. Una vero e proprio attacco al mondo accademico occidentale. In Italia per ora, fonti qualificate del Dipartimento di Pubblica Sicurezza, dichiarano a il Giornale che «non ci sono evidenze di dinamiche riconducibili a taglie o compensi sui fatti gravissimi avvenuti dopo il 7 ottobre». Nessuna traccia, dunque, di fenomeni analoghi sul territorio nazionale. Ma l’allerta è altissima: «l’approccio dell’attenzione è massimo», ribadiscono le stesse fonti. Il Jerusalem Post ha documentato nel dettaglio il tariffario. Una lista fredda e brutale, che assegna un valore economico alla vita umana: 50mila dollari per uccidere uno della lista. Ma non solo: 20mila dollari per incendiare case o automobili degli accademici nel mirino e 1000 dollari per affiggere cartelli diffamatori nelle loro aree di residenza. Non servono killer professionisti: il sito permette di «negoziare dei veri e propri contratti in comunicazioni sicure», spiega il quotidiano israeliano. Sempre secondo il Jerusalem Post, alcuni bersagli vengono classificati come «speciali» e valgono ben di più, fino a 100mila dollari: il presidente della Ben-Gurion University Daniel Chamovitz, il fisico e attivista Shikma Bressler, l’ex presidente del Weizmann Institute, Daniel Zajfman. L’accanimento contro gli studiosi non è casuale: il gruppo sostiene infatti che si tratti di «obiettivi legittimi» in quanto permettono con le loro conoscenze di accrescere Israele. Una fonte israeliana, in contatto con Il Giornale, conferma ciò che si temeva: dietro il movimento non ci sarebbe solo propaganda estremista, ma l’IRGC, il Corpo delle Guardie della Rivoluzione islamica, il braccio armato del regime iraniano, che avrebbe contribuito alla creazione della piattaforma. Il messaggio del gruppo è esplicito e spaventoso: «Il movimento sta lavorando per eliminare questi obiettivi e distruggere tutti i loro interessi», si legge nella loro dichiarazione riportata dal Jerusalem Post. Segue un invito destinato a far tremare l’Occidente: «invita tutti i gruppi militari non ufficiali, i gruppi armati e i combattenti a unirsi». Questa volta l’odio antisemita non si limita a parole ma ha un listino prezzi, una struttura e un obiettivo dichiarato: la ricerca di killer pronti ad uccidere ebrei.
Tel Aviv indaga sull’aggressione ai volontari italiani
Leggi l'articolo
di Ettore Di Bartolomeo
Tel Aviv indaga sull’aggressione ai volontari italiani
Alla vigilia della visita del presidente palestinese Mahmoud Abbas a Palazzo Chigi, il quadro mediorientale resta segnato da tensioni crescenti su più fronti. Ieri la polizia israeliana ha annunciato l’apertura di un’indagine sull’aggressione, avvenuta in Cisgiordania, ai danni di quattro attivisti – tre italiani e un canadese – colpiti da coloni estremisti. Secondo Haaretz l’indagine è stata avviata dopo la segnalazione dell’episodio, anche se non è ancora stata presentata una denuncia formale. L’Autorità nazionale palestinese parla di “terrorismo dei coloni” e accusa il governo israeliano di offrire protezione agli aggressori, chiedendo sanzioni internazionali. Parallelamente, secondo l’agenzia Wafa, le forze israeliane hanno arrestato ieri 11 palestinesi – in gran parte ex detenuti – nei villaggi di Al Lubban al Gharbi e Rantis, a nord ovest di Ramallah, dopo irruzioni in decine di abitazioni. Intanto nella Striscia l’esercito israeliano ha riferito ieri di aver ucciso due miliziani palestinesi che avevano oltrepassato la Linea Gialla nel nord di Gaza, definendoli una “minaccia immediata”. Nel quartiere di Zeitoun, a Gaza City, un altro palestinese è stato ucciso nei pressi della linea del cessate il fuoco. La Linea Gialla divide in due il quartiere, dove da settimane si registrano tensioni ricorrenti. A sud proseguono le operazioni a Rafah, dove l’esercito israeliano afferma di aver eliminato oltre quaranta combattenti di Hamas nell’ultima settimana e distrutto numerosi accessi ai tunnel. Restano in corso i negoziati sulla sorte dei miliziani intrappolati nella rete sotterranea: Hamas parla di 60–80 uomini, mentre l’inviato speciale americano Steve Witkoff a inizio novembre aveva stimato fino a 200 combattenti bloccati sotto Gaza. Il movimento islamista sollecita i mediatori a ottenere un corridoio sicuro, mentre il premier Netanyahu continua a escludere un salvacondotto. In questo quadro l’Egitto, paese mediatore, ha ribadito il suo rifiuto ad accettare una presenza prolungata delle Idf nella Striscia, “in nessun caso”, ha dichiarato il capo dell’intelligence dopo un incontro al Cairo con il direttore dello Shin Bet. Attualmente le forze israeliane controllano circa il 55 percento della Striscia. PRESSIONE SU HEZBOLLAH DAL FRONTE SIRIANO Alle tensioni in Cisgiordania e Gaza si somma l’espansione delle operazioni israeliane nel sud della Siria. Negli ultimi giorni elicotteri e mezzi corazzati delle Idf sono stati avvistati nelle province di Suwayda, Daraa e Qunaytra, con brevi sconfinamenti attorno a Sayda al Golan e all’ingresso di al Hamidiyya, oltre all’installazione di posti di controllo temporanei tra Ayn al Bayda e Jubata al Khashab. Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani si tratta della prosecuzione dell’operazione avviata a Beit Jinn, dove la scorsa settimana droni e caccia israeliani hanno colpito l’area dopo l’attacco di un gruppo armato locale, ferendo sei soldati israeliani e causando tredici morti civili: il bilancio più grave dall’inizio dell’occupazione del sud ovest siriano un anno fa. Delegazioni arabe accreditate a Damasco si sono recate ieri a Beit Jinn per porgere condoglianze ai familiari delle vittime. Israele accusa la Jamaa Islamiya, gruppo sunnita in passato vicino a Hezbollah, di essere dietro l’attacco, ma il movimento ha negato ogni coinvolgimento. Alcuni analisti libanesi ritengono che Israele stia tentando di costruire un corridoio militare dal sud della Siria al Libano meridionale, con l’obiettivo di accerchiare Hezbollah nella regione della Bekaa mentre si avvicina la scadenza dell’ultimatum imposto da Washington e Tel Aviv al governo libanese per il disarmo del movimento sciita. MELONI ACCOGLIERÀ ABBAS A PALAZZO CHIGI Venerdì alle 15.30 la presidente del Consiglio Giorgia Meloni riceverà il presidente palestinese Mahmoud Abbas. Un incontro politicamente sensibile, che arriva mentre aumentano gli attacchi ai cooperanti stranieri, Gaza resta in crisi umanitaria e le operazioni israeliane in Siria si intensificano.
Grazia: Bibi verso l’accordo. Trump lo frena sulla Siria
Leggi l'articolo
di Riccardo Antoniucci
Grazia: Bibi verso l’accordo. Trump lo frena sulla Siria
Isaac Herzog ha voluto precisare. Dopo aver reagito con una risposta di rito all’inedita richiesta di grazia presentata da Benjamin Netanyahu, domenica, ieri il presidente israeliano ha cercato di rassicurare l’opinione pubblica, garantendo che metterà al primo posto il bene dello Stato. “Capisco molto bene che sia profondamente inquietante per molte persone in tutto il Paese – ha dichiarato Herzog – e che susciti dibattito. Ma ho già chiarito che sarà gestito nel modo più corretto e preciso possibile. Prenderò in considerazione solo il bene dello Stato e della società israeliana”. È seguita una stoccata: “Una cosa mi è chiara: la retorica violenta non mi influenza e invito il pubblico israeliano a venire alla casa del presidente per esprimere la loro opinione”. Parole di duplice interpretazione. Da un lato, Herzog sembra mettere un freno alla retorica con cui Netanyahu ha attaccato il sistema giudiziario israeliano nel memorandum di richiesta di grazia (e nel videomessaggio sui social). Dall’altro sembra rivolgersi ai manifestanti che hanno protestato domenica sera sotto la sua presidenza. IL NOME del presidente israeliano ieri era, del resto, su tutte le prime pagine dei giornali e nei titoli dei notiziari. Herzog si è visto rivolgere uno stuolo di editoriali che gli chiedevano di opporre un secco no all’ennesimo abuso di Bibi e, all’opposto, numerosi commenti su media governativi che riprendevano le tesi del premier sulla “persecuzione giudiziaria”. A ogni modo tutti gli analisti politici sembrano già dare per scontato che il presidente accetterà di concedere a Netanyahu la grazia sui generis, senza ammissione di colpa e prima di una condanna. Anche se l’iter decisionale richiederà settimane o mesi, si parla già di un negoziato dietro le quinte: il presidente potrebbe chiedere a Netanyahu un passo indietro dalla vita politica per due anni (non a vita), di varare finalmente una commissione d’inchiesta indipendente sul 7 ottobre, di bloccare l’assalto politico all’indipendenza della magistratura. E a chi ricorda i trascorsi laburisti del presidente risponde chi sottolinea le “convergenze parallele” sbocciate tra Netanyahu ed Herzog negli ultimi anni. PRESSE Il presidente, per dire, ha smesso da un po’ di insistere sul fatto che, per ottenere l’amnistia, Netanyahu avrebbe dovuto dimettersi ed esprimere rimorso. È chiaro che questa sarà la decisione per cui, in un mici er no dente Usa no parlato no modo o nell’altro, sarà ricordato in Israele. Ma la richiesta di grazia ha già cominciato a portare qualche frutto a Netanyahu. Ieri, nella consueta udienza del lunedì per il suo caso di corruzione, è riuscito a farsi annullare l’audizione prevista per oggi. Mentre il premier era impegnato a confrontarsi con i giudici, alla Knesset la sua maggioranza e il suo stesso partito Likud si spaccavano sulla questione annosa dell’esenzione degli ultraortodossi dal servizio militare. La nuova legge proposta per tenere buoni partiti ultra-religiosi, che di fatto proroga la dispensa dalla leva nonostante l’Idf abbia chiarito che ha bisogno di uomini, stavolta non sembra un compromesso accettabile neanche per la destra, incluso Smotrich. Ieri Netanyahu ha parlato al telefono con Donald Trump. Ufficialmente del futuro di Ga2a, con un invito a Washington “nel prossimo futuro”. In realtà, poche ore prima il leader israeliano era stato redarguito sui social dal presidente Usa, che ha chiesto a Israele di non mettersi di traverso con la normalizzazione della Siria: “È molto importante che Israele mantenga un dialogo forte e sincero con la Siria e che non accada nulla che possa interferire con l’evoluzione della Siria verso uno Stato prospero”, ha scritto Trump. In questi giorni invece l’Idf sta portando avanti diverse operazioni militari oltre la buffer zone che occupa, che hanno provocato anche incidenti violenti con gruppi armati siriani e la morte di decine di civili. L’obiettivo vero è l’Hezbollah in Libano. Sono da monito le parole di Tom Barrack, ex immobiliarista vicino a Trump ora ambasciatore Usa in Turchia, riportate dai media sauditi. In una comunicazione con l’Iraq, l’inviato Usa avrebbe avvisato di un imminente attacco israeliano contro il partito sciita, nella Valle della Bekaa e forse anche a Beirut. Appena dopo la fine della visita di Leone XIV nel Paese.
Intervista a Andrea Casalegno: “Offeso da quell’attacco squadrista. Mio padre ucciso per le sue idee”
Leggi l'articolo
di Cesare Martinetti
Intervista a Andrea Casalegno: “Offeso da quell’attacco squadrista. Mio padre ucciso per le sue idee”
Andrea Casalegno, cos’ha provato alla notizia dell’assalto alla redazione de La Stampa? E ad ascoltare lo slogan “giornalista terrorista sei il primo della lista”? Suo padre fu effettivamente il “primo” giornalista ucciso dai terroristi, esattamente il 29 novembre 1977. «Questa aggressione squadrista mi offende come cittadino, prima che come giornalista e come figlio di Carlo Casalegno. È un’azione che va catalogata insieme a quelle di chi bruciava i libri e di chi somministrava l’olio di ricino. Maa nche insieme a quella dei coloni israeliani che due giorni fa hanno aggredito dei giovani volontari che assistevano i palestinesi in Cisgiordania. Sono azioni intimidatorie». Ma secondo lei, gli autori capiscono la portata effettiva degli slogan che pronunciano? «Ognuno di noi è responsabile di ciò che dice e di ciò che fa. Gli attivisti di un centro sociale sono dei giovani impegnati e quindi mediamente più informati della media. Un’espressione come “giornalista primo della lista” è di una gravità enorme, implica una conoscenza degli slogan degli anni Settanta e quindi esclude che non sapessero cosa dicevano. Certo bisogna fare la tara alle iperboli, come nei cori da stadio, quando dalla curva qualcuno grida “ammazzalo” non va preso in senso letterale. Ma l’indulgenza è sempre complicità». E cosa pensa di quelli che, come Francesca Albanese, hanno definito l’azione a La Stampa come un “monito” per tutti in giornalisti? «Questa affermazione significa approvare l’aggressione, in modo ipocrita, come lanciare il sasso e nascondere la mano. Sa, come quelli che dicono: io sono contro la violenza, ma in fondo in fondo si può capire… È una posizione che mi suscita indignazione e disgusto». Come giudica l’informazione del giornale sulla crisi di Gaza? «Se entriamo nel merito della questione, a me pare che La Stampa si sia comportata benissimo sulla Palestina e quindi non esiste nemmeno alcuna ragione intrinseca per dare ragione a chi dice “un monito”. Che sarebbe comunque, a sua volta, un argomento secondario perché rischierebbe di dare ragione a chi avesse giustificato questa azione nel caso il giornale si fosse comportato male». E qual è il suo giudizio sulla mobilitazione dei giovani? «Di fronte alla stupidità, l’argomento gioventù è patetico e irrilevante. Chi fa una gesto simile non ha nessuna intenzione di confrontarsi. È un gesto squadrista e non uso la parola fascista perché non voglio buttarla in politica. Qui c’è una questione di civiltà, di convivenza. Si attacca un principio fondamentale, lo si attacca consapevolmente, lanciando slogan di cui si conosce perfettamente il significato». Qual è stata la sua reazione umana e intima? «È un aspetto secondario, ma certo essere il figlio di una persona assassinatami rende particolarmente sensibile all’orrore e alla criminalità del gesto. Mio padre è stato ucciso per le sue idee, perché secondola terminologia delle Brigate rosse era “un agente della controguerriglia psicologica”, e dunque nella logica del colpirne uno per educarne cento. Come giornalista capisco l’intenzione di intimidire i giornalisti. Tuttavia, siccome la stragrande maggioranza ha la schiena diritta, non servirà a niente». Lei è stato un militante nei movimenti degli anni Settanta. Vede della analogie con le manifestazioni di oggi? «Allora i sindacati avevano un forte servizio d’ordine che impediva che dai cortei si staccassero gruppetti incontrollabili. Anche i gruppi extra parlamentari. Non ricordo che durante le manifestazioni per il Vietnam a cui partecipavo si sia attaccata la sede di nessun giornale,né aTorino, né altrove. In Palestina l’orrore ha superato ogni limite, ci sono migliaia di bambini uccisi e il fatto che sia responsabile l’esercito di uno Stato è inaccettabile, sono fatti intollerabili, condannati anche da fior di pubblicisti ebrei. Ma il fine non giustifica i mezzi, non c’è causa pur sacrosanta che giustifichi l’uso di mezzi sbagliati». Il movimento è stato molto sostenuto, nonostante manifestazioni violente e slogan inaccettabili che si è fatto finta di non vedere e non sentire. Non è successo anche negli anni Settanta? «C’è la zona grigia, quella descritta da Primo Levi, gli indulgenti. È un modo di voltarsi dall’altra parte: se sono dalla mia parte sono compagni che sbagliano, se sono dall’altra parte sono dei criminali assoluti. Se poi difendi il popolo palestinese orribilmente aggredito, purtroppo, spunta sempre qualcuno che inneggia ad Hamas. Sarebbe necessario che il corteo li cacciasse a pedate, purtroppo non avviene. Ai miei tempi nei cortei c’era chi gridava “camerata basco nero il tuo posto è il cimitero”, io di sicuro non l’ho mai gridato, ma confesso di non aver mai impedito che lo gridassero. Nella folla chi esagera gode dell’impunità». Perché hanno attaccato proprio La Stampa? «Non penso per quel che ha scritto, ma in quanto simbolo di una grande industria a sua volta simbolo di un presunto sistema detestato di potere. Ma anche questo è secondario, secondo me l’aggressione non è stata tanto indirizzata al luogo, ma simbolicamente al giornalista, e questo rende molto più grave il gesto intimidatorio nei confronti della libera manifestazione del pensiero. Chiunque sia il cosiddetto “padrone”, è poi il singolo giornalista che scrive, firma ed è responsabile. Non è certamente il padrone che detta la linea sulla Palestina». Fare il giornalista è un mestiere o è una missione? «È una professione. In certi casi, come in quello di mio padre, quando sai di rischiare la vita, per svolgere il tuo lavoro normalissimo, diventa una missione. Carlo Casalegno era la persona più sobria del mondo, più incline all’autoironia che all’auto incensamento, faceva la sua professione, come dovrebbero fare tutti, giudici, medici, chiunque, anche i politici».
La Stampa, rivendicato il blitz: “La protesta non si fermerà”. Sfregio alla sinagoga di Roma
Leggi l'articolo
di Chiara Comai e Luca Monticelli
La Stampa, rivendicato il blitz: “La protesta non si fermerà”. Sfregio alla sinagoga di Roma
«Se il futuro che propongono ai giovani è la leva obbligatoria e andare al macello in trincea, allora ben vengano giornate come quella di venerdì». Dopo quasi tre giorni di silenzio, il Collettivo universitario autonomo di Torino rivendica l’irruzione alla redazione de La Stampa. Lo fa con un lungo post su Instagram. «Si può essere d’accordo o meno con le pratiche, i modi, le terminologie – scrivono – basta non ricadere nella trappola del vittimismo che delegittima chi si mobilita». Se la prendono con la stampa italiana «che ci ha abituati al sensazionalismo», e con i politici di destra e di sinistra, «egualmente corrotti», fino ad arrivare «ai vari post fascisti che invocano il carcere e l’olio di ricino»: «Fanno bene a preoccuparsi – scrivono ancora – perché chi ha preso la strada della contestazione non sembra avere intenzione di fermarsi tanto presto». Sono queste le parole scelte per rivendicare l’irruzione in redazione. Un’azione definita «dimostrativa», «la spontaneità della rabbia». A metterci la firma è il Cua di Torino, realtà formata da studenti universitari vicini al centro sociale Askatasuna, che ha l’obiettivo di «costruire un’autonomia dentro l’università», così si raccontano loro stessi sempre sulla loro pagina social. Un collettivo che negli ultimi mesi ha partecipato e contribuito all’organizzazione delle iniziative pro Palestina, dalle occupazioni degli atenei torinesi nella primavera 2024 fino ai cortei e alle proteste in piazza. Dopo l’assalto di Torino, il clima intimidatorio contagia anche Roma. La targa all’ingresso della sinagoga Beth Michael è stata deturpata con della vernice nera e sul muro adiacente sono comparse le scritte «Palestina libera» e «Monteverde antisionista e antifascista». Il tempio si trova nel quartiere di Monteverde ed è dedicato in memoria del piccolo Stefano Gaj Taché, il bambino di due anni assassinato da terroristi palestinesi nell’attentato al Tempio Maggiore della capitale del 9 ottobre 1982. «L’antisemitismo è diventato uno strumento di contestazione politica. Il più abietto possibile», sottolinea il presidente della comunità ebraica di Roma Victor Fadlun, che denuncia il vandalismo «all’indomani dell’ennesima manifestazione pro-Pal». Questo, continua Fadlun, è «un gesto che oltraggia e ferisce profondamente la comunità ebraica. Colpire una sinagoga significa disconoscere e prevaricare quello che è il diritto degli ebrei a potersi ritrovare a condurre una vita normale. E questo non è accettabile». La comunità romana, dice il presidente, confida nelle forze dell’ordine e chiede «un intervento forte del governo per fermare questa spirale d’odio». L’Ugei, l’Unione dei giovani ebrei accusa: «Chi compie atti del genere non sta facendo politica, né esprimendo dissenso, sta alimentando l’antisemitismo». Nel pomeriggio di ieri, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha telefonato al presidente Fadlun per esprimergli «vicinanza e solidarietà dopo il grave gesto intimidatorio compiuto alla sinagoga di Monteverde». Le scritte sono state cancellate e la Digos sta esaminando le immagini delle telecamere, si cercano due giovani incappucciati. Intanto, nuove polemiche travolgono la relatrice Onu Francesca Albanese, che alla manifestazione pro Pal di sabato a Roma aveva commentato l’assalto a La Stampa parlando di «un monito ai giornalisti». Il Consiglio comunale di Bologna ha respinto la mozione con cui il centrodestra chiedeva di revocarle la cittadinanza. Non sono bastate le critiche di due deputati dem bolognesi come Andrea De Maria e Virginio Merola che avevano chiesto una riflessione al sindaco Matteo Lepore. A Firenze il Consiglio dovrà votare domani e la sindaca Sara Funaro annuncia di non ritenere «opportuno» consegnare la cittadinanza onoraria ad Albanese: «In più occasioni ha dimostrato di mandare messaggi che portano a dividere più che unire nella comune causa a difesa del popolo palestinese». Inoltre, aggiunge, «su quanto è accaduto alla redazione della Stampa non ci può essere una condanna con un “ma”». Nessuna marcia indietro invece dal sindaco di Reggio Emilia, Marco Massari, che a settembre aveva conferito alla relatrice il “Primo tricolore”, nonostante lei, durante la cerimonia, lo avesse rimproverato per aver detto che una pace giusta a Ga2a contemplava anche la liberazione degli ostaggi israeliani. La Federazione delle Associazioni Italia-Israele non ci sta e ha promosso una raccolta di firme per chiedere ai Comuni la revoca della cittadinanza ad Albanese.
Albanese, no di Firenze alla cittadinanza ma Bologna va avanti
Leggi l'articolo
di Ernesto Ferrara e Caterina Giusberti
Albanese, no di Firenze alla cittadinanza ma Bologna va avanti
Firenze stoppa la cittadinanza onoraria a Francesca Albanese. Dopo settimane di imbarazzi e divisioni nella sinistra fiorentina e le parole sull’assalto alla Stampa, la sindaca Pd Sara Funaro chiude la porta all’ipotesi della massima onorificenza cittadina per la relatrice speciale Onu per la Palestina: «Firenze è città di ponti e di pace, pur riconoscendo il suo importante lavoro svolto come relatrice Onu, Albanese in più occasioni ha dimostrato di mandare messaggi che portano a dividere nella causa comune a difesa del popolo palestinese. Per questo come sindaca della città di FirenF ze non ritengo opportuno consegnarle la cittadinanza onoraria» è intervenuta ieri mettendo una pietra sui tormenti dei dem cittadini, dove fin qui si è contato più di qualche favorevole al tributo. Al massimo adesso nel suo partito si pensa ad un generico «riconoscimento della città» per Albanese: proprio domani nella commissione pace di Palazzo Vecchio è previsto il voto su una risoluzione per la cittadinanza ad Albanese proposta dalla sinistra-sinistra e i dem stanno pensando a un compromesso per votarla emendandola con un generico «riconoscimento» cittadino. «Noi saremo contro», dichiarano i renziani. «Pensino a Bin Salman» ribattono da Avs. E sul voto per il Pd piomba anche ora il monito della comunità ebraica fiorentina: «Quando parla Albanese cade spesso in affermazioni grezze, non è un leader politico. Parliamo dei suoi rapporti tecnici, apriamo un confronto. Ma che il Consiglio comunale pensi a darle cittadinanza o riconoscimenti è fuori luogo, niente santificazioni populiste avverte il presidente Enrico Fink. A Bologna invece la maggioranza tira dritto, ma il clima è teso: uno dei consiglieri che si era dissociato, il civico Filippo Diaco, ha subìto minacce via social e sporgerà denuncia. Ieri la discussione del giorno presentato dal leghista Matteo Di Benedetto per chiedere la revoca della cittadinanza onoraria conferita alla giurista il 6 ottobre è stata rinviata a data da destinarsi. E nonostante prese di posizione come quella dell’ex sindaco Virginio Merola oggi parlamentare dem («è stata una decisione affrettata») il Pd ha tenuto la linea dettata dalla capogruppo Giorgia De Giacomi, votando contro la trattazione d’urgenza della mozione. «Penso che quello che è successo alla Stampa sia una cosa gravissima – spiega la capogruppo – Ma i motivi per cui è stata data questa cittadinanza sono altri e sono legati al lavoro che ha fatto Albanese all’interno dell’Onu». Una scelta «ideologica, sbagliata e contraria ai valori costituzionali», per il capogruppo alla Camera Galeazzo Bignami, che definisce «il Pd più a sinistra dei centri sociali». Conferma l’onorificenza a Albanese anche il sindaco di Reggio Emilia, Marco Massari, lo stesso che a fine settembre mentre le consegnava il “Primo tricolore” sul palco del teatro Valli era stato rimproverato dalla relatrice Onu per aver citato gli ostaggi di Hamas. «La nostra posizione – commenta il primo cittadino – è che il Tricolore è stato conferito per l’attività di Albanese alle Nazioni Unite e questo non c’entra con le dichiarazioni successive, che non condivido. Quello alla Stampa è stato un attacco squadrista violento, ho mandato anche una lettera di solidarietà al giornale, non c’è nessuna giusta causa. Se Albanese mi ha deluso? Diciamo che alcune dichiarazioni che ha fatto possono dividere e creare polemiche, invece di unire. C’è tutto un movimento che è sceso in piazza per una pace giusta, anziché fare dei distinguo bisognerebbe mettere al centro la lotta politica per la causa palestinese». Intanto anche a Fabriano l’opposizione chiede la revoca della cittadinanza alla giurista. E a Jesi se ne discuterà il 6 gennaio.
Intervista a Emanuela Fiano: “Ignoranza e discriminazione, non chiamateli compagni che sbagliano”
Leggi l'articolo
di Concetto Vecchio
Intervista a Emanuela Fiano: “Ignoranza e discriminazione, non chiamateli compagni che sbagliano”
Emanuele Fiano, figlio di Nedo Fiano superstite dell’Olocausto, presidente di Sinistra per Israele, cosa ci dice l’attacco alla sinagoga di Monteverde a Roma? «È il segno della congiunzione drammatica tra antisemitismo e antisionismo in una fascia estrema ma significativa del mondo che manifesta per i palestinesi, e indica fin dove può arrivare l’odio». Si è arrivati a imbrattare la targa che ricorda un bambino ebreo romano ucciso dai terroristi palestinesi. «Non so se sono stati dei ragazzi, e magari c’è in quel gesto una possibile ignoranza, ma certo siamo in presenza di una forma di violenza che non conoscevamo da tanto tempo». Come valutarlo? «Come un atto spaventoso, che fa tornare indietro l’orologio di E tanti anni. Discriminare qualcuno non per le idee che professa, o per le azioni che compie, ma solo per la sua appartenenza ad una religione è una discriminazione violenta, che poi diventa razzismo, antisemitismo, guerra». C’è stata una sollevazione bipartisan. «Sì, ma in tanti hanno sbagliato a sottovalutare gli ultimi episodi di discriminazione nei confronti degli ebrei e degli israeliani in Italia». A quali si riferisce? «La signora cacciata dal ristorante di Napoli, il cartello nel negozio di Milano che vietava l’ingresso agli israeliani, i ragazzi aggrediti perché indossavano la kippah. La donna cacciata, per colmo di cose, è una dirigente della sinistra israeliana che si era fatta due anni di manifestazioni contro Netanyahu». Anche lei è stato contestato. «Sì, all’università di Venezia mi è stato impedito di parlare, facendomi il segno della P38, l’arma dei brigatisti. L’irruzione nella redazione de La Stampa è un atto che ricorda il terrorismo, e non possiamo limitarci a condannarli come compagni che sbagliano». Vede una sottovalutazione anche a sinistra? «Sì, non facciamo l’errore che molti nella nostra parte fecero agli albori degli anni di piombo. Albanese ha definito il raid alla Stampa come un monito, ma non c’è alcun monito possibile nella violenza, che va condannata senza se e senza ma. E quindi va sempre fatta una battaglia sulle parole». Cosa intende? «Sionismo è diventata una parola malata, mentre è solo il diritto all’autodeterminazione di un popolo, un diritto di tutti i popoli. La critica ai governi di Israele non può diventare negazione del diritto dello Stato di Israele ad esistere. Così come qualsiasi violenza, o terrorismo, presente nel mondo palestinese, non può cancellare il diritto dei palestinesi ad avere un proprio Stato». I giovani sono rimasti indignati dalla disumanità inflitta a Ga2a. «Sì, ma poi ci vuole la serietà di una cultura politica per impedire queste derive, questa confusione di termini, perché bisogna studiare la storia per capire cos’è stato il sionismo e il genocidio, termini usati a cuor leggero». Cosa direbbe a due ragazzi che hanno imbrattato la sinagoga? «Li inviterei a fare un corso di storia con noi. Oltre ai pregiudizi in giro c’è anche molta ignoranza».
Netanyahu spacca Israele e sente Trump al telefono. Sulla grazia Herzog frena
Leggi l'articolo
di Gabriella Colarusso
Netanyahu spacca Israele e sente Trump al telefono. Sulla grazia Herzog frena
I pretoriani di Netanyahu sono già pronti alla battaglia. La ministra dell’Ambiente Idit Silman, del Likud, arriva a dire che se il premier israeliano non otterrà la grazia, Donald Trump potrebbe intervenire per sanzionare giudici e magistrati israeliani. Il ministro estremista della Sicurezza, Itamar BenGvir, sostiene che Bibi sia stato incastrato da una magistratura corrotta, e che solo la grazia possa riappacificare il Paese. È la tesi dello stesso Netanyahu, che chiede clemenza ma non ammette colpa, e invocando il perdono lo presenta come una liberazione per l’intero Stato, perché solo lui può guidare la nazione verso la riconciliazione. Anche di questo è probabile che il premier israeliano abbia parlato ieri nella telefonata con l’alleato Donald Trump, che si era già speso per la grazia a Netanyahu, giudicando il processo contro di lui una macchinazione politica, e potrebbe ancora intervenire. Di fronte a tutto questo, il presidente israeliano prova a fare muro. Nell’analizzare la richiesta «considererò solo il bene dello Stato e della società israeliana. La grazia è un tema che inquieta molte persone nel Paese. Una cosa mi è chiara: la retorica violenta non mi influenza, anzi», ha detto Herzog. Che tuttavia è in una posizione non semplice. Una grazia senza condizioni, e senza ammissione di colpa, per I giunta a processo ancora in corso, sarebbe una prima volta nella storia giudiziaria di Israele, sosterrebbe «di fatto l’affermazione di Netanyahu secondo cui non ha responsabilità per i presunti crimini, né per il 7 ottobre, e farebbe a pezzi l’opinione pubblica», scrive l’analista Shalom Yerushalmi. Netanyahu è il primo premier in Israele a essere sotto accusa in tre processi, e il primo che abbia chiesto la grazia senza attendere l’esito del giudizio. L’ex premier Olmert, anche lui accusato di corruzione e poi condannato, lasciò la politica e scontò 16 mesi in carcere. Il capo dei Democratici, Yair Golan, dice che quella di Netanyahu «non è una richiesta di grazia, è una richiesta di annullamento di un processo, e non è legale». Altri esponenti dell’opposizione chiedono che se grazia deve essere, sia subordinata al ritiro di Netanyahu dalla politica e all’ammissione di colpevolezza, due condizioni che il premier ha già rifiutato. Ieri il premier è tornato in tribunale per difendersi dalle accuse di corruzione, ma il suo avvocato ha chiesto l’annullamento dell’udienza prevista per oggi «a causa dei suoi impegni politici e di sicurezza». Dalla sua, Bibi ha il sostegno del presidente americano, almeno sulla questione del perdono giudiziario. Dopo la telefonata tra i due, l’ufficio stampa del governo israeliano ha potuto comunicare che Netanyahu è stato invitato alla Casa Bianca e ci andrà «nel prossimo futuro»: sarebbe la quinta visita da quando Trump è presidente. I due leader hanno discusso «l’importanza e l’impegno nello smantellamento delle capacità militari di Hamas e nella smilitarizzazione della Striscia di Gaza, e hanno parlato dell’ampliamento degli accordi di pace», recita il comunicato ufficiale. Ma i toni di Trump non erano stati morbidi prima del colloquio. A dividere i due amici è la Siria: il presidente americano non nasconde la sua fascinazione politica per al Sharaa, l’ex jihadista ora giudicato un «tipo tosto», e ha chiesto a Netanyahu di non interferire con gli affari di Damasco, alla luce dei continui attacchi dell’Idf nel sud del Paese: «È molto importante che Israele mantenga un dialogo forte e sincero con la Siria – ha scritto Trump sul suo social – e che non accada nulla che possa interferire con l’evoluzione della Siria verso uno Stato prospero».
Imbrattata la targa per il bimbo ebreo ucciso. Lo sfregio «pro Pal» alla sinagoga. Mattarella: vicinanza alla comunità
Leggi l'articolo
di Rinaldo Frignani
Imbrattata la targa per il bimbo ebreo ucciso. Lo sfregio «pro Pal» alla sinagoga. Mattarella: vicinanza alla comunità
Due incappucciati. Alti, magri. Forse molto giovani. Indossano kway neri. Alle 4.30 della notte tra domenica e ieri hanno oltraggiato, annerendola con vernice spray, la targa all’ingresso della sinagoga di Monteverde intitolata alla memoria del piccolo Michael Stefano Gaj Taché, il bimbo di 2 anni ucciso dai terroristi palestinesi nell’attentato del 9 ottobre 1982 al Tempio maggiore. Poi i due hanno anche tracciato scritte — «Palestina libera» e «Monteverde antisionista e antifascista» — sul muro esterno del centro ebraico in via di Villa Pamphili, prima di fuggire. La Digos li sta cercando: gli agenti hanno già acquisito le immagini della videosorveglianza con i due in azione. Saranno accusati di danneggiamento aggravato dall’odio razziale. Un altro attacco alla Comunità ebraica romana dopo quelli delle settimane scorse, condannato anche dal capo dello Stato Sergio Mattarella che ha telefonato al presidente Victor Fadlun per esprimergli vicinanza e solidarietà. Proprio il responsabile della Comunità ha sottolineato come il raid sia avvenuto dopo il corteo pro Palestina del pomeriggio di domenica del Collettivo Monteverde antifascista con lo slogan «Basta squadrismo sionista nei nostri quartieri». Nella Capitale la tensione è alta, dopo l’aggressione a ottobre ad alcuni studenti del liceo Caravillani, confinante con la sinagoga, per aver gridato «Free Palestine» e a tre attivisti pro Pal con le bandiere della Palestina davanti all’ospedale Spallanzani, anche se ieri gli organizzatori della manifestazione hanno sottolineato «l’impellente necessità di discostarci chiaramente da questo gesto e di condannarlo con fermezza. Esprimiamo la nostra sincera vicinanza alla comunità ebraica del nostro quartiere». Vicinanza anche dalla dirigente scolastica del Caravillani e solidarietà da istituzioni e da forze politiche. Dai presidenti di Camera e Senato Lorenzo Fontana («Gesti gravi e riprovevoli, che feriscono la memoria») e Ignazio La Russa («Spregevole atto di antisemitismo») e dai vicepremier Antonio Tajani («Basta odio. Non si può confondere l’antisemitismo con le critiche che possono essere rivolte al governo di Israele») e Matteo Salvini («Nessuno spazio per odio e antisemitismo»), nonché da diversi ministri. Per il sindaco di Roma Roberto Gualtieri «colpire la sinagoga è un gesto infame», mentre per il governatore del Lazio Francesco Rocca «episodi come questo richiedono una risposta ferma e unita». La vicepresidente del Parlamento europeo Pina Picierno (Pd) chiede «una risposta ferma e decisa contro l’antisemitismo sistemico» e per Giuseppe Provenzano della segreteria dem si è trattato di un «gesto ignobile». Infine la segretaria Cisl Daniela Fumarola ricorda come sia «dovere di tutti vigilare, reagire e continuare a costruire una cultura del rispetto, del dialogo e della convivenza pacifica».
Trump invita Netanyahu alla Casa Bianca
Leggi l'articolo
di Redazione
Trump invita Netanyahu alla Casa Bianca
Il presidente americano Donald Trump e il premier israeliano Benjamin Netanyahu hanno parlato ieri al telefono: lo riportano vari media israeliani. Poche ore prima, sul social «Truth», Trump aveva lanciato un monito a Israele sul suo operato in Siria: «È molto importante che Israele mantenga un dialogo forte e sincero con la Siria e che nulla interferisca con il percorso della Siria verso il benessere». Dalla fine dello scorso anno, quando è caduto il regime di Assad, l’esercito israeliano occupa una «zona cuscinetto» nella Siria meridionale (oltre alle alture del Golan, annesse dopo il 1967). Proprio in questi giorni si sono verificati scontri tra l’Idf e milizie locali. Non si sa però se hanno parlato di questo al telefono. Per Barak Ravid, giornalista israeliano di Axios, i due hanno discusso il disarmo di Hamas e l’«estensione degli accordi di pace», forse un riferimento ai patti di Abramo. Trump avrebbe poi invitato Netanyahu alla Casa Bianca «nel prossimo futuro».