Rassegna stampa del 22-23 novembre 2025
La rassegna tra sabato 22 e domenica 23 novembre 2025 mette in evidenza un quadro sempre più polarizzato, in cui l’estremismo anti-israeliano si normalizza nel dibattito pubblico mentre Israele è costretto a difendersi su un doppio fronte: quello militare e quello narrativo. Il tema dominante è la delegittimazione dello Stato ebraico, che si manifesta nelle analisi politiche, nelle cronache di violenza quotidiana, nelle dinamiche accademiche e nelle letture geopolitiche dei media. Il Riformista individua tre fenomeni convergenti – suprematismo bianco USA, progressismo radicale indulgente verso Hamas e fondamentalismo di alcuni coloni israeliani – come segnali della “perdita del pudore” democratico, denunciando soprattutto il silenzio dei moderati che permette agli estremismi di avanzare.
Questo clima ha un riflesso diretto nella realtà italiana, con episodi come l’aggressione a una coppia di israeliani a Roma, colpiti al grido di «Free Palestine». Allo stesso modo, la vicenda dell’allontanamento di un professore israeliano dall’Università di Pavia è presentata come un “repulisti” motivato più dalla sua identità che da ragioni accademiche, con un Senato accusato di aver ceduto alla pressione dei gruppi più radicalizzati. Sul fronte dell’associazionismo religioso, un’inchiesta de Il Tempo mostra l’ambiguità di figure che si dichiarano moderate ma evitano di prendere le distanze da interlocutori considerati vicini a Hamas, contribuendo alla diffusione della narrativa dello “Stato genocida”.
In contrappunto, Il Foglio ricorda come Israele resti un pilastro della sicurezza occidentale, con l’Europa diventata il principale mercato della sua industria della difesa. Il contesto internazionale alimenta ulteriormente la polarizzazione. Il Manifesto critica la recente risoluzione ONU 2803, accusata di legittimare l’“occupazione illegale” e di sospendere di fatto il diritto all’autodeterminazione palestinese, mentre dall’altro lato vari quotidiani denunciano una crescente propaganda anti-israeliana mascherata da analisi geopolitica. Il Giornale accusa parte della stampa di diffondere narrazioni tossiche – come la presunta complicità di Netanyahu con Hamas o il rischio di “pulizia etnica” – ignorando il contesto di sicurezza. Libero smonta le accuse di “genocidio” definendole strumenti retorici per negare a Israele il diritto di autodifesa, segnalando inoltre la crescente normalizzazione dell’odio in ambienti scolastici e attivisti. Anche la mediazione internazionale appare ambigua: La Stampa offre una narrazione che mette sullo stesso piano le versioni di Hamas e quelle di uno Stato democratico, mentre La Repubblica analizza la posizione statunitense in un clima mediatico che tende a minimizzare le responsabilità del terrorismo.
Nel complesso, la rassegna mostra un’Europa attraversata da tensioni ideologiche profonde, dove Israele diventa bersaglio di accuse estreme e spesso infondate, mentre la discussione pubblica fatica a distinguere tra critica politica legittima, propaganda e delegittimazione sistematica dello Stato ebraico.
Il Tempo infiltrato alla riunione di Hannoun. Il capo dell`Ucoii: «Israele Stato genocida»
L’articolo de Il Tempo è un’inchiesta preziosa che smaschera l’ambiguità e le posizioni estremiste di Yassine Lafram, numero uno dell’Ucoii, durante una riunione zoom con Mohammad Hannoun. Nonostante Lafram si definisca moderato, si è rifiutato di condannare apertamente Hannoun, ritenuto un uomo di Hamas dagli USA, o di chiarire i legami tra la Flotilla e Hamas. L’inchiesta evidenzia la gravità della sua dichiarazione, dove definisce lo Stato di Israele uno “stato genocida”. Lafram attacca inoltre i giornalisti, accusandoli di “sostenere il genocidio” e di seguire la “linea dell’editore”, anziché la propria coscienza. L’articolo serve a denunciare l’ipocrisia di chi si maschera da moderato pur non discostandosi da posizioni radicali.
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di Giulia Sorrentino
Il Tempo infiltrato alla riunione di Hannoun. Il capo dell`Ucoii: «Israele Stato genocida»
Il Tempo si è infiltrato nella riunione zoom tra Yassine Lafram (numero uno dell’Ucoii)e Mohammad Hannoun. E, essendo il tema centrale quello della Flotilla, abbiamo voluto chiedergli conto dei legami tra la missione per forzare il blocco navale e Hamas, visto che diversi membri della Sumud sono stati intercettati con esponenti del terrorismo palestinese. Ma gli abbiamo anche chiesto come faccia una persona come lui, che si definisce moderata e favorevole al dialogo interreligioso, a partecipare a una conferenza con chi, come Hannoun, ha evocato la legge del taglione, è ritenuto un uomo di Hamas dagli Usa e se non sentisse il dovere di discostarsene. Ma sul secondo punto non ha risposto, se non che lui non è «il portavoce di Hannoun. La sua questione è molto semplice, bisogna chiedere a lui». Ha concluso con interventi in cui ha invitato a discostarsi dagli estremisti, a impegnarsi nel sostegno pacato al popolo palestinese, al portare avanti un dialogo pacifico, ma non è riuscito a dire che non condivide quanto dice un soggetto che parla di pena di morte in piazza e a commentare le foto inequivocabili di appartenenti alla Flotilla: «Tra le tante accuse che si possono muovere a persone come noi si è scelta un’accusa che è stata già smentita più volte, e tra gli altri gli israeliani avevano anche ritenuto che ci fosse un documento israeliano in cui Hamas parlava della Flotilla», ci ha detto sorridendo. Ma gli abbiamo specificato che non si trattasse solo di quello e che la prova a cui si riferiva era una lettera dell’ex capo di Hamas che battezzava la Pcpa (Conferenza Palestinese per i palestinesi all’estero), e che molti di loro fossero oggi dietro la Flotilla. Ha obiettato che «non si tratta di un dibattito. Chiedodi rispondere senza essere interrotto». Poi, rispondendo a Il Tempo, si è riferito a «giornalisti che sostengono il genocidio, ciascuno risponderà davanti alla sua coscienza e alla storia. Purtroppo abbiamo avuto diversi giornalisti e politici importanti che hanno abbracciato pienamente la narrazione israeliana e la propaganda è la prima arma di guerra». E sullo Stato di Israele: «Non ho nessuna intenzione di distruggere lo Stato di Israele, credo nella sua esistenza come stato genocida e mi piacerebbe tanto che i nostri mezzi di informazione, piuttosto che rispondere a una linea redazionale, quella che è la linea dell’editore, abbiano il coraggio di rispondere alla voce della loro coscienza in quanto professionisti che dovrebbero essere in grado di scindere la loro ideologia politica da quello che dovrebbe essere il loro dovere». La morale di tutto? Le parole di Lafram non sono estremiste, ma restano due interrogativi: che ci fai lui con uno come Hannoun? Noi abbiamo chiesto a lui cosa ne pensasse del capo dell’Api, e non comprendiamo perché sia così difficile rispondere. Perché chi rappresenta l’islam moderato non si discosta apertamente da sigle sospette o sanzionate? L’Ucoii è questo che deve chiarire in modo netto e senza la minima ambiguità.
Israele difende il fianco dell`Europa
Questo editoriale fornisce argomenti concreti a sostegno della centralità strategica di Israele per la sicurezza del continente europeo. L’articolo evidenzia come Gerusalemme stia attivamente armando e rafforzando le difese dei paesi membri della NATO, in particolare quelli dell’Est, a fronte della minaccia russa. Vengono citati accordi militari e acquisti significativi di sistemi di difesa israeliani avanzati da parte di nazioni come la Grecia (per un sistema antiaereo e antidrone), la Finlandia (“Fionda di David”) e la Romania (“Iron Dome”). L’Europa è diventata il principale mercato per le esportazioni di Difesa israeliane, rappresentando il 54% del totale. La tesi finale, utile per contrastare la narrazione isolazionista, è che Israele non sia solo “business,” ma un cruciale baluardo che “aiuta a difenderci,” sostenendo le democrazie contro regimi tirannici.
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di Redazione
Israele difende il fianco dell`Europa
La Grecia sta per acquistare da Israele sistemi antiaerei e di artiglieria per un valore di 3,5 miliardi di euro. I due paesi sono impegnati in trattative per un sistema antiaereo e antidrone multistrato, denominato “Scudo d’Achille”. Condividendo un lungo confine con la Russia e una storia di invasioni, la Finlandia si è rivolta a Israele. Helsinki è diventata il primo acquirente straniero della “Fionda di David”. La Romania è il primo paese europeo a dotarsi dell’Iron Dome israeliano. L’Ucraina da qualche settimana ha schierato il sistema di difesa israeliano Patriot. La Germania si sta riarmando massicciamente siglando accordi militari con lo stato ebraico. Ryan Brobst della Foundation for Defense of Democracies ha dichiarato che “in seguito alla reinvasione dell’Ucraina da parte di Putin nel 2022, molti paesi europei, tra cui Regno Unito, Repubblica ceca, Finlandia, Polonia, Danimarca ed Estonia, hanno aumentato i loro acquisti di armi da Israele”. L’Europa è diventata il principale mercato per le esportazioni israeliane di prodotti per la Difesa, che rappresentano il 54 per cento di tutte le esportazioni israeliane per la difesa, con un aumento significativo rispetto al 35 per cento del 2023. Ma non è soltanto business. Oltre l’ottanta per cento delle esportazioni di armi di Israele sostiene le democrazie mondiali, comprese le democrazie che hanno bisogno di scoraggiare regimi tirannici molto più grandi e affamati di espansione, daLl’Ucraina a Taiwan. Marco Pannella definì Israele “la frontiera più estrema di trecento milioni di europei”. Per questo andava difesa. Per questo Israele aiuta a difenderci.
Se gli estremismi si alimentano e si normalizzano la perdita totale del pudore è dietro l`angolo
L’articolo analizza come tre fenomeni apparentemente distanti—il suprematismo bianco, l’ambiguità del progressismo radicale verso Hamas, e il fondamentalismo dei coloni israeliani—si alimentino a vicenda, erodendo la convivenza democratica e portando a una “perdita totale del pudore”. L’autore critica la frangia della sinistra occidentale che trasforma la legittima critica a Israele in indulgenza verso la violenza di Hamas, mitizzata come movimento “decoloniale”. Il vero pericolo è individuato nella normalizzazione operata dai moderati che scelgono il silenzio, trasformando gli estremisti in un’opzione possibile nel discorso pubblico. L’articolo chiama a ricostruire un “centro morale” in grado di dire “no” ai propri estremismi, sottolineando l’irresponsabilità del minimizzare questi fenomeni.
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di Tullio Camiglieri
Se gli estremismi si alimentano e si normalizzano la perdita totale del pudore è dietro l`angolo
La presenza simultanea di tre fenomeni — il suprematismo bianco nel Partito Repubblicano, l’ambiguità del progressismo radicale verso Hamas e il fondamentalismo dei coloni israeliani — può sembrare un accostamento forzato. Eppure, osservandoli insieme, emergono dinamiche comuni: ideologie assolutiste, identitarie, che si rafforzano a vicenda e che corrosivamente erodono la convivenza democratica. La prima similarità è la perdita totale del pudore. Dove un tempo c’era prudenza nel mostrare il proprio estremismo, oggi prevale l’orgoglio. I suprematisti bianchi non si nascondono più dietro la “sicurezza”: proclamano apertamente posizioni razziste, e una parte del Partito Repubblicano, pur senza aderirvi, ne tollera la presenza per convenienza politica. Allo stesso modo, in una frangia della sinistra occidentale, la critica legittima a Israele diventa indulgenza verso la violenza di Hamas, trasformata in mito “decoloniale”. Nei territori occupati, gruppi radicali di coloni agiscono ormai senza freni, forti dell’ambiguità o della protezione di parte dell’attuale governo. Questi estremismi si alimentano reciprocamente. Il suprematista americano usa la violenza dei coloni come alibi per il proprio antisemitismo; il colono radicale usa la brutalità di Hamas per giustificare l’occupazione; Hamas usa umiliazioni e abusi come prova della necessità della lotta armata. Ognuno trova nell’altro la conferma del proprio fanatismo. È un circuito perfetto di eccessi che generano contro-eccessi. Ma il vero pericolo è la normalizzazione operata dai moderati che scelgono il silenzio. Nel Partito Repubblicano, figure che un tempo avrebbero condannato il suprematismo oggi si rifugiano in frasi evasive. Nel mondo progressista, alcuni evitano di condannare chiaramente gli atti terroristici di Hamas per paura di sembrare filo-israeliani. In Israele, settori della destra difendono o minimizzano gli abusi dei coloni, trasformando comportamenti illegali in “autodifesa”. Quando i moderati tacciono, gli estremisti smettono di essere marginali: diventano un’opzione possibile, parte del discorso pubblico. E così le società perdono la capacità di riconoscere la complessità, sostituendola con la seduzione delle verità pure e assolute. Dove domina la logica tribale — paura, sospetto, appartenenza — la democrazia si indebolisce. Nessuna società può permettersi di ignorare i propri estremismi interni. Non può farlo il Partito Repubblicano con il suprematismo bianco; non può farlo la sinistra con il fondamentalismo “decoloniale”; non può farlo Israele con i coloni radicali che minano la legalità dello Stato. Minimizzare questi fenomeni non è solo miope: è irresponsabile. Perché mentre i moderati esitano, gli estremisti avanzano, impongono linguaggi, simboli e agende. Ricostruire un centro morale in grado di dire “no” ai propri, prima ancora che agli avversari, è l’unico vero antidoto alla radicalizzazione. Il destino di una società non si misura dalla presenza degli estremi — che esisteranno sempre — ma dal coraggio dei moderati. Se questo coraggio scompare e la normalizzazione del fanatismo avanza, allora il terreno comune si dissolve, lasciando solo identità contrapposte, ciascuna pronta a prevalere sull’altra, “dal fiume al mare”, qualunque sia il fiume e qualunque sia il mare.
I conflitti, la crisi, la politica: un Paese in cerca di riscatto
L’articolo descrive il Libano come un “modello di convivenza fra cristiani e musulmani” ancora in bilico e in cerca di riscatto. Mentre è lodevole il riconoscimento del Libano come “Paese messaggio” per il dialogo islamo-cristiano, il pezzo scivola in una narrazione unilaterale quando tratta la questione israelo-libanese. L’autore menziona che la guerra con Israele è “solo l’ultima nella serie delle sciagure” e riferisce acriticamente di 343 morti e 661 feriti, di cui un terzo civili, in “circa 900 raid aerei israeliani e attacchi con droni”. Questa informazione è presentata senza contestualizzare gli attacchi di Hezbollah o il motivo della risposta di Israele. La menzione che i fedeli di Yaroun chiederanno al Papa di benedire la pietra angolare di una chiesa “distrutta dagli israeliani durante il conflitto” rafforza il frame colpevolista senza offrire il necessario contraddittorio sul contesto operativo. Pur non essendo puramente anti-israeliano, il pezzo manca di equilibrio, decontestualizzando le azioni militari e concentrandosi sull’impatto emotivo senza indagare a fondo le responsabilità di tutti gli attori.
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di Camille Eid
I conflitti, la crisi, la politica: un Paese in cerca di riscatto
Una festa dell’Indipendenza all’insegna della speranza e dell’unità quella celebrata ieri in Libano per commemorare la fine, nel 1943, del mandato francese sul Paese. Nel suo messaggio alla nazione il presidente della Repubblica, Joseph Aoun, ha dedicato un pensiero alla visita del Papa che inizia domenica prossima quando i libanesi «accoglieranno insieme Leone XIV» in un «evento nazionale eccezionale». Secondo le disposizioni dell’Assemblea dei patriarchi e vescovi cattolici in Libano (Apecl), le campane di tutte le chiese e i monasteri cattolici del Paese suoneranno a festa per cinque minuti alle 15.45 all’atterraggio del volo papale nell’aeroporto di Beirut. Un triduo di preghiera e adorazione del Santissimo sarà celebrato tra giovedì e sabato su richiesta del patriarca maronita, il cardinale Béchara Rai, «per il successo della visita e per chiedere la grazia di una pace giusta e duratura in Libano e nei Paesi del Medio Oriente». Da parte sua, il governo ha decretato il 1° e 2 dicembre giorni di festa «per consentire ai vari settori di partecipare all’accoglienza» del Pontefice disponendo la chiusura di pubbliche amministrazioni, università, scuole pubbliche e private. Nelle diocesi fervono i preparativi per la partecipazione alla Messa di martedì sul lungomare di Beirut, ma anche all’incontro del Papa con i giovani fissato per lunedì pomeriggio nella sede del paModello d triarcato maronifra cristiani ta. Secondo padre è ancora in b Jean Younes, sedi benvenu gretario generale di Apecl, i posti «Il Libano v prenotati erano Il Pontefice b giunti venerdì sedi una chiesa ra a quota 120mila, ma saliranno ancora nei prossimi giorni. Sull’arteria che porta dall’aeroporto di Beirut verso il centro della capitale, i cartelloni di benvenuto al Papa sono corredati dall’affermazione “Il Libano vuole la pace”. Già, perché giovedì ricorre un anno dall’accordo sulla “cessazione delle ostilità” tra Israele e Hezbollah. Un anno in cui in Libano si è continuato a morire. L’ultimo bilancio parla di 343 morti e 661 feriti – un terzo dei quali civili – in circa 900 raid arei israeliani e attacchi con droni. In verità, la guerra con Israele è solo l’ultima nella serie delle sciagure che si sono abbattute negli ultimi anni sul Paese. Il Libano non è del tutto uscito dalla crisi finanziaria del 2019 che ha provocato il crollo della valuta nazionale e il convivenza conseguente ime musulmani, poverimento di ilico. I cartelli tre libanesi su to al Papa: quattro. Un altro evento doloroso – uole la pace» che il Papa ricorenedirà i resti derà con una prebombardata ghiera silenziosa – è l’esplosione al porto di Beirut del 4 agosto 2020 che ha provocato la morte di 246 persone. Il Papa troverà infine un Libano che fatica a trovare una stabilità interna in una regione che pullula di tensioni. E in cui incombe oggi il rischio di un ridisegno politico che non tiene conto della sua vocazione come terra ideale per l’ecumenismo cristiano e il dialogo islamo-cristiano. Perché il Libano, grazie alla sua forte componente cristiana e all’impegno educativo e sociale della Chiesa, rappresenta un’eccezione nel panorama mediorientale che merita di essere salvaguardata. I segni di speranza si iniziano a intravedere. I fedeli di Yaroun, una località del Sud, chiederanno a Leone XIV di benedire la pietra d’angolo della loro chiesa dedicata a San Giorgio, distrutta dagli israeliani durante il conflitto, per poi ricostruirla. Sui social è diventata virale una preghiera sulla visita, scritta da padre Joseph Salloum, parroco della chiesa di San Foca a Ghadir, sulla strada che il Papa percorrerà per raggiungere il santuario mariano di Harissa. «Ti affidiamo, Signore, il Libano; Tu che conosci bene il suo strazio continuo. Ti preghiamo per il nostro papa Leone XIV, che viene nel tuo nome sulla terra libanese. Fa’ che la sua visita porti grazia, rinnovamento e benedizioni al “Paese messaggio”, affinché si avveri la profezia di Isaia: “Ancora u
n poco e il Libano si cambierà in frutteto”».
Cmcc tra Israele e Usa: il coordinamento copre gli attacchi su Gaza
Questo articolo de Il Manifesto è un esempio di giornalismo fazioso e altamente critico nei confronti di Israele e del suo alleato americano. L’autore afferma che il Centro per il Coordinamento Civile-Militare (Cmcc), creato dal piano Trump, non serve a monitorare la tregua ma è stato “concepito prima di tutto per approvare le azioni militari israeliane a Gaza”. Accusa il Cmcc di essere una “rappresentazione teatrale” che serve a dare una “idea falsa di un coinvolgimento della comunità internazionale” quando in realtà “tutto è deciso solo da Israele”. La tesi si basa in gran parte su un funzionario europeo anonimo e sul racconto di un attacco aereo avvenuto in coordinamento con i marines statunitensi. Il pezzo arriva a citare un militare israeliano (senza nome) che avrebbe dichiarato l’intenzione di “cambiare completamente i programmi scolastici” palestinesi per rimuovere contenuti che incitano all’odio, un’affermazione presentata in modo strumentale per suggerire una volontà di controllo totale e di ingegneria sociale. L’articolo utilizza fonti anonime per veicolare accuse estreme; demonizza uno sforzo di coordinamento civile-militare internazionale (di cui l’Italia fa parte); e adotta una retorica del “complotto” per delegittimare ogni azione di Israele, trasformando la necessità di sicurezza e la gestione degli aiuti in una mera copertura per attacchi militari.
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di Michele Giorgio
Cmcc tra Israele e Usa: il coordinamento copre gli attacchi su Gaza
Cmcc tra Israele e Usa: il coordinamento copre gli attacchi su Ga2a II Meir Ben Shabbat, editorialista di Israel Hayom, giorni fa si lamentava del ruolo del Cmcc, il centro di coordinamento israelo-americano nato dal piano Trump per Ga2a. Potrebbe «costringere» Israele – ha scritto – a preferire canali diplomatici rispetto alle azioni militari. In realtà, è vero il contrario. Questa struttura, che dovrebbe monitorare la tregua (non tregua) tra Israele e Hamas, è stata concepita prima di tutto per approvare le azioni militari israeliane a Gaza, in attesa della formazione della tanto citata Forza internazionale di stabilizzazione che, insiste Israele, dovrà «disarmare» Hamas. Il quotidiano Maariv riferiva ieri che l’attacco aereo che ha ucciso a Gaza City Alaa Hadidi, dirigente del movimento islamico, è avvenuto in coordinamento con il comando dei 200 marines statunitensi presenti nelle sale del Cmcc, istituito il 17 ottobre in un edificio a più piani di Kiryat Gat, a 13 miglia a nord-est della Striscia di Gaza. E se il coordinamento militare funziona come desidera Israele, ben pochi progressi si sono fatti per aumentare l’accesso degli aiuti umanitari agli oltre due milioni di civili palestinesi nella Striscia. Quando il mese scorso fu firmato l’accordo di cessate il fuoco, si parlava di 600 autocarri carichi di generi di prima necessità al giorno. Ma a causa delle restrizioni israeliane, ne entrano appena un centinaio o poco più. La popolazione resta sospesa sull’orlo della carestia. Un altro elemento centrale è l’assenza totale dei palestinesi dalle decisioni che riguardano la loro terra. Il personale del Cmcc è composto prevalentemente da Marines e funzionari dell’intelligence americana, dall’esercito, dai servizi segreti e dal Cogat (affari civili nei Territori occupati) di Israele, con una presenza simbolica di rappresentanti di paesi arabi e occidentali, tra cui l’Italia con l’ambasciatore Andrea Comussi. Il comando è affidato ad Aryeh Lightstone, un consigliere dell’Amministrazione. Un funzionario della cooperazione europea – ha chiesto di rimanere anonimo – che ha partecipato agli incontri in corso al Cmcc con esperti internazionali della cooperazione e dell’umanitario, ha sottolineato al manifesto l’incompetenza di molti interlocutori. «Ho avuto la netta sensazione che questi meeting siano una sorta di rappresentazione teatrale finalizzata a dare l’idea falsa di un coinvolgimento della comunità internazionale nelle attività del Cmcc per i civili di Gaza, mentre tutto è deciso solo da Israele», ha aggiunto il funzionario. «È un ambiente totalmente militarizzato», ha proseguito, «quando ci sono andato io, dalle ore 9 alle 10 c’è stato un aggiornamento delle operazioni che i Marines insieme all’esercito israeliano portano avanti a Gaza. Facciamo questo, smilitarizziamo quella zona e via dicendo». All’improvviso, ha continuato, «ha preso la parola un militare israeliano seduto tra di noi». Il suo intervento ha segnato il passaggio più rivelatore dell’intera giornata. Ha dichiarato, tra le altre cose, che la ricostruzione del sistema educativo a Gaza potrà avvenire solo con l’esclusione anche dell’Autorità nazionale palestinese e che le nuove generazioni dovranno crescere senza nutrire ostilità verso Israele. Per raggiungere questo scopo, ha detto che sarà obbligatorio cambiare completamente i programmi scolastici, riscrivere i manuali in uso tra i ragazzi palestinesi e rimuovere qualsiasi contenuto che, a loro giudizio, possa incitare all’odio. Un discorso che ha suscitato immediato disagio tra molti dei presenti, consapevoli della distanza tra la retorica della pace e della protezione dei bambini palestinesi e le devastazioni e le uccisioni di massa inflitte negli ultimi due anni i minori di Ga2a». A conti fatti, anche gli americani sono delle comparse nel Cmcc. La risposta umanitaria resta in uno stato caotico perché Israele non rinuncia a marginalizzare le agenzie con vasta esperienza, come l’UNRWA, e utilizza nuove regole di registrazione delle ONG per negare le loro richieste di intervento. Funzionari statunitensi avrebbero comunicato confidenzialmente alle organizzazioni umanitarie che il loro passaggio alla guida degli aiuti da parte del Cmcc era previsto per il 7 novembre, ma finora non si è registrato alcun cambiamento sul campo e Israele insiste nel conservare l’autorità finale sulla distribuzione. Alcuni operatori umanitari internazionali hanno dichiarato che i militari statunitensi inizialmente avevano creduto alla narrazione del governo israeliano, secondo cui la responsabilità dei problemi nella distribuzione degli aiuti a Gaza sarebbe da attribuire all’Onu e ad Hamas. «Poi hanno compreso che l’ostruzionismo israeliano è il problema principale e che il problema non è logistico, ma politico», ha affermato uno di loro.
A Gaza sempre più drammatica la situazione dei più fragili
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A Gaza sempre più drammatica la situazione dei più fragili
Mentre ancora non è partita l’implementazione del “piano Trump” per Ga2a, recentemente approvato dal Consiglio di sicurezza dell’ONU con una risoluzione, è la situazione che riguarda i più fragili a essere sempre più preoccupante. Anche in un momento in cui dovrebbe vigere il cessate il fuoco. Dal giorno dell’entrata in vigore della tregua tra Israele e Hamas, il 10 ottobre scorso, almeno 67 minori risultano essere stati uccisi nell’enclave. Decine di altri bambini sono invece rimasti feriti. A renderlo noto il portavoce dell’Unicef, Ricardo Pires, che — citando le denunce di diverse organizzazioni presenti sul campo — ha dichiarato come a Gaza «non ci sia un posto sicuro per i minori». Attacchi da parte dell’Idf, secondo Al Jazeera, si sarebbero verificati anche stamattina nelle zone del nord, attorno a Gaza City; ma colpi di artiglieria sono stati sparati anche a Khan Yunis e a Rafah, dove 15 miliziani sono riusciti a fuggire da un tunnel sotterraneo in cui si nascondevano da giorni (sei sarebbero stati uccisi in un raid successivo). Anche la crisi umanitaria e sanitaria è ben lontana dall’essere risolta. Imperversa la malnutrizione acuta. L’Organizzazione mondiale della sanità, dopo uno screening su quasi 6.900 bambini, ha rilevato la presenza di questa patologia in 508 di loro, in sostanza il 7,4% del totale. A dichiararlo in una conferenza stampa il rappresentante dell’agenzia in Palestina, Rik Peeperkorn. Rimane, poi, delicatissima, la questione dei profughi, colpiti oltre che dalla violenza delle armi, e costretti a lasciare le proprie abitazioni, anche dall’arrivo dell’inverno. Secondo l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi (Unrwa), al 10 novembre, circa un milione di persone vive ancora oggi in 862 campi di sfollati. Per i responsabili dell’Unrwa l’esecutivo israeliano non ha smesso di imporre restrizioni agli aiuti umanitari, comprese quelle relative ai rifugi temporanei necessari per sostituire le tende per decine di migliaia di civili costretti a fronteggiare le fredde piogge invernali. Non poche rimangono le criticità sull’attuazione dell’accordo in 20 punti, stilato dalla Casa Bianca. Gli Usa, infatti, anticipa «The Wall Street Journal», starebbero elaborando piani per costruire delle “zone verdi” nella Striscia, ovvero comunità volte ad accogliere i palestinesi sul lato israeliano della “Linea gialla”. A tal proposito sarebbero stati inviati ingegneri per iniziare a bonificare i siti nella speranza di allontanare i civili dalle aree controllate da Hamas. Nell’analisi del quotidiano newyorchese ciò rivelerebbe il riconoscimento del fatto che il disarmo di Hamas e la privazione della sua autorità non verrebbero raggiunti a breve. Infine, la tensione non accenna a placarsi in Libano. Stamattina un raid dell’Idf con un drone nel sud, nella zona tra Nabatieh el Fawka e Zawtar al-Sharqiyah, ha ucciso un miliziano di Hezbollah. Un’altra vittima è stata causata alla periferia di Froun, nel distretto di Bint Jbeil, mentre l’esercito ha fatto sapere di aver ucciso «13 terroristi» nel suo attacco di martedì sul campo profughi di Ain alHilweh, considerato dalle autorità israeliane un campo di addestramento di Hamas.
Israele ha mano libera Bombe senza tregua
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di Eliana Riva
Israele ha mano libera Bombe senza tregua
Violazioni continue, dal “cessate il fuoco” 318 vittime palestinesi. La «fase 2» resta fumosa. Unica certezza, Netanyahu rema contro. Un’altra giornata di sangue e distruzione nella Striscia per le sistematiche violazioni della tregua da parte dell’esercito israeliano. 318 le vittime dalla firma del cessate il fuoco lo corso 10 ottobre. E dal centro che dovrebbe guidare il piano voluto da Trump coordinano gli attacchi su Gaza. Un cessate il fuoco esiste solo se le armi tacciono, e l’evidenza del punto non esclude che occorra ribadirlo. Quando una parte continua a individuare e colpire membri della controparte, la tregua smette di essere tale, per quanto la si travesti da «operazione preventiva» o «neutralizzazione». È una violazione evidente: non può esistere cessate il fuoco se uno dei due attori mantiene il diritto implicito di uccidere mentre pretende che l’altro resti fermo. DALLA FIRMA DELLA TREGUA con Hamas, il 10 ottobre, Tel Aviv ha dichiarato che tre soldati sono morti durante uno scontro a fuoco a Rafah. Nello stesso periodo, a Gaza l’esercito israeliano ha ucciso 318 persone e ne ha ferite 788. Ne ha ammazzate più di 330 in Libano, in un anno di cessate il fuoco con Hezbollah. L’ufficio del primo ministro, Benyamin Netanyahu, rivendica con orgoglio i massacri, senza parlare mai di «civili», confermando la sistematica negazione delle proprie responsabilità da parte di un esercito che ha ammazzato in due anni 70mila persone nella Striscia, la maggior parte donne e bambini. Ma il premier fa molto altro. Nonostante i numeri siano impietosi, accusa Hamas di aver violato il cessate il fuoco, dichiara che Israele lo onora appieno e chiede ai mediatori di intervenire. L’escalation di attacchi e uccisioni è ignorata dalla presidenza degli Stati Uniti, che si è fatta promotrice e garante del piano per Ga2a. E nessuno degli altri attori – tanti – che hanno sfilato tronfi alle celebrazioni per la «pace» a firma Donald Trump, ha pensato fosse il caso di fare qualcosa per fermare Israele. Il quale, è chiaro, sta aumentando numero e intensità dei suoi raid, giorno dopo giorno, mentre continua ad espandere la zona occupata a Ga2a, sfollando altri palestinesi, in completa violazione degli accordi sottoscritti. La «fase due», per come si sta configurando, non piace neanche un po’ agli alleati di Netanyahu. L’istituzione della Isf (International Stabilization Force), porterebbe rappresentanza internazionale armata nella Striscia (prendendo il posto dell’esercito israeliano), mentre il «Comitato di Pace» garantirebbe il controllo politico degli Stati uniti, che potrebbero a loro volta consentire ai leader mondiali di visitare l’enclave palestinese devastata dai bombardamenti israeliani. L’Unione europea (Ue) ha poi promesso di ripulire l’odiata (da Israele) Autorità nazionale palestinese (Anp), modellandola sui desideri di Washington e di addestrare una forza di polizia – sempre palestinese – che opererebbe a Gaza. NON SI SA SE E QUANDO questo programma si realizzerà: i particolari restano fumosi, non si conoscono i Paesi coinvolti, quali siano i piani per garantire il disarmo di Hamas, né come avverrà la ricostruzione. Ma è chiaro che a Israele resta una sola mossa per assicurarsi che tutto ciò non prenda forma, soprattutto ora che gli ostaggi vivi sono tornati a casa e che procedono le ricerche dei tre corpi rimanenti. Esercito e aviazione sono pronti a scattare nel caso in cui Hamas o Hezbollah dovessero decidere di rispondere alle uccisioni. E il premier spera che le autoassoluzioni preventive da lui stesso pubblicate, per iscritto e in inglese, rappresentino la versione rilanciata dai media. Diversi membri del governo e lo stesso Netanyahu hanno dichiarato a più riprese che Israele non intende «appaltare» il controllo militare della Striscia, e l’idea di un coinvolgimento dell’Anp piace così tanto che il ministro della sicurezza nazionale, Itamar Ben Gvir, è arrivato a proporre di ucciderne l’intera leadership e di imprigionare Abu Mazen. LA RIPRESA dei combattimenti, compresi quelli di terra, potrebbe anche offrire al governo un argine temporaneo alle mobilitazioni in crescita. Ieri sera le piazze hanno nuovamente chiesto una commissione statale d’inchiesta sulle responsabilità politiche che hanno condotto all’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, quando furono uccise circa 1.200 persone. Sta di fatto che ieri Israele ha ammazzato 24 palestinesi nella Striscia. Il primo bombardamento ha colpito un’automobile nel mezzo del popoloso quartiere di Rimal, a Gaza City, uccidendo 11 persone e ferendone altre 20, tra cui molti bambini che sono stati trasportati, terrorizzati e coperti di sangue, all’ospedale al-Shifa. Il secondo attacco ha centrato una casa vicino all’ospedale al-Awda, uccidendo tre persone. Altre sette, tra cui un bambino, sono morte nel bombardamento a un’abitazione nel campo profughi di Nuseirat. Tre vittime, tra cui una donna, sono state causate da un altro attacco a Deir al-Balah. IN AGGIUNTA, l’esercito ha dichiarato di aver ucciso tre persone che avrebbero attraversato la «linea gialla» e altre due che si trovavano nell’area occupata da Tel Aviv. Secondo la versione dei militari, i bombardamenti sono stati la risposta a un tentativo di aggressione. Un breve video diffuso dall’esercito mostra un uomo armato il quale, da solo, avrebbe guidato fin oltre la linea gialla, sparando dalla distanza contro una postazione militare. L’uomo è stato ucciso e nessun soldato è rimasto ferito. Hamas ha dichiarato che si tratta di pretesti fabbricati da Tel Aviv per giustificare le violazioni sistematiche del cessate il fuoco, e un tentativo di riprendere i combattimenti. Anche in Libano continuano i bombardamenti: ieri un uomo è stato ucciso nel sud e un altro nella valle della Bekaa, nel nord est del Paese.
Ritorna l’inferno a Gaza: «Nei raid 21 morti» Hamas pronto a rompere
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di Luca Foschi
Ritorna l’inferno a Gaza: «Nei raid 21 morti» Hamas pronto a rompere
Ritorna l’inferno a Gaza: «Nei raid 21 morti» Hamas pronto a rompere «L’accordo è terminato e siamo pronti a combattere». Sarebbe il messaggio consegnato da Hamas all’inviato Usa Witkoff in risposta ai bombardamenti israeliani che ieri hanno ucciso almeno 21 persone nella Striscia di Gaza. Foschi a pagina 17 Ramallah «L’accordo è terminato e siamo pronti a combattere». È questo, secondo l’emittente saudita Al Hadath, il messaggio consegnato da Hamas all’inviato statunitense Steve Witkoff e al negoziatore e genero del presidente Trump, Jared Kushner, in risposta ai bombardamenti israeliani che ieri hanno ucciso almeno 21 persone nella Striscia di Gaza. Cinque distinti raid aerei distribuiti su tutta l’enclave. Una replica, sostengono le forze armate israeliane, alla violazione del cessate il fuoco nell’area di Rafah, dove «un terrorista ha attraversato la linea gialla sfruttando la rotta umanitaria e ha aperto il fuoco sulle truppe israeliane». Un rappresentante di Hamas ha respinto le accuse, definendole semplici «pretesti per uccidere». «Israele ha una politica, concordata con i mediatori, per cui le violazioni del cessate il fuoco saranno affrontate con una risposta immediata», ha affermato un funzionario americano. L’emittente libanese al-Mayadeen ha riferito che una delegazione di alto livello di Hamas, guidata dal capo-negoziatore Khalil alHayya, raggiungerà il Cairo nelle prossime ore per “coordinare le posizioni con i Paesi arabi e rafforzare la posizione nazionale palestinese contro i piani israeliani”. L’Idf ha reso noto in serata di aver individuato e ucciso «tre terroristi» che venerdì erano usciti dai tunnel sotterranei di Rafah, riuscendo poi a nascondersi. Gli uomini appartengono probabilmente al gruppo di 100-200 miliziani di Hamas che il cessate il fuoco del 10 ottobre ha sorpreso all’interno della “Linea Gialla” che delimita il territorio occupato da Israele. Da settimane la diplomazia a guida americana sta faticosamente cercando di preservare la tregua garantendo un ritorno «dignitoso» e disarmato dei guerriglieri nel settore controllato dal movimento islamista. Nel suo comunicato l’Idf ha poi aggiunto di aver «individuato altri quattro terroristi che avevano attraversato la linea gialla, in due distinti episodi nel nord di Gaza», e di averne uccisi due in collaborazione con l’aviazione israeliana. Una delegazione di Hamas, guidata dal dirigente del movimento Khalil al-Hayya, raggiungerà nelle prossime ore il Cairo per «coordinare le posizioni contro i piani israeliani». Il pericoloso vacillare della tregua, e dell’intero percorso di pace e ricostruzione nella Striscia, rende ancora più difficili le già insostenibili condizioni della popolazione. Secondo l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi (Unrwa), al 10 novembre circa un milione di ga2awi vivono in 862 campi profughi e solo 80.000 persone hanno trovato rifugio nei siti allestiti dall’agenzia. «Gli aiuti umanitari si sono quasi completamente interrotti dall’inizio della tregua. Non c’è una sola struttura sanitaria pienamente funzionante nella Striscia di Gaza. La situazione è migliorata, ma il dolore non è finito . La gente è arrabbiata perché non ci sono abbastanza tende per proteggerla dalla pioggia e dal freddo», ha denunciato ieri Franz Low, coordinatore delle emergenze di Medici senza frontiere nella Striscia di Gaza. Mentre quelle montate fanno acqua da tutte le parti e le malattie polmonari stanno mietendo vittime. L’operatore umanitario ha invitato la comunità internazionale a esercitare pressioni su Israele affinché permetta l’ingresso dei materiali necessari. Su Israele e sugli Usa, se è vero, come annunciato due settimane fa, che il Centro per il coordinamento civile-militare (Cmcc) americano ha sostituito l’esercito israeliano nella guida della gestione del flusso degli aiuti, palesemente ostacolato nelle prime settimane seguite all’interruzione, parziale, del conflitto.
«Il Papa in Libano segno di speranza e aiuto alla pace»
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di Giacomo Gambassi
«Il Papa in Libano segno di speranza e aiuto alla pace»
IL GENERALE ABAGNARA «Il Papa in Libano segno di speranza e aiuto alla pace». Parla il generale Diodato Abagnara che guida la missione Unifil lungo il confine con Israele dove si susseguono gli attacchi. «Dal Pontefice un incoraggiamento a chi opera per il bene della gente. C’è bisogno di coraggio e ascolto» Roma non solo venti di guerra, macerie e ancora raid da oltre confine. Nel Sud del Libano arriva anche l’eco «di incoraggiamento e di fiducia» del viaggio di Leone XIV, come lo definisce il generale Diodato Abagnara. Da giugno è il capo missione e comandante della Forza Unifil che dal 1978 presidia l’area meridionale del Paese e la Blue line che corre lungo la frontiera con Israele. Terra ancora sotto il fuoco di Tel Aviv, nonostante la tregua sancita esattamente un anno fa che ha congelato due anni di conflitto tra Israele e Hezbollah. I blitz sulla popolazione non si sono interrotti. E nei giorni scorsi c’è stata anche la “sortita” israeliana a colpi di mitragliatrice che ha investito le truppe Onu. È in una nazione dove gli attacchi si fanno sentire a cadenza quasi giornaliera quella che il Papa ha scelto di visitare: da domenica prossima a martedì 2 dicembre. Dopo la tappa “ecumenica” in Turchia per i 1.700 anni del Concilio di Nicea in programma da giovedì a domenica, il Pontefice sarà in uno dei Paesi del Medio Oriente feriti da combattimenti e rancori. «La pace non è un concetto astratto, ma un impegno quotidiano che richiede coraggio, ascolto e rispetto reciproco», spiega ad Avvenire il generale Abagnara. Come ha ricordato anche ieri il Pontefice in piazza San Pietro sottolineando che serve “prendere posizione dove la dignità umana è calpestata”. «La visita di Leone XIV – racconta Abagnara – rappresenta un momento di profonda speranza per il Libano e per tutti coloro che operano per la pace. Il motto scelto, “Beati gli operatori di pace”, riflette perfettamente la missione Unifil: uomini e donne provenienti da circa cinquanta Paesi diversi che ogni giorno lavorano per prevenire le tensioni e favorire il dialogo». “Soldati di pace”, diecimila in tutto, che tornano a essere guidati da un italiano. Generale, il Papa sarà tre giorni a Beirut e dintorni. Mancano le condizioni di sicurezza per una “deviazione” nel Sud? Il Sud del Libano resta un’area delicata, ma non possiamo definirla insicura. La situazione è complessa, perché qui convergono tensioni regionali e dinamiche locali, ma la presenza di Unifil e la cooperazione costante con le Forze armate libanesi garantiscono un presidio di stabilità. Gli standard di sicurezza richiesti per una visita papale sono naturalmente elevatissimi. In questo senso, la valutazione delle autorità libanesi è prudente e comprensibile. L’area del Libano che guarda verso Israele è devastata. Qual è adesso la situazione? Le difficoltà economiche e sociali sono molto evidenti: mancano risorse, molti giovani emigrano, le comunità locali faticano a garantire servizi di base. Tuttavia, si percepisce un grande senso di dignità, volontà di resistere e di ricominciare. Unifil opera in stretto contatto con i sindaci, le scuole, gli ospedali e le autorità religiose per sostenere progetti concreti come forniture sanitarie, energia, acqua potabile, istruzione. Sono piccoli gesti, ma in un contesto fragile fanno la differenza. La presenza Onu non è solo presidio, ma appunto anche vicinanza alla popolazione. Il nostro primo dovere è la sicurezza dei civili. E accanto a questo Unifil porta avanti centinaia di iniziative a favore delle comunità: scuole, cliniche, progetti agricoli, microelettrificazione, formazione per donne e giovani. Tutto è fatto in coordinamento con le autorità locali e nel pieno rispetto del mandato. È la dimostrazione che la sicurezza e lo sviluppo umano sono due facce della stessa medaglia. Giovanni Paolo II definiva il Libano un “Paese messaggio” per la coabitazione di diciotto comunità religiose che i caschi blu incrociano nelle loro attività. Quanto il fattore religioso può contr
ibuire a una convivenza pacifica? Il pluralismo religioso del Libano è un patrimonio da proteggere. Ciò rende il Paese un laboratorio di dialogo. La religione, se vissuta come testimonianza di pace, può essere un potente fattore di riconciliazione. Unifil, pur non avendo un ruolo religioso, lavora ogni giorno perché le condizioni di sicurezza permettano alle diverse comunità di vivere insieme, con rispetto e fiducia reciproca. Il Consiglio di sicurezza ha confermato la missione fino al 31 dicembre 2026. Poi potrebbe profilarsi un ritiro delle truppe Onu, caldeggiato da Usa e Israele. Una svolta dopo 47 anni di presenza iniziata nel 1978 a seguito dell’invasione del Libano da parte israeliana? La proroga di ormai 14 mesi conferma il valore del lavoro di Unifil e la fiducia del Consiglio di Sicurezza. Ogni riflessione sul futuro è legittima, ma un eventuale ridimensionamento dovrà avvenire in modo graduale, coordinato e soprattutto basato sulle capacità delle istituzioni libanesi di assicurare la piena sovranità sul territorio. Il nostro obiettivo è accompagnare questa transizione, rafforzando le Forze armate libanesi affinché siano in grado di gestire in autonomia la sicurezza a sud del fiume Litani. Come tenere sotto controllo un’area così delicata per tutto il Medio Oriente? Attraverso presenza, trasparenza e dialogo. Ogni giorno migliaia di peacekeeper pattugliano la Blue line e le aree limitrofe. Ma il vero valore aggiunto di Unifil risiede nell’attuale meccanismo Pentalaterale, che ha evoluto e sostituito il precedente formato Tripartito. Questo nuovo metodo di consultazione riunisce Unifil, Stati Uniti, Francia, Forze armate libanesi e Forze di difesa israeliane, offrendo una piattaforma più ampia e coordinata per affrontare le questioni di sicurezza, prevenire le escalation e mantenere aperto il dialogo lungo la Blue line. Quale l’apporto specifico del contingente italiano? Dal 1978 la presenza italiana in Libano rappresenta un punto di riferimento costante per stabilità, dialogo e cooperazione. L’apporto del contingente italiano è riconosciuto e rispettato da tutte le parti: la nostra forza risiede nella professionalità, nella capacità di ascolto e nella credibilità costruita sul terreno, giorno dopo giorno. L’Italia non impone, ma accompagna. Opera con equilibrio, umanità e profondo rispetto per la cultura locale. Anche nei momenti più complessi, il metodo italiano, fatto di vicinanza alle comunità, disciplina, cuore e senso del dovere, ha contribuito a costruire fiducia, ridurre tensioni e rafforzare la percezione di sicurezza. Oggi il contributo italiano è ancora più rilevante. L’Italia guida il settore Ovest, con oltre 1.300 uomini e donne, una delle aree più sensibili dell’intera operazione, garantendo la libertà di movimento di Unifil, il coordinamento con le Forze armate libanesi e il supporto ai meccanismi di de-escalation lungo la Blue line. Come si opera sul campo? La presenza italiana comprende capacità operative altamente qualificate, che permettono alla missione di mantenere una reattività immediata anche in condizioni operative particolarmente complesse. Parallelamente, l’Italia offre un contributo unico nel campo del supporto alla popolazione, grazie a progetti che alleviano le difficoltà quotidiane delle comunità e rafforzano il legame di fiducia con la popolazione. Allo stesso tempo, il nostro Paese continua a essere fortemente impegnato nella formazione delle Forza armate libanesi nel quadro della stabilizzazione del South Litani Sector, sostenendo la crescita e la modernizzazione delle istituzioni di sicurezza libanesi. Come la leadership italiana ha più volte ricordato, l’impegno in Libano «testimonia l’identità del Paese come costruttore di sicurezza e promotore di stabilità nel Mediterraneo allargato». È un impegno che coniuga professionalità militare, sensibilità umana e responsabilità internazionale, e che trova proprio in Unifil uno dei suoi esempi più significativi e riconosciuti.
L’omaggio del sindaco sciita all`ordinario militare Saba
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L’omaggio del sindaco sciita all`ordinario militare Saba
«La pace non è frutto di improvvisazione. Servono donne e buoni che ogni giorno si spendono per contribuire a costruirla». L’ordinario militare per l’Italia, Gian Franco Saba, racconta l’impegno del contingente italiano Unifil in Libano. L’arcivescovo si è recato nel Paese a pochi giorni dall’arrivo di Leone XIV. «C’è grande attesa per il Papa. In lui la nazione ripone molta fiducia perché possa suscitare un messaggio di speranza», spiega Saba. L’arcivescovo ha visitato i militari della Penisola schierati in Libano. «Operano in territori difficili – racconta – dove si spendono con generosità, dedizione ed entusiasmo, anche mettendo a rischio la vita e facendo i conti con la lontananza dalle famiglie. Un lavoro nel silenzio e per il bene comune che come Chiesa sosteniamo». Il presule ha toccato numerose località, da Beirut alla zona “calda” al confine con Israele, comprese le basi avanzate lungo la Blue line incontrando i peacekeeper italiani che svolgono attività di sorveglianza. «Il Libano è una culla della fede cristiana e un esempio di convivenza fra le tradizioni religiose che, però, è lacerato dal male della guerra. Eppure, con le sue esperienze di dialogo, resta un laboratorio di pace», sottolinea l’arcivescovo. Nella base “Millevoi” di Shama – sede del Sector West a guida italiana – ha benedetto un mosaico della Madonna Odigitria. E a Tiro ha ricevuto la cittadinanza onoraria dal sindaco musulmano sciita Hassan Dbouk, per il sostegno fornito al contingente italiano e alle attività di supporto per gli aiuti umanitari distribuiti ai caschi blu italiani a favore dei residenti della provincia di Tiro.
Disarmo a rilento in Libano. Pressioni Usa su Hezbollah
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di Michael Sfaradi
Disarmo a rilento in Libano. Pressioni Usa su Hezbollah
I cessate il fuoco che avrebbero dovuto portare calma nella Striscia di Gaza e al confine fra Israele e Libano stanno per crollare: i segnali ci sono tutti. Le relazioni tra Stati Uniti e Libano sono in crisi e l’annullamento della visita del comandante dell’esercito libanese a Washington ne è la cartina tornasole. L’amministrazione Usa non è soddisfatta di come procede il disarmo di Hezbollah, anzi, secondo informazioni di Intelligence arrivate alla Casa Bianca, i terroristi sciiti hanno ripreso a finanziarsi e a ricostruire i propri ranghi. La pazienza è agli sgoccioli e gli Usa pretendono che il governo libanese adotti misure drastiche per impedire a Hezbollah di riprendere vigore. Washington, che ha mediato tra Libano e Israele da una parte placando le crescenti richieste israeliane e dall’altra incoraggiando Beirut a fare di più, vuole uscire dallo stallo che mette in pericolo i piani a lunga scadenza del Presidente Donald Trump. A mettere benzina sul fuoco è stata la dichiarazione del Dipartimento del Tesoro USA che ha puntato il dito contro la Forza Quds iraniana, designata come organizzazione terroristica, che da gennaio 2025 ha trasferito 1 miliardo di dollari a Hezbollah per mezzo di società cambio valuta. A Washington, come era logico prevedere, stanno toccando con mano quello che Gerusalemme aveva predetto, e cioè che i cessate il fuoco altro non sono che un periodo di fermo utile ai terroristi per riarmarsi. Hezbollah ha dichiarato che una delegazione di Hamas, di cui fa parte Khalil al-Hayya, quello che si sarebbe dovuto incontrare in Turchia con l’inviato speciale degli Stati Uniti in Medio Oriente Steve Witkoff, arriverà al Cairo nelle prossime ore. L’obiettivo è coordinare con i paesi arabi il rafforzamento della posizione nazionale palestinese contro i piani israeliani. Ecco spiegato perché l’appuntamento di Ankara è stato annullato da Washington all’ultimo momento. L’Egitto continua a ospitare terroristi e per Gerusalemme, al pari della Turchia e del Qatar, sta diventando un collaboratore esterno del terrore. Per gli osservatori è quasi certo che questo potrebbe portare a un veto da parte israeliana sulla presenza di soldati egiziani nell’eventuale futura forza internazionale a Gaza . È probabile che finanziamenti iraniani, e di conseguenza riarmo in previsione della ripresa dei combattimenti, siano arrivati anche ad Hamas a Gaza. Sono due i segnali in questo senso: l’esercito israeliano ha negli ultimi giorni eseguito diverse operazioni per distruggere nuovi magazzini di armi dei quali fino a poco tempo fa non se ne conosceva l’ubicazione, e poi, e la notizia non è da poco, Hamas ha comunicato a Steve Witkoff che l’accordo di cessate il fuoco è terminato e che l’organizzazione terroristica è pronta a combattere. Nuove armi, nuova guerra. Nella dichiarazione spiccava una frase emblematica: «Gaza non sarà il Libano». Frase che può essere interpretata come atto di accusa nel caso Hetzbollah accettasse di ritirarsi a nord del fiume Litani, oppure come incitamento a non farsi disarmare per riprendere la guerra, appena pronti, contro lo Stato Ebraico. Teheran ha promesso armi e soldi, a quanto pare sta mantenendo la parola data. Se a questo aggiungiamo che l’esercito israeliano sta fortificando le posizioni sul Golan al confine con la Siria a difesa delle popolazioni druse, il quadro, per niente rassicurante, è completo.
La riunione tra Ucoii e Hannoun finisce in Parlamento e all`Ue
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di Giulia Sorrentino
La riunione tra Ucoii e Hannoun finisce in Parlamento e all`Ue
La riunione Zoom tra Yassine Lafram (Presidente dell’Ucoii) e Mohammad Hannoun cui Il Tempo si è infiltrato sta generando polemica all’interno della maggioranza. A presentare un’interrogazione parlamentare al ministro dell’interno Matteo Piantedosi è il presidente dei senatori di Forza Italia Maurizio Gasparri, che definisce «inquietante l’accostamento tra Lafram, Presidente dell’unione delle comunità islamiche, che si dovrebbe occupare di promuovere il dialogo interreligioso, con Mohammad Hannoun, un amico dei terroristi e ritenuto uomo di Hamas dagli Stati Uniti, che continua a imperversare nelle piazze italiane e per cui ci auguriamo che siano presi presto dei provvedimenti. Il Tempo nella sua inchiesta ha fatto una domanda ben precisa a Lafram: che cosa ci faceva a un evento organizzato dall’associazione dei palestinesi in Italia che fa capo ad Hannoun? Alla precisa domanda della giornalista, lui ha eluso il tema dicendo di non essere il portavoce di Hannoun». Sì, perché gli abbiamo chiesto come mai non sentisse il bisogno di discostarsi da chi in pia2a ha invocato la legge del taglione e che oggi ha un daspo da Milano per istigazione all’odio. Ma Lafram ha anche parlato di Israele come di uno stato genocida, concetto difficilmente conciliabile con chi si dice promotore di pace, e ha negato i legami che sono stati ampiamente documentati tra la Flotilla e il terrorismo palestinese. Per questo il forzista chiede «al Ministro dell’interno, Matteo Piantadosi di far luce sui finanziamenti che riceve l’Ucoii, su quali siano i legami tra quello che si considera il volto dell’Islam moderato e Mohammad Hannoun, così come di far luce su ogni eventuale irregolarità all’interno dell’Ucoii». Ma il caso finisce anche al Parlamento Europeo, e a fare l’interrogazione è l’europarlamentare della Lega Anna Maria Cisint: «Sono finalmente usciti allo scoperto. L’Ucoii ha mostrato il suo vero volto, scegliendo di accompagnarsi a personaggi pericolosi per la nostra sicurezza e la nostra democrazia come Hannoun. Parliamo della stessa Ucoii che gestisce e foraggia, con fondi provenienti dal Qatar e da organizzazioni vicine alla Fratellanza Musulmana, moschee abusive in tutta Italia e che non rende pubblici i suoi bilanci solo dal 2020. La vicinanza tra Lafram e Hannoun ci preoccupa profondamente e non fa altro che confermare la commistione tra islam politico e i centri islamici che l’Ucoii gestisce», Per questo intende «vederci chiaro anche a livello europeo, presentando una interrogazione, per verificare se l’Ucoii o realtà ad essa connesse percepiscano finanziamenti dall’UE e per capire come la Commissione Von der Leyen intenda prevenire la radicalizzazione dei giovani musulmani nei Paesi membri, garantendo il rispetto dei diritti delle donne e delle libertà sancite dal diritto europeo e internazionale, arginando il diffondersi dell’islamismo». A intervenire anche Mauro Malaguti, deputato di Fratelli d’Italia e componente della Commissione Difesa: «Secondo il report già pubblicato del Ministero della Diaspora israeliano “alcuni membri del comitato direttivo della Global Sumud Flotilla (GSF) avevano partecipato a incontri con rappresentanti di organizzazioni terroristiche designate dagli Stati Uniti, tra cui Hamas, la Jihad Islamica Palestinese (PIJ) e il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP). Inoltre, avrebbero fornito finanziamenti a diverse organizzazioni nella Striscia di Ga2a”. Viene quindi naturale chiedersi perché Yasmine Lafram non voglia rispondere con chiarezza al quesito postogli dai giornalisti de Il Tempo riguardo ai suoi rapporti con Hannoun ritenuto uomo di Hamas, al punto di essere con lui in una conferenza stampa (quella in cui infiltratosi Il Tempo). Resta da capire solo se Lafram abbia intenzione di smarcarsi in toto da Hannoun, Hamas e tutto ciò che si avvicina al fondamentalismo.
Il Pd a Bologna regala casa a chi fa fuoco sulla polizia
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di Alessandro Gonzato
Il Pd a Bologna regala casa a chi fa fuoco sulla polizia
Tragicomico. Migliaia di violenti pro-Pal prendono di nuovo in ostaggio Bologna? Il sindaco, il dem Matteo Lepore, dà la colpa al governo: «La gestione del Viminale è stata sconsiderata. Avevo chiesto di usare la testa e non i muscoli, e questo purtroppo è il risultato». Una moltitudine di delinquenti, ancora una volta – è successo venerdì sera – feriscono i poliziotti (stavolta 16)? Il dem afferma che «l’80% delle persone che hanno partecipato agli scontri veniva da fuori città», che è un altro modo per scaricare la colpa sul Viminale, e di far ridere, per almeno due ragioni. La prima: il pro-Pal Lepore, ci chiediamo, s’è messo a girare tra i violenti e tra una bomba carta, un razzo, e una raffica di chiodi scagliati contro gli agenti, tra un cassonetto dato alle fiamme e un cantiere stradale devastato ha chiesto i documenti? «Mi scusi lei che sta appiccando l’incendio, è del centro o è un forestiero?»; «Pardon, prima di scagliare quell’asse di legno contro la camionetta della polizia potrebbe fornirmi il cap?». INDAGINI Il secondo motivo per cui Lepore ha fatto la figura del Lepore è che la questura lo ha clamorosamente smentito: «A partire dalle 19, in piazza Maggiore, si sono radunati circa 5mila manifestanti, tra i quali circa cento provenienti da altre province». Forse – ma può essere che Lepore sia Tom Ponzi – la questura ha qualche strumento in più per capire chi veniva da dove. Finora gli identificati sono 16 e ci sono decine di filmati al vaglio. Ma attenzione perché la figuraccia non è finita, anzi. Prima la questura ha spiegato da dove venivano gli “stranieri” che col pretesto di contestare la partita di basket tra Bologna e Maccabi Tel Aviv («Non si deve giocare, fuori i sionisti dalla città!») hanno scatenato la violenza: «Esponenti del centro sociale torinese Askatasuna, dei centri sociali del Nord-Est e soggetti provenienti da Roma e Genova». Poi – attenzione – la questura ha sottolineato da che realtà venivano principalmente i manifestanti bolognesi: «Potere al Popolo, Sindacato Usb, Cambiare Rotta (…) Giovani Palestinesi, Plat, Labas e Tpo, tutti aventi sede in città e questi ultimi due in locali concessi in uso dal Comune di Bologna». Tra chi ha preso in ostaggio i bolognesi ci sono perfino attivisti che hanno ricevuto locali a canone gratuito, simbolico o calmierato: lo dice di nuovo la questura e lo dicono i fatti. La storia del centro sociale Labas è emblematica: nel 2012 decine di antagonisti hanno aperto e occupato una caserma dismessa, in via Orfeo; nel 2017 è stato sgomberata dalle forze dell’ordine; il Comune in seguito ha indetto un bando per l’assegnazione di un altro spazio, il quadriportico di vicolo Bolognetti: il bando lo ha vinto Labas, il secondo classificato ha fatto ricorso al Tar, è intervenuto il Consiglio di Stato, una situazione imbarazzante da cui Lepore ha provato a uscire prorogando la concessione degli spazi. Per la Lega «una proroga scandalosa» e per Fratelli d’Italia «una decisione di un’amministrazione sempre più in bilico tra incompetenza e arroganza». Il provvedimento di proroga è stato pubblicato in contemporanea con la scadenza dell’assegnazione. Per Fdi «non è credibile che il Comune non sia stato in grado di indire un nuovo bando entro la scadenza». Secondo il consigliere leghista Matteo Di Benedetto «una scelta scandalosa, dato che è stato concesso uno spazio pubblico dal valore commerciale alt issimo, peraltro a una realtà politicamente molto vicina all’amministrazione». A febbraio 2022 ammontavano a 37mila euro gli arretrati che l’associazione “Nata per sciogliersi”, evoluzione giuridica di Labas, aveva accumulato: cinque anni di bollette insolute. Tra i pro-Pal scesi in strada pure quelli del centro sociale Plat, i cui attivisti a ottobre hanno tentato di impedire lo sfratto di due famiglie: la prima occupava illegalmente l’appartamento da quasi due anni e l’altra da sei mesi. A entrambe gli avvisi di sfratto erano stati inviati a dicembre 2022. Poche ore dopo lo sgombero il Plat, con l’incoraggiamento di Ilaria Salis, come risposta ha occupato abusivamente con 150 persone un altro stabile del Comune. Com’è andata a finire? Lepore ha accontentato gli sfrattati del mattino, ospitati poi in un albergo cittadino, e ad altri che vivono sotto procedura di sfratto è stato concesso, scendendo a patti, di rientrare nelle abitazioni. ASSEGNO Per Lepore, uno dei primi sindaci a esporre alla finestra la bandiera palestinese, la partita contro la squadra israeliana doveva essere annullata, la stessa posizione dei violenti che hanno attaccato la polizia. Il sindaco aveva detto che il ministro dell’Interno, contrario all’annullamento, se ne sarebbe assunto la responsabilità. Ieri ha rilanciato: «Il ministro credo debba sapere che ci sono 100mila euro di danni ed è giusto che qualcuno paghi». Mandare il conto ai violenti? Macché! Piantedosi l’indomani della guerriglia ha commentato: «Abbiamo assistito all’ennesima situazione in cui da una parte c’erano persone che cercavano solo un volgare pretesto per mettere in scena la consueta violenza; dall’altra le forze di polizia che si sono confermate baluardo dei valori di autentica democrazia. Agli operatori impegnati sul campo, al prefetto e al questore vanno tutto il mio apprezzamento, il mio pieno sostegno e il più sincero ringraziamento per la fermezza e l’equilibrio dimostrati nell’occasione».
Coccolano i violenti e poi chiedono i danni
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di Francesco Boezi
Coccolano i violenti e poi chiedono i danni
Il sindaco di Bologna Lepore chiede un risarcimento dopo gli scontri dei pro Pal. I centri sociali protagonisti? Tutti coccolati dal Comune Il sindaco di Bologna Matteo Lepore attacca il Viminale per gli scontri di venerdì fra pro Pal e agenti e chiede i danni. Ma da anni il Comune aiuta, sostiene e patrocina le attività dei centri sociali, i cui esponenti violenti l’altra sera hanno riempito di chiodi le bombe carta tirate sui poliziotti. Mentre tre consiglieri di sinistra erano in piazza al loro fianco. con Galici e Giubilei alle pagine 2-3 Coccole della sinistra ai violenti. Matteo Lepore, sindaco di Bologna, prova a scaricare sul governo la responsabilità dei tafferugli e dei danni di ieri. Ma la verità è che la sua città è imprigionata in un sistema in cui amministrazione e centri sociali procedono a braccetto, legati mani e piedi da anni di complicità e indulgenza. Il sindaco ha parlato di una gestione dell’ordine pubblico «sconsiderata da parte del Viminale», e ha chiesto risarcimenti. La «colpa» del ministro Matteo Piantedosi sarebbe insomma quella di non aver fermato una partita di basket, Virtus Bologna-Maccabi. Per Lepore l’esecutivo ha dato vita a uno scontro «testosteronico», usando «i muscoli» e non «il cervello». Insomma i violenti, che per il sindaco arriverebbero tutti «da fuori città», avrebbero trovato sponda nella scelta del Viminale. Il sottosegretario Molteni replica definendo «parole irresponsabili» quelle del primo cittadino. E peccato che le sigle in piazza fossero in larga parte bolognesi. E peccato, soprattutto, che sia proprio Palazzo d’Accursio a garantire da anni sostegno, spazi e legittimazione a quegli stessi centri sociali che oggi Lepore finge di non conoscere. Prendiamo il caso Làbas, tra i protagonisti della protesta anti-Israele. La sigla, tramite un’associazione, gestisce spazi comunali in pieno centro (vicolo Bolognetti 2), ottenuti con un bando che l’opposizione definisce «a due lire» e considera cucito su misura, dopo che una precedente assegnazione era stata bocciata dal Tar. Il centro sociale Tpo, anche lui in piazza, usufruisce del patrocinio comunale per un doposcuola e, sul sito del Comune, compare un «contributo» dedicato all’attività. Tpo come evidenziato dalla questura ha, come Làbas, «locali concessi in uso dal Comune». Il laboratorio Crash, altro protagonista della mobilitazione contro la partita, ha ottenuto l’ex centrale del latte di via Corticella. Insomma, se può essere complesso individuare i singoli responsabili del ferimento degli agenti e dei danni (circa 100mila euro), una cosa è certa: Lepore conosceva bene – eccome – le sigle che hanno animato il corteo. La Lega, peraltro, segnala come in piazza Maggiore, prima della partenza del corteo, fossero presenti due esponenti del centrosinistra. I due, che poi scrivono sui social di essere stati pacificamente in piazza, sono Giovanni Gordini, della lista «Civici con De Pascale», e Giacomo Tartisano, che siede in consiglio comunale con la lista «Lepore Sindaco». E Patrik Zaki ha condito Instagram con stories dalla scena della manifestazione. Il cuore dell’iniziativa, in buona sostanza, era tutto bolognese. E del resto sempre la questura e sottolinea come le persone provenienti «da fuori» fossero al massimo 100 su 5mila. Stefano Cavedagna, europarlamentare di Fdi, parla di «responsabilità politica» di Lepore. E ne chiede le dimissioni: «Lepore proverà a dire che lui lo “aveva detto” ma la realtà è che sono gruppi che conosce e che finanzia. Sapeva benissimo il copione di questi personaggi e ha alzato volutamente il livello della tensione». Toni simili a quelli del capogruppo in Consiglio comunale della Lega Matteo Di Benedetto: «Chiediamo che i consiglieri di sinistra presenti ieri in piazza chiariscano la loro posizione dinanzi a fatti così gravi. E crediamo dov eroso che le fatture dei danni debbano essere pagati dagli organizzatori del convegno, veri responsabili di quanto accaduto». Poi c’è Siid Negash, consigliere di origine eritrea e musulmano che è il capogruppo della lista «Lepore sindaco», sostenitore della Global Sumud Flotilla e così via. Anche lui condivide il post in cui i consiglieri Gordini e Tartisano rivelano di essere stati in piazza. Lepore, quindi, dopo aver caricato a molla la parte più rossa di Bologna sul boicottaggio della partita, chiede i danni al Viminale, che ha solo cercato di evitare un precedente. E lo fa, facendo finta di non sapere chi fossero gli animatori della piazza contro Israele. Gli stessi animatori che, in qualche caso, vengono foraggiati o aiutati dal Comune.
Ucciso comandante di Hamas a Gaza. Raid su tutto il sud del Libano
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di Paolo Fruncillo
Ucciso comandante di Hamas a Gaza. Raid su tutto il sud del Libano
La giornata ha segnato una nuova impennata di tensione sul fronte israelo palestinese e in Libano, mentre dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu arrivava l’approvazione, con tredici voti favorevoli e due astensioni (Russia e Cina), la risoluzione che dà via libera al piano di pace proposto da Washington per la Striscia di Gaza. La misura autorizza il dispiegamento di una forza internazionale incaricata di stabilizzare l’enclave e disarmare Hamas, aprendo una nuova fase in un conflitto che, nonostante il cessate il fuoco, continua a produrre vittime e tensioni in tutta la regione. Intanto a Gaza City un raid israeliano ha colpito un’auto nel quartiere di Rimal, uccidendo almeno cinque persone tra cui Alaa Abu Abdallah al Hadidi, alto ufficiale dell’ala militare di Hamas e responsabile dei rifornimenti del suo quartier generale. L’operazione sarebbe stata una risposta a un attacco armato contro le truppe israeliane nella Striscia. Le Idf non hanno fornito dettagli aggiuntivi, mentre da Gaza i media locali hanno denunciato anche un secondo raid su Deir al Balah. Parallelamente, l’esercito israeliano ha riferito che un gruppo di miliziani di Hamas, da settimane nascosti in una rete di tunnel sotto Rafah, ha tentato una fuga verso aree controllate dalle Idf. Quindici sono emersi dal sottosuolo: cinque si sono arresi e sono stati trasferiti in Israele dallo Shin Bet, sei sono stati uccisi da un raid oltre la Linea Gialla mentre, secondo l’esercito, “si avvicinavano alle truppe”. Altri sarebbero riusciti a disperdersi nella zona, dove l’Idf continua la caccia “da terra e dall’alto”. Hamas ha accusato Israele di “continue violazioni” del cessate il fuoco e ha chiesto ai mediatori di Egitto, Qatar e Turchia di “imporre il rispetto degli impegni assunti”. Il movimento ha invocato anche un intervento diretto dell’amministrazione Trump, definendo “urgente” la necessità di pressioni su Tel Aviv. Da parte israeliana, il premier Benjamin Netanyahu ha condizionato la riapertura del valico di Rafah alla restituzione degli ultimi tre ostaggi deceduti: solo allora, ha aggiunto, “chiunque a Gaza voglia lasciare l’enclave dovrebbe poterlo fare”. ALLARME UMANITARIO DI MSF E UNICEF In questo quadro continuano, dalla comunità internazionale, gliallarmi umanitari. Medici Senza Frontiere ha denunciato l’insufficienza degli aiuti entrati nella Striscia nonostante il cessate il fuoco del 10 ottobre. L’organizzazione segnala che migliaia di sfollati affrontano il freddo senza tende né coperte, mentre continuano gli spari e gli incidenti vicino alla Linea Gialla a Khan Younis. Le agenzie Onu hanno invece reso noto che quasi 14mila bambini sono stati vaccinati nel primo ciclo della campagna di recupero, che ha incluso lo screening della malnutrizione: 508 piccoli sono risultati gravemente denutriti e avviati alle cure. RAID SUL LIBANO, UCCISO MILIZIANO Nel frattempo il conflitto si allarga nuovamente verso il Libano. L’esercito israeliano ha confermato una serie di operazioni contro obiettivi di Hezbollah nel sud del Paese e nella valle orientale della Bekaa. Secondo l’Idf, sono stati colpiti lanciarazzi recentemente posizionati in violazione degli accordi bilaterali, oltre a due siti militari con attività di miliziani e depositi d’armi. L’emittente libanese Al Mayadeen, vicina a Hezbollah, ha parlato di sedici attacchi in poche ore, con almeno un morto e diversi feriti. La popolazione dell’Alta Galilea e delle alture del Golan è stata avvertita della possibilità di udire esplosioni, ma le autorità locali non hanno modificato le istruzioni per i civili. L’Idf ha inoltre annunciato di aver ucciso ieri, in un attacco mirato nell’area di Froun, un membro di Hezbollah ritenuto responsabile di numerose operazioni contro Israele nel corso dell’ultimo anno. L’esercito ha ribadito che continuerà ad agire “per rimuovere ogni minaccia” dal fronte libanese. Parallelamente, il comandante di Unifil, Diodato Abagnara, ha richiamato la centralità del rispetto dell’integrità territoriale libanese in occasione dell’anniversario dell’indipendenza del Paese, invitando a concentrare gli sforzi sul pieno ridispiegamento delle forze armate di Beirut nel sud. CAPO IDF, COLONI MINANO STABILITÀ Sul fronte interno israeliano, il capo di stato maggiore Eyal Zamirm ha messo in guardia contro l’escalation di violenze dei coloni estremisti in Cisgiordania. Secondo Channel 12, Zamir haavvertito che questi episodi rischiano di distogliere risorse essenziali dai fronti di Ga2a, Libano e Siria, “minando la stabilità in un momento critico”.
Intervista a Stefano Rapone: “Dobbiamo strappare una risata per Gaza: l`attenzione resti alta”
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di Giampiero Calapà
Intervista a Stefano Rapone: “Dobbiamo strappare una risata per Gaza: l`attenzione resti alta”
“Siamo stati colpiti in faccia con una trave dal dramma di Gaza”. Stefano Rapone è uno dei campioni della nuova generazione di comici, difficile trattenere la risata soltanto sentendo la sua voce. Eppure parlando del dramma palestinese c’è proprio poco da ridere, ma Rapone e altri 60 comici, da Sabina Guzzanti a Filosofia coatta, da Edoardo Ferrario al Collettivo c’è figa, oggi si alterneranno sul palco del Brancaleone di Roma per Stand up for your rights, una maratona di dodici ore, dalle 12 a mezzanotte, a sostegno di Gaza– con una raccolta fondi per Medici senza frontiere – organizzata da Pietro Sparacino, Monir Ghassem, Leo Masti e Chiara Pichierri “con l’obiettivo di unire la scena della comicità italiana intorno a un gesto concreto di solidarietà, per una causa urgente e necessaria”. Non riesco a credere di dover fare una intervista seria con lei, ma Gaza ce lo impone… Difficile riuscire a scherzare su queste tematiche. Ma l’iniziativa era necessaria, se ne parlava da un po’ tra noi comici. Perché in tutto il mondo hanno già fatto cose simili, perfino in Giappone. È doveroso perché se abbiamo un minimo di influenza sulle persone è giusto utilizzarla per il popolo palestinese. E comunque nei mesi scorsi, proprio sulla tragedia di Gaza, abbiamo assistito al risvegliarsi di artisti e intellettuali dopo anni di apatia, o no? È difficile ignorare quanto succede in Medio Oriente, ci ha colpiti in faccia con una trave, se si ha una coscienza non si può far finta di niente. E sembra sempre di non fare abbastanza. Eppure è giusto prodigarsi per influenzare le persone sul tema, per far venire dei dubbi a chi magari ha certezze. È una chiamata alla responsabilità. Sembra incredibile, ma stiamo facendo davvero una intervista seria… che poi la sua comicità è fatta di discorsi apparentemente seri… Mi rendo conto di dover avere a che fare con l’aspettativa. Penso sempre che l’altra persona si aspetti che io faccia ridere, ma posso dire che mi piace deludere le aspettative? Questo fa ridere, ad l e esempio. Mi fa piacere. Poi sono più abituato a intervistare che a essere intervistato. Quello che fa con Daniele Tinti nel seguitissimo podcast Tintoria, insomma. Sì, è più facile rispondere alle mie domande che alle tue. à Torniamo seri. Allora appuntamento oggi, lei si esibirà intorno alle tre del pomeriggio, non le chiedo di anticiparci nulla, ma perché accorrere al Brancaleone oltre che per ridere? Perché è importante adesso, perché giornalismo e mente umana si abituano a tutto. E la situazione nella Striscia non è risolta per i palestinesi, per cui non si vede una via d’uscita e che di base nessuno si fila. Se si spegne l’attenzione per loro è finita. Ed è proprio su questo che i potenti del mondo contano per il lungo periodo, in modo che tutto possa essere come è sempre stato da tanto tempo ormai, palestinesi sottomessi a Israele e all’Occidente, almeno quelli che riescono a sopravvivere. Dobbiamo dire no, ognuno lo fa a modo suo e come può. Noi comici cercando di strappare una risata per qualche ora. Le sue costruzioni comiche sono discorsi surreali, dicevamo. Sono davvero curioso di capire come può affrontare il tema di oggi al Brancaleone, ci anticipa qualcosa? No, deve restare la curiosità di scoprirlo oggi. Qualcosa sul tema ce l’ho… posso dire che partirò in modo più leggero per poi inanellare un crescendo comico. E mi rendo conto che far ridere su Gaza sia davvero un’impresa impossibile. Ma necessaria oggi. Perché è quello che noi comici sappiamo fare ed è quello che a Gaza possiamo dare.
24 morti a Gaza. Hamas: “Così finisce la tregua”
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di Riccardo Antoniucci
24 morti a Gaza. Hamas: “Così finisce la tregua”
I raid aumentano e i numeri salgono. La tregua a Ga2a continua a vacillare, ma l’equilibrio in Medio oriente continua a reggere, benedetto dagli Stati Uniti. Ieri la Difesa civile di Ga2a ha riferito che almeno 24 persone sono morte in diversi bombardamenti isrealiani sulla Striscia. “Hamas ha violato nuovamente il cessate il fuoco, inviando un terrorista nel territorio israeliano per attaccare i soldati dell’Idf ” nel sud, ha spiegato ieri l’ufficio del premier Benjamin Netnayahu. In risposta, l’esercito ha eliminato “cinque importanti terroristi” dell ’organizzazione, ha riferito il governo. Washington, hanno precisato fonti Usa al canale israeliano Channel 12, era al corrente e ha approvato gli attacchi, perché non si dica che è Israele a violare i patti di cessate il fuoco. Semmai è Hamas, è la linea del governo di Gerusalemme, che ieri ha invitato “nuovamente i mediatori a insistere affinché Hamas rispetti la sua parte del cessate il fuoco e del piano in 20 punti del presidente Trump: Hamas deve restituire immediatamente i tre ostaggi deceduti ancora in suo possesso, completare il disarmo e consentire la totale smilitarizzazione di Ga2a”, ha fatto scrivere l’ufficio del premier israeliano. Ieri l’Idf ha annunciato anche un risultato significativo a Rafah: ha “catturato o ucciso” 17 miliziani di Hamas del gruppo ancora asserragliato nei tunnel di Rafah (una cinquantina, si stima, isolati dal resto dell’organizzazione). Il a inizio mese FOTO LAPRES comunicato è stato accompagnato da una foto di un palestinese ammanettato e bendato, in mutande, tra le macerie: dei 17, 11 sono stati uccisi, sei sono agli arresti nelle mani dello Shin Bet. Hamas sembra aver risposto con le minacce: secondo l’emittente saudita Al Hadat , avrebbe comunicato all’inviato statunitense Steve Witkoff e a Jared Kushner, genero del presidente Trump, che “l’accordo è terminato e siamo pronti a combattere”. Perché “Ga2a non sarà il Libano”. Il riferimento non è casuale. Sul fronte nord da settimane l’esercito israeliano porta avanti raid aperti contro obiettivi di Hezbollah, denunciando che l’organizzazione sciita si starebbe riarmando e riorganizzando di fronte all’inerzia del governo di Beirut, che ha firmato un patto per garantire la demilitarizzazione della zona sud del Paese dei cedri. Solo ieri, l’Idf ha condotto oggi 16 raid, in diverse località, secondo l’emittente legata a Hezbollah Al Mayadeen. L’ultimo raid ha preso di mira un’auto; l’Idf ha dichiarato di aver ucciso due miliziani di Hezbollah.
La tregua non ferma i raid di Israele sulla Striscia di Gaza
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di R. Es.
La tregua non ferma i raid di Israele sulla Striscia di Gaza
La tregua non ferma i raid di Israele sulla Striscia di Ga2a Medio Oriente. Oltre venti morti e decine di feriti in diversi attacchi aerei. Gli Stati Uniti avrebbero dato sostegno alle operazioni. Bombardate anche postazioni di Hezbollah nel Libano meridionale Gli attacchi aerei israeliani a Ga2a avrebbero ucciso più di venti persone, ieri, secondo quanto riferito dalle autorità sanitarie locali. Oltre 50 persone sono rimaste ferite. Un primo attacco ha distrutto un’auto nel quartiere densamente popolato di Rimal di Ga2a City. Poco dopo, due raid aerei hanno colpito due abitazioni nella città di Deir AlBalah e nel campo di Nuseirat. L’esercito israeliano (Idf) ha affermato di aver lanciato gli attacchi contro membri di Hamas, dopo che un presunto «terrorista armato» è entrato in un’area controllata da Israele e ha sparato contro le truppe, nel sud di Ga2a. Nessun soldato è rimasto ferito. L’Idf ha affermato che l’attentatore aveva utilizzato una strada attraverso la quale gli aiuti umanitari entrano nel territorio e hanno definito l’azione una «violazione estrema» del cessate il fuoco. Anche ieri, insomma, Israele e Hamas si sono accusati a vicenda di violare la tregua, conclusa più di sei settimane fa, e che non ferma lo stillicidio di vittime. Secondo le autorità sanitarie palestinesi, controllate da Hamas, le forze israeliane hanno ucciso 316 persone (ma non viene fatta alcuna distinzione tra civili e miliziani) in attacchi a Ga2a dal 10 ottobre, quando è stato proclamato il cessate il fuoco. Hamas ha chiamato in causa i mediatori e gli Stati Uniti, affermando che spetta a loro affrontare le «crescenti violazioni» da parte di Israele e preservare l’intesa. L’Amministrazione statunitense avrebbe tuttavia dato il suo sostegno ai raid, secondo quanto riferito dal sito di informazione Axios, che cita un funzionario Usa, il quale a sua volta conferma la versione offerta dall’Idf. «Israele ha una politica, concordata con i mediatori, per cui le violazioni del cessate il fuoco sono affrontate con una risposta immediata», avrebbe spiegato il funzionario. Israele, a sua volta, sostiene che tre suoi soldati sono stati uccisi dall’inizio dell tregua e assicura di continuare a colpire solo miliziani. Secondo i termini dell’accordo, Hamas ha rilasciato tutti i 20 ostaggi vivi che ancora teneva in prigionia a Ga2a, in cambio di quasi 2mila detenuti palestinesi. Hamas ha inoltre consegnato i resti di 25 ostaggi deceduti durante la prigionia. Ne mancano ancora tre. L’Idf, ieri, ha anche confermato di aver effettuato attacchi aerei contro obiettivi di Hezbollah nel Libano meridionale e nella valle della Beqaa. Secondo l’esercito – che ha anche reso nota l’uccisione venerdì di un esponente di Hezbolah – gli ultimi raid nel Libano meridionale hanno colpito diversi lanciarazzi. Nella valle della Beqaa, ha proseguito l’Idf, l’aeronautica militare israeliana ha bombardato due postazioni dove sostiene di aver individuato attività di terroristi e depositi di armi.
Raid di Israele a Gaza, via libera dagli Usa
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di Anna Lombardi
Raid di Israele a Gaza, via libera dagli Usa
Attacchi aerei israeliani hanno ucciso ieri almeno 24 palestinesi — compresi numerosi bambini — in tre diverse aree della cosiddetta “zona rossa”, il territorio della Striscia attualmente controllato da Hamas in base agli accordi per il cessate il fuoco entrati in vigore il 10 ottobre. Una risposta, dicono, concordata con gli Stati Uniti e che avrebbe portato all’uccisione di cinque comandanti di Hamas. La ragione del raid, spiegano i funzionari israeliani, è stato un attacco contro i loro militari. Un miliziano sarebbe penetrato sparando nella zoA na verde da loro controllata, un’area appena riaperta agli aiuti umanitari. Come siano andate davvero le cose è difficile dirlo: ieri le due parti si sono accusate a vicenda di aver violato il cessate il fuoco. Quanto basta a far temere per la già fragile tregua mediata dagli emissari del presidente Donald Trump. «Hamas ha violato di nuovo gli accordi, inviando un terrorista ad attaccarci. In risposta, abbiamo eliminato cinque loro leader», ha scritto ieri il premier israeliano Benjamin Netanyahu su X. «Già decine di terroristi – ha aggiunto – hanno oltrepassato le linee per attaccare le nostre truppe». Poi l’affondo: «Israele rispetta pienamente il cessate il fuoco, Hamas no». I miliziani l’hanno raccontata in altro modo: «Il governo tenta di imporre realtà diverse da quanto concordato». Parlando anche di «violazioni sistematiche dell’accordo». Ma da parte israeliana. «In questo mese di presunta pace hanno ucciso centinaia di persone» — il numero ufficiale è 280 — e «modificato la traiettoria del ritiro violando le mappe concordate». Avrebbero, cioè, spostato la linea gialla che segna l’attuale divisione ufficiale, in certi tratti, dicono gli uomini di Hamas, «anche di 300 metri». Tutto questo accade alla vigilia di un nuovo round di negoziati: con una delegazione di alto livello di Hamas attesa al Cairo nelle prossime ore, guidata da quel Khalil al-Hayya che gli israeliani tentarono di uccidere a Doha. Lo stesso che l’inviato Usa per il Medio Oriente, Steve Witkoff, ha già annunciato di voler rincontrare. Secondo l’emittente libanese Al-Mayadeen (affiliata a Hezbollah), lo scopo dei nuovi negoziati è «coordinarsi con altri paesi arabi e rafforzare la posizione nazionale palestinese contro i piani israeliani». Di sicuro sarà un incontro nervoso: Hamas ha già fatto sapere agli Usa, tramite i mediatori di Egitto e Qatar, di essere pronta a mettere fine al cessate il fuoco a Ga2a, se proseguiranno quelle che appunto definiscono «violazioni israeliane». Ma a quanto pare un esponente di Hamas avrebbe bollato come «prive di fondamento» le voci di una rottura della tregua. La richiesta ai mediatori è una: «Intervenire con urgenza e esercitare pressioni su Israele affinché ponga fine a questa situazione». E ce n’è pure per Washington: «Rispetti i propri impegni e costringa gli israeliani ad adempiere agli obblighi. Gli Stati Uniti contrastino i tentativi di minare la fase due dell’accordo». Quella, cioè, che dovrebbe portare a un ulteriore ritiro dell’esercito. Fino ai confini della Striscia.
Il docente confessi: è riservista dell`Idf? Fuori dall`ateneo!
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di Iuri Maria Prado
Il docente confessi: è riservista dell`Idf? Fuori dall`ateneo!
Si era “autodenunciato” il professore israeliano cacciato settimane fa dall’Università di Pavia. Il repulisti è stato eseguito dall’ateneo lombardo in attuazione di una mozione, adottata il mese scorso, “sulla questione palestinese”. Dal verbale dell’ultima seduta del Senato Accademico si apprende che l’“autodenuncia” (un falso, come vedremo) riguardava la seguente condizione delittuosa: il professore ebreo (pardon, israeliano), farmacologo, che teneva un corso a Pavia dal 2018, era “membro dell’Idf”. Era dunque gravato della colpa che marchia centinaia di migliaia di israeliani, eventualmente riservisti (appunto come lui). In realtà, pare che non si sia trattato neppure della “autodenuncia” di cui riferisce il Senato Accademico. Risulta, semmai, che la teppaglia studentesca pavese abbia preteso – e, evidentemente, ottenuto – accertamenti di carattere inquisitorio sul professore, e che essi abbiano portato alla scoperta di quell’ignominia: “membro dell’Idf”. Il Senato Accademico dell’Università di Pavia, peraltro, si duole del fatto che la notizia della cacciata dell’ebreo (pardon, dell’israeliano) sia trapelata “senza adeguata contestualizzazione”. Chi ne ha parlato (Lucetta Scaraffia, per esempio, in un’intervista a Repubblica, il 29 ottobre) non avrebbe tenuto nel dovuto conto le motivazioni per cui l’Università di Pavia si determina a buttar fuori i professori ebrei (israeliani, pardon): non hanno considerato, gli sparutissimi critici dell’iniziativa, che quell’ebreo (quell’israeliano, pardon) era “membro dell’Idf”, e si era persino “autodenunciato”, perbacco. Aveva avuto la sfrontatezza di ammettere di aver fatto ciò che pressoché tutti, uomini e donne, in Israele fanno obbligatoriamente: servire nelle forze di difesa del Paese. Tutti noi, se avessimo tenuto conto di questa strepitosa notizia, non avremmo potuto far altro che giudicare non solo perfettamente legittimo, ma doveroso, che l’Università di Pavia abbia fatto decontaminazione dei propri ranghi docenti allontanando quel “membro” dell’esercito dello Stato ebraico. Sempre dal verbale della seduta del Senato Accademico si apprende poi che una professoressa, in disaccordo con l’operazione speciale pavese, ha deciso di dimettersi. Bene così: era una complice del “membro”. Il verbale informa che “si procederà alla nuova nomina da parte del Senato su proposta rettorale a gennaio”. Per evitare spiacevoli infortuni, si confida che la scelta avvenga sulla scorta di criteri sufficientemente elastici da non consentire pericolose intromissioni. L’autocertificazione del candidato di non appartenere alla stirpe deicida potrebbe costituire un efficace filtro profilattico (sempre possibile, ovviamente, la successiva verifica da parte del capo caseggiato). Ci si domanda solo se, ove mai si ripresentasse l’occasione, rispetto alla comunque lodevole cacciata non possa essere di più utile valore esemplare un qualche rimedio diverso. Che so? Prendere l’intruso e renderlo identificabile. Magari un segno, qualcosa di giallo sul petto.
Eurovision, nuove regole dopo il caso Israele: “Stop promozioni”
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di Redazione
Eurovision, nuove regole dopo il caso Israele: “Stop promozioni”
Nuove regole per rafforzare «la fiducia, la trasparenza e il coinvolgimento del pubblico». Dopo le polemiche sui voti raccolti da Israele nella kermesse del 2025, l’Unione Europea di Radiodiffusione (EBU) è corsa ai ripari, svelando alcuni aggiornamenti sul sistema per l’Eurovision Song Contest 2026, in programma a Vienna dal 12 al 16 maggio. «Vogliamo che il concorso rimanga una celebrazione della musica e dell’unità. Deve rimanere uno spazio neutrale e non essere strumentalizzato», ha detto il direttore della manifestazione Martin Green. Una novità anche per la promozione dei brani: «Si scoraggiano campagne promozionali sproporzionate, in particolare quando intraprese o supportate da terze parti, inclusi governi e agenzie governative».
La tregua come anestetico. Riscritta la mappa di Gaza
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di Giulio Cavalli
La tregua come anestetico. Riscritta la mappa di Gaza
Basta, davvero. A Gaia la parola ”tregua” continua a funzionar« come un anestetico. L’Unicef conta almeno 67 bambini uccisi dall’inizio cessate ¡¡fuoco, quasi due al giorno, Media Senza Frontiere racconta un raid dei 19 novembre: sei feriti, una bambina di nove anni colpita al volto, un quindicenne, un uomo di 71 anni. Nei comunicati ufficiali tutto questo diventa “incidente” come se bastasse un sinonimo gentile per cancellare !a scena. Intanto la mappa della Striscia viene riscritta. L’area gialla controllata dall’esercito supera metà territorio. A Gaza City i militari avanzano verso Shujaiya, spingendo le famiglie più a ovest dentro quello che le fonti locali chiamano “gabbia». Un uomo sfollato è stato ucciso fuori dalla zona militare, nel punto che ¡’accordo indicava come relativamente sicuro. Anche questo, nel linguaggio diplomatico, rientra nella “tregua” In Cisgiordania due ragazzi di 18 e 16 anni sano morti dopo un’incursione a Kàfr Aqab.A Nabttis e Ramallah gruppi di cotoni hanno incendiato magazzini e terre, spesso coperti dall’esercito. La guerra non è ferma: è solo descritta come se lo fosse. Sul piano politico Israele prepara la “seconda fase” dell’accordo con uno task force che include ministri contrari alla tregua stessa. Netanyahu lega la riapertura di Rafah aita restituzione dei corpi degli ostaggi e aggiunge che sarebbe »felice» se l’Egitto permettesse agli abitanti di Gaza di andarsene. Ecco perché serve restituire senso alle parole. Se chiamiamo “tregua” giorni in cui si muore, se chiamiamo “pace” un dispositivo di controllo dei territori, allora non stiamo raccontando i fatti: li stiamo coprendo. A Gaza oggi non c’è tregua. C’è una guerra che si prende la libertà di farsi chiamare diversamente.
L`Occidente a scuola da Israele. Diciotto eserciti a lezione di guerra
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di Giulio Cavalli
L`Occidente a scuola da Israele. Diciotto eserciti a lezione di guerra
Dal 16 al 20 novembre 2025, l’Idf ha riunito in Israele 18 eserciti stranieri per illustrare le “lezioni operative” della guerra di Ga2a. La notizia è stata resa pubblica dal Times of hrae! il 16 novembre e confermata da Thè Nucionat giorni dopo: Stati Uniti, Canada, Regno Unito, Germania, Finlandia, Inaia, Grecia, Giappone. Marocco e diversi Paesi dell’Europa orientale hanno inviato ufficiali e comandanti per assistere a briefing, esercitazioni con droni, artiglieria e carri, ñ visite ai comandi militari nel sud del Paese. Le immagini diffuse da Thè National mostrano gli ufficiali stranieri affacciati da una collina di Sderot, di fronte alle rovine della Striscia. 11 quotidiano ricorda che la guerra iniziata dopo gli attacchi del 7 ottobre 2 023 ha provo cato “più di 69.400 morti palestinesi” e ha raso al suolo interi quartieri. È il punto ¡n cui diplomazia militare e devastazione coincidono; le delegazioni studiano la campagna mentre sul conflitto pendono indagini internazionali. IL PESO DELLE ACCUSE Nello stesso resoconto, The National ricorda che il premier Benjamin Netanyahu è destinatario di un mandato di arres co della Corte penale internazionale, che lo accusa di crimini di guerra e crimini contro l’umanità. È la prima volta che un capo di governo israeliano in carica è ricercato dall’icc mentre governa. La posizione tocca direttamente molti dei Paesi presenti al seminario. che hanno ratificato lo Statuto di Roma e sono quindi obbligaci alla cooperazione con la Corte. Il calendario aggiunge un ul teriore elemento: proprio il 18 novembre. nel pieno delle attività del seminario, la Germania revoca la sospensione parziale delle forniture militari a Israele, adottata ad agosto. Berlino torna a valutare le licenze “caso per caso”, mentre un suo ufficiale è tra i presenci alle cscrci caz ioni dcll’Idf. Un allineamento che mostra come la cooperazione militare e commerciale prosegua anche nei momenti di massima pressione internazionale. [1 19 novembre, il jeriisalem Post segue dall’interno una delle sessioni, rivelando un clima meno compatto di quanto appaia nelle foto ufficiali. Alcuni ufficiali stranieri giudicano “molto difficile da accettare” l’entità delle vittime civili palestinesi; altri contestano l’idea che Israele debba poter tollerare livelli cosi alti di danno collaterale nella guerra urbana. Opinioni espresse lontano dai microfoni. ma che mostrano ¡I disagio reale dietro la parted pazione lormale. Anche il Telegraph segnala una “presenza ridotta e prudente” del Regno Unito, per evitare che la partecipazione al seminano sia interpretata come un sostegno politico incondizionato a Israele. Nessuna smentita ufficiale, ma la cautela britannica evidenzia quanto il tema sia diventato delicato per gli alleati occidentali. Sul piano giuridico, la questione è ancora più sensibile. Gli Articles on State Responsibility della Commissione di dit itiu internazionale stabiliscono che uno Stato può essere corresponsabile se fornisce “aiutu o assistenza” a un altro Stato nella cnmmissionc di un illecito internazionale, sapendo del rischio concreto che quella coopcrazione possa facilitarlo. Negli ulomi mesi. diversi esperti Onu hanno richiamato questo principio analizzando la vendita di armi e le forme di addestramento militare fornite a Israele, li seminario dell’Idi non costituisce di per se un atto illecito. Ma costruisce una relazione stabile tra eserciti occidentali e un’operazione militare sotto indagine per violazioni gravi del diritto umanitario. Le (Jeiegaziulli osservano da vicino la campagna più contestata degli ultimi decenni, apprendono procedure, tattiche, sistemi d’arma, mentre la giustizia internazionale indaga bombardamenti sproporzionati, ostacoli agli aiuti e attacchi in aree densamente popolate. La scena di Sderot, con gii ufficiali stranieri che osservano dall’alto dò che resta della Striscia, sintetizza il paradosso: una guerra al centro di accuse pesantissime trasformata in un caso dì studio per gli alleati. Una vera e propria scuola di genocidio. Ed è qui die la scena di Sderot assume un valore politico che va oltre il simbolo: eserciti europei e asiatici studiano una campagna militare che la giustizia internazionale sia esaminando per presunte violazioni gravi del diritto umanitario. La distanza tra la retorica dei diritti umani e la pratica della cooperazione militare si consuma ¡n quel punto, alla luce del sole, come se le due dimensioni potessero procedere parallele senza mai toccarsi. In realtà, si stanno già toccando· nella diplomazia, nei tribunali, nelle cancellerie che con una mano chiedono alle Nazioni Unite un’indagine indipendente e con l’attrai stringono accordi militari che rendono quella stessa indagine più fragile e politicamente costosa.
Palestina, il Consiglio di Sicurezza Onu legittima un`occupazione illegale
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di Micaela Frulli e Triestino Mariniello
Palestina, il Consiglio di Sicurezza Onu legittima un`occupazione illegale
La risoluzione 2803 del Consiglio di Sicurezza del 17 novembre 2025, letta dal punto di vista del diritto internazionale, rivela criticità profonde e contraddizioni che ne compromettono validità e legittimità. Il limite più grande consiste nell’implicita violazione del diritto di autodeterminazione del popolo palestinese. La risoluzione subordina qualsiasi «percorso credibile verso l’autodeterminazione e la statualità palestinese» al completamento di un programma di riforme dell’Autorità nazionale palestinese, ente che amministra la Cisgiordania, che nella risoluzione peraltro non è mai menzionata. Questa condizionalità trasforma un diritto inalienabile, riconosciuto dalla Carta dell’Onu, ribadito a più riprese dalla Corte Internazionale di Giustizia (CIG) e che ha valore di norma di carattere cogente, in una meta da raggiungere in un futuro indefinito: si sospende a tempo indeterminato la possibilità di costruire uno Stato palestinese. TUTTAVIA, il Consiglio di Sicurezza non può esercitare i propri poteri al di fuori del perimetro fissato dal diritto internazionale. La Commissione di diritto internazionale dell’Onu ha chiarito che le decisioni delle organizzazioni internazionali non possono generare obblighi giuridici quando entrano in conflitto con norme cogenti del diritto internazionale generale e che atti normalmente vincolanti rischiano l’invalidità se violano principi fondamentali e inderogabili. Di dubbia legalità è poi l’istituzione di un’amministrazione fiduciaria internazionale su Ga2a, che ripropone modelli ereditati dall’era coloniale, quali i Mandati della Società delle Nazioni dopo la Prima guerra mondiale, concepiti per governare territori privati della propria autodeterminazione. Tale amministrazione affidata al “Board of Peace” (BoP), un organo ibrido, dotato di poteri estesi e poco definiti si sovrappone all’occupazione esistente senza disputarne l’illegalità, con il rischio di consolidarla nel tempo. Inoltre, il BoP, presieduto dal presidente Usa Donald Trump, crea una frizione evidente con i criteri di imparzialità richiesti per l’amministrazione internazionale di un territorio. LE AMMINISTRAZIONI internazionali di Unmik in Kosovo o Untaet a Timor Est erano sotto l’autorità dell’Onu e prevedevano meccanismi di garanzia e di accountability. L’autorizzazione a creare una International Stabilization Force (ISF) e a «usare tutte le misure necessarie» per adempiere al suo mandato richiama la formula standard per l’uso della forza contenute in precedenti autorizzazioni date agli Stati, ma con una differenza cruciale: questa volta la ISF agisce sotto l’autorità del “Board of Peace” e si prevede solo una generica richiesta agli Stati che ne fanno parte di riferire periodicamente al Consiglio di sicurezza. Inoltre si prevede una demilitarizzazione della Striscia a carattere unilaterale e si stabilisce che il ritiro delle truppe israeliane sia concordato con l’esercito israeliano potendo questo mantenere una sua presenza a tempo indefinito.. OLTRE A TUTTO, la risoluzione non affronta uno dei nodi più critici: l’accertamento delle responsabilità per le violazioni del diritto internazionale commesse negli ultimi due anni. Non vi è alcun riferimento ai rapporti della Commissione d’inchiesta delle Nazioni unite, in cui si constata la commissione di crimini internazionali e atti di genocidio da parte di Israele e dei suoi leader, né al parere della CIG del 2024 che ha sancito l’illegalità dell’occupazione e alle successive risoluzioni dell’AG, né si menzionano le indagini della Corte penale internazionale. Sconcertante, inoltre, la mancanza di qualsiasi previsione di rimedi e risarcimenti per le vittime, mentre chi ha distrutto la Striscia di Ga2a esce esente da obblighi di riparazione. LA RISOLUZIONE su Ga2a arriva a pochi giorni di distanza da un’altra decisione controversa del Consiglio di Sicurezza (ris. 2797 del 2025), quella sul Sahara occidentale. In quel caso il testo, pres entato sempre dagli Stati Uniti, ha avallato il piano di autonomia proposto dal Marocco nel 2007, riconoscendo di fatto la sovranità marocchina sul Sahara occidentale in violazione del diritto di autodeterminazione del popolo Sahrawi. Alla luce di questi sviluppi, emerge con sempre maggiore chiarezza l’immagine di un Consiglio di Sicurezza che tende ad adottare risoluzioni sulla base del condizionamento di alcuni dei membri Permanenti sganciandosi dalla legalità e dalla Carta stessa. Il diritto internazionale finisce così per essere trattato non come uno strumento essenziale per costruire una pace giusta, fondata sul diritto all’autodeterminazione dei popoli e sul rispetto dei principi fondamentali, ma come un ostacolo da aggirare.
Processo Yaeesh, così un check point militare diventa «civile»
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di Riccardo Rosa
Processo Yaeesh, così un check point militare diventa «civile»
Aula ancora una volta piena di solidali e attivisti, alla Corte d’Assise di L’Aquila, per una nuova udienza del processo contro i tre palestinesi Anan Yaeesh, Ali Irar e Mansour Doghmosh, residenti in Italia e qui accusati di associazione a delinquere con finalità di terrorismo, in riferimento ad azioni avvenute in un altro paese, la Cisgiordania occupata da Israele. IN AGENDA c’era l’ascolto dell’ambasciatore israeliano in Italia, ma senza che alcun cambiamento fosse comunicato alla difesa, dietro lo schermo di un computer, in collegamento da Parigi, ci si è ritrovati una funzionaria dell’ambasciata francese, Zaharira Bar Yehuda Etzion. La sua testimonianza è stata raccolta dopo le dichiarazioni spontanee di Yaeesh, che ha evidenziato il peso dato da una procura italiana a elementi e testimoni provenienti da un altro paese, lo stesso contro la cui occupazione Yaeesh è attivo nella sua militanza politica. SNODO centrale del processo è la natura dell’insediamento di Avnei Hefetz, oggetto di azioni per la cui ideazione o realizzazione sono accusati a diverso titolo gli imputati: in particolare è in discussione la sua qualificazione come insediamento colonico civile, piuttosto che base militare. LA QUESTIONE ha un peso specifico importante, dal momento che il diritto internazionale riconosce legittime le azioni, anche armate, contro avamposti militari di una potenza occupante; una certa difficoltà emerge tra l’altro anche nel poter considerare tout court un insediamento colonico come «civile»: si tratta infatti di luoghi scrupolosamente protetti da check point militari, dai quali spesso partono spedizioni armate a danno dei palestinesi – quelli sì, civili – della zona. LA TESTE è apparsa vaga nell’esposizione delle proprie tesi, mostrando poche certezze sulla natura di Avnei Hefetz. In particolare – aiutandosi con internet, dal quale ricercava di continuo nuove informazioni, e citando una fonte evidentemente di parte come l’ufficio statistico del governo – l’ufficiale israeliana ha avuto difficoltà a collocare Avnei Hefetz nel contesto geografico locale, e in quello storico relativo alla sua nascita; non ha saputo inoltre render conto della presenza di check point militari a ridosso dell’insediamento, non ha fornito elementi rispetto alle aree speciali di sicurezza, né al sistema difensivo, e non è stata in grado di smentire la possibilità che vi agiscono coloni copiosamente armati. Non è riuscita, in sostanza, a smentire la possibilità che l’Avnei Hefetz di cui si parla nelle intercettazioni sia una base militare. «L’ATTEGGIAMENTO della teste, richiamata più volte anche dello stesso presidente della Corte – ha dichiarato Flavio Rossi Albertini, che con Ludovica Formoso compone il collegio difensivo – ha evidenziato tutta l’arroganza che lo stato di Israele sta assumendo nei confronti dell’autorità giudiziaria italiana». PRIMA della convocazione della prossima udienza per il prossimo venerdì, la pm D’Avolio ha chiesto che venissero messe agli atti immagini satellitari scaricate da Google Maps, che evidenzierebbero l’assenza di avamposti militari nell’area. Anche in questo caso, sembrerebbe bastare una semplice analisi comparativa, fatta con software open-source (uno dei più noti è MapCarta), per mostrare scenari diversi. CIÒ CHE VA segnalato, tuttavia, è che la svolta tanto auspicata dall’accusa per demilitarizzare la natura di Havnei Hefetz non è avvenuta, qualificando sempre più questo dibattimento come un processo alla resistenza palestinese, legittima secondo l’ordinamento internazionale, ma non abbastanza per la procura di L’Aquila. Si attende ora la sentenza, prevista per il 19 dicembre.
La striscia di sangue si allunga. Altri studenti universitari palestinesi in Italia
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di Ernesto Ferrante
La striscia di sangue si allunga. Altri studenti universitari palestinesi in Italia
Due adolescenti palestinesi sono stati uccisi dalle forze israeliane a Kafr Aqab, a Gerusalemme Est. Sei miliziani di Hamas sono stati colpiti a morte dalle Idf dopo essere usciti dai tunnel a est di Rafah, nel sud della Striscia di Ga2a. Altri cinque sono stati catturati e portati in Israele per essere interrogati dallo Shin Bet. Si stima che decine di uomini della fazione siano ancora nascosti nei passaggi sotterranei della zona. Gli Stati Uniti avevano fatto pressione sullo Stato ebraico affinché consentisse loro di tornare in sicurezza nelle zone dell’enclave controllate dal movimento islamico di resistenza. L’esercito israeliano ha rivelato che durante le operazioni a Ga2a sono stati scoperti diversi documenti che rivelerebbero un collegamento diretto tra Hamas e il deposto regime di Bashar al-Assad. A provarlo sarebbe la corrispondenza tra Yahya Sinwar e Ismail Haniyeh, l’ex leader di Hezbollah Hassan Nasrallah e Mohammad Saeed Izadi, comandante del Corpo palestinese all’interno della Forza Quds del Corpo delle guardie rivoluzionarie islamiche. “La Siria è indispensabile per noi come base di rifugio e come spazio di costruzione e dispiegamento”, avrebbe scritto Sinwar in una di queste lettere, evidenziando l’importanza della permanenza al potere del regime di Assad. Rivelati anche i verbali di un incontro tra funzionari di Izadi, Hamas e Hezbollah, in cui vengono spiegate dettagliatamente le modalità con cui intendono riallacciare le relazioni tra i gruppi e la leadership di Damasco, riducendo al minimo le reazioni negative dell’opinione pubblica sulla futura cooperazione. Sarebbe stato inoltre organizzato un incontro tra l’ex presidente siriano e diverse fazioni palestinesi. Haniyeh avrebbe chiesto alla Siria di rilasciare i prigionieri palestinesi detenuti, sostenendo che tale decisione avrebbe “contribuito a sollevare il clamore pubblico” riguardo alla ripresa delle relazioni. Medici Senza Frontiere ha denunciato l’ennesimo spargimento di sangue nella Striscia. Le squadre di Msf, si legge in un comunicato, continuano a prestare soccorso ai feriti, tra cui donne e bambini con fratture esposte e ferite da arma da fuoco agli arti e alla testa, a seguito degli attacchi israeliani dello scorso 19 novembre. L’Unicef ha parlato di una media di quasi due bambini uccisi ogni giorno da quando è entrato in vigore il cessate il fuoco. Giovedì si è tenuta la prima riunione del “Gruppo donatori per la Palestina”, organizzata dalla Commissione Europea all’indomani dell’adozione della Risoluzione 2803 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, che sostiene il Piano di Pace del Presidente Trump e rilancia la prospettiva di uno Stato palestinese. A renderlo noto è stata la Farnesina. Tra i temi affrontati, oltre alla situazione nella Striscia di Ga2a: la sostenibilità di bilancio dell’Autorità Palestinese, i progressi nell’agenda di riforme e la ripresa economica della Cisgiordania. Per l’Italia ha partecipato il sottosegretario agli Affari Esteri e alla Cooperazione Internazionale, Maria Tripodi, su delega del ministro Antonio Tajani. Nel suo intervento, Tripodi ha rimarcato il ruolo di primo piano svolto dal governo a sostegno all’Autorità Palestinese nei suoi sforzi di riforma, “in vista dell’assunzione di piene responsabilità di governo all’interno di confini riconosciuti, coerentemente con la soluzione a due Stati”. Con riferimento a Ga2a, Tripodi ha riaffermato l’intenzione italiana di contribuire pienamente all’assistenza umanitaria nella Striscia e al suo processo di ricostruzione, ricordando l’annuncio dello stanziamento di 60 milioni di euro fatto da Tajani. Nell’ambito dei “corridoi universitari”, dalla Striscia di Ga2a è arrivato ieri in Italia un nuovo gruppo di 26 studenti palestinesi che beneficiano di borse di studio in atenei del nostro Paese, grazie al progetto Iupals – Italian Universities for Palestinian Students. Sono molte le Università che li accoglieranno: gli Atenei di Bari, Bre scia, Cagliari, Macerata, Molise, Napoli “Federico II” e Parthenope, Parma, Roma Tre, Venezia – Iuav. In totale, sono 41 gli aderenti, tramite la Conferenza dei Rettori – Crui, al progetto Iupals. Ad oggi sono circa 1.350 i palestinesi ospitati.
Usa-Arabia, l`intesa è più forte
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di Tommaso A. De Filippo
Usa-Arabia, l`intesa è più forte
Le relazioni bilaterali tra Stati Uniti ed Arabia Saudita son salite di livello fino a veder costituita un’alleanza strutturale e stabile, destinata ad incidere decisivamente sui futuri equilibri del Medio Oriente. La visita del prinn cipe ereditario saudita Mohammad bin Salman Al Sa’ud alpo la Casa Bianca ha evidenziato, grazie al tono dell’accoglienc za ricevuta da Doso nald Trump ancor i prima che per il conpr tenuto delle discussioni tra le due figure, quanto Washington abbia messo al centro della propria strategia diplomatica nella regione i legami con l’Arabia. La decisione del presidente Usa di manifestare pubblicamente ammirazione ed elogiare il principe ha più motivazioni: in primis, intende segnalare proprio a Bin Salman la possibilità di ottenere un trattamento anche scenograficamente esclusivo, dato che quasi nessun attore politico o capo di governo è stato accolto alla Casa Bianca con caccia da guerra F-35 che sorvolano il cielo, cavalli di razza in sfilata ed un cerimoniale con protocollo quasi L da famiglia reale. In secondo luogo, ed è forse l’aspetto decisivo, l’accoglienza vuol mostrare anche al resto degli attori mediorientali che gli Usa ritengono i sauditi ormai alleati saldi, tali da dover ricoprire un ruolo determinante nella politica mediorientale. Su questo crinale sono molteplici gli aspetti da analizzare, considerando l’influenza nella regione esercitata da paesi come Israele, Turchia ed Iran. Per ognuno di essi, l’avvicinamento strategico tra sauditi ed americani produce ripercussioni securitarie di cui tener conto. Lo Stato ebraico era e resta il più importante alleato degli Usa, a cui è dato diritto di possedere capacità militari superiori, in ogni settore decisivo del comparto della difesa, rispetto agli altri attori mediorientali. Si tratta di un aspetto definito dalla clausola del cosiddetto Vantaggio Militare Qualitativo: Israele deve essere meglio attrezzato quanto a capacità nel campo della sicurezza rispetto a nemici e pure partners, per poter garantire adeguatamente la sua difesa. La decisione americana di vendere all’Arabia Saudita armi sofistie cate come 300 carri armati Abrams, strumenti bellici di vario to genere adatti ai combattimenti convenzionali di ultima gee nerazione ed i caccia za da guerra F-35, a cui n si aggiunge un meale morandum sull’intelligenza artificiale, rappresenta un fattore che Israele non può sottovalutare. Soprattutto, è la designazione con dell’Arabia Saudid ta tra i maggiori ale leati degli Usa pe esterni alla Nato, isla che segue quella avvenuta recentemente verso il Qatar, a determinare una sfida strategica per Israele, in una fase storica in cui gli equilibri di potere in Medio Oriente sono in via di ridefinizione. Anche per la Turchia il cambio di passo nelle relazioni tra sauditi ed americani ha un impatto considerevole sulla politica estera: il presidente Recep Tayyip Erdogan sta scommettendo sull’inferiorità militare dei paesi arabi rispetto al suo esercito, oltre che sull’appartenenza di Ankara (capitale della Turchia) alla Nato ed il buon legame instaurato con la Casa Bianca, per ritagliarsi un ruolo di primo piano diplomatico in Medio Oriente. Se con il Qatar i rapporti sono eccellenti (quest’ultimo ne finanzia pure le campagne militari), per la Turchia l’Arabia Saudita è invece un rivale strategico con cui contendersi la leadership del mondo musulmano. I sauditi in rapporti idilliaci con gli Usa rappresentano un ostacolo per le ambizioni espansioniste turche. Per l’Iran, invece, quanto accaduto rappresenta una catastrofe che si somma alla già drammatica condizione del regime teocratico: oltre a subire le conseguenze economiche e securitarie derivanti dalle sanzioni e dai danni provocati al suo vertice politico e militare da Israele, nel corso delone la guerra di giugno, assiste all’instaurazione di un’alleanza a solida tra gli Usa ed nta il suo nemico peggio re all’interno della galassia islamica. Uno scenario che aumenta l’isolamento degli ayatollah e le probabilità che per essi mantenere il potere in patria ancora a lungo diventi ogni giorni sfida più ardua.
Il piccolo nazi
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di Marco Bardazzi
Il piccolo nazi
Si ride e si scherza molto nel mondo di Nick Fuentes, quasi sempre su cose serissime. Si ironizza, si fanno battute con un tono leggero adatto ai social e al mondo del gaming, il brodo culturale nel quale sono cresciuti Nick, il suo milione di followers su X, il mezzo milione che lo segue sulla piattaforma Rumble e le centinaia di migliaia di persone che lo ascoltano in podcast o lo guardano su YouTube. E’ un modo per poter sempre dire, di fronte alle polemiche, che in fondo si tratta di scherzi, di una modalità da Generazione Z di affrontare temi che, secondo Nick e i suoi amici, vanno ripensati, raccontati in modo nuovo, sdrammatizzati. E allora capita di vedere i video in cui Nick si diverte a raccontare “come ci sono rimasti di sasso i miei genitori quando ho detto loro che secondo me Hitler era uno figo!” (e giù risate a crepapelle). E poi allegria e sarcasmo nel distorcere completamente la realtà della Shoah, buttando lì – sghignazzando – qualche teoria cospirativa, fino a prendersela apertamente con gli ebrei e con Israele. Sono lontani i tempi in cui il razzismo americano aveva il volto di personaggi come il pastore neonazi Richard Butler, il fondatore della Nazione Ariana, o l’aspetto in apparenza rispettabile di William Joseph Simmons, il rifondatore del Ku Klux Klan. Non vanno più di moda neppure i suprematisti ariani alla David Duke, i neofascisti Proud Boys, né tantomeno l’America First dal volto presentabile di Pat Buchanan. Nell’èra digitale in cui è nata e si è evoluta la nuova destra americana trumpiana, poi diventata mainstream, le frange estreme e (finora) marginali rispetto al movimento Maga hanno un aspetto diverso. E’ un mondo che si esprime attraverso i meme di Internet, vive immerso nella bolla dei social, è popolato da gente cresciuta trascorrendo ore e ore nell’ecosistema del gaming. Lo stesso in cui si muove a proprio agio anche un personaggio come Elon Musk, che non a caso ha riammesso su X Fuentes dopo che era stato bandito ai tempi di Twitter. E’ il terreno d’azione di una generazione che ha sviluppato l’abitudine di scherzare con il fuoco con toni che un tempo si sarebbero definiti goliardici, mascherando sotto l’apparente leggerezza un tratto comune e preoccupante: un razzismo e un antisemitismo che grazie al web stanno raggiungendo livelli di condivisione mai visti prima negli Stati Uniti. Il simbolo e il testimonial di questo sottobosco che sta crescendo e diventando foresta è lui, Nick Fuentes, ventisette anni, faccia da bravo ragazzo in giacca e cravatta, cattolico cresciuto nei sobborghi bianchi di Chicago, in zone lontane e in anni ben diversi da quelli che hanno formato nella stessa metropoli personaggi come Barack Obama o cattolici figli di immigrati come Robert Prevost, papa Leone XIV. La sua America First Foundation, i video e le manifestazioni dove si presenta imbracciando un crocifisso e promuovendo il suo “movimento cristiano” erano stati considerati fino a oggi fuori dal perimetro del discorso politico americano, sia negli anni della prima presidenza Trump che durante la campagna che lo ha riportato alla Casa Bianca. Fuentes e i suoi erano materiale radioattivo per il mondo Maga, gente troppo estrema per poterla coinvolgere. Di provocazioni anche forti i trumpiani ne hanno fatte tante in questi anni, specialmente quando si trattava di dar battaglia alla cultura woke e anche di sfidare il pensiero dominante in tema di razza, etnia, immigrazione, genere e consuetudini sessuali. Ma aprire la porta a chi nega l’Olocausto era rimasta una linea rossa da non superare. A passare il guado e sdoganare Fuentes è stato nelle scorse settimane Tucker Carlson, privo di freni inibitori culturali fin dai tempi del famigerato viaggio a Mosca per intervistare (e lodare) Vladimir Putin. Carlson, con il suo seguitissimo show autogestito, è una potenza mediatica ed è alla ricerca di un ruolo politico negli anni post-Trump che verranno. Ama provocare e stupire, e stavolta ha creato un cortocircuito nel mondo Maga che potrebbe avere conseguenze di lungo termine. In due ore di intervista che hanno fatto il giro del web, Carlson ha dato a Fuentes la possibilità di raccontarsi come mai era avvenuto prima. Lo ha legittimato, ha ascoltato senza prenderne le distanze le teorie del nazionalismo bianco di cui il giovane ex ragazzo dei sobborghi di Chicago è il paladino, e così facendo ha scatenato un putiferio. Una vera e propria guerra civile che ora divide le armate trumpiane, spaccandole in un momento in cui sono anche alle prese con un incrocio di fenomeni nuovi. Prima c’è stata l’uccisione di Charlie Kirk, che ha innescato una corsa tra chi – Fuentes tra questi – ambisce a ereditarne il potere carismatico soprattutto tra i più giovani. Poi c’è stato il martedì elettorale nel quale i democratici hanno lanciato su scala nazionale il volto del sindaco socialista di New York Zohran Mamdani e in altre parti del paese gli elettori hanno mandato pessimi segnali a Trump. Quindi è stata la volta del ritorno del caso di Jeffrey Epstein, che vede vari esponenti di punta del mondo Maga contrapporsi alla Casa Bianca e alcuni paladini del movimento, come la deputata della Georgia Marjorie Taylor Greene, entrare direttamente in rotta di collisione con il presidente. L’intervista a Fuentes ha rivelato tutti i malumori e le spaccature che esistono nel mondo conservatore, che solo un anno fa si era coalizzato per riportare Donald Trump nello Studio Ovale. La conseguenza più vistosa è stata la rivolta che è nata all’interno della Heritage Foundation, il pensatoio dei Maga, dopo che il presidente Kevin Roberts ha preso le difese di Carlson, motivando le proprie dichiarazioni con la volontà di difenderne la libertà di espressione. Una mossa che non è piaciuta a molti intellettuali conservatori e che ha provocato dimissioni a raffica alla Heritage e richieste a Roberts di farsi da parte. Il ventisettenne Fuentes ha osservato il terremoto gongolando, ridendo molto per ciò che sta avvenendo e rafforzando i consensi per la sua America First Foundation. “Noi vogliamo distruzione, vogliamo il caos, vogliamo gli scontri interni al mondo conservatore”, aveva detto a settembre nel suo podcast. Il Tucker Carlson Show gli ha permesso di realizzare il progetto e ora contro di lui si sono lanciate con veemenza voci e firme importanti del mondo conservatore, come Ben Shapiro e Dinesh D’Souza, mentre lo scrittore Rod Dreher, molto vicino al vicepresidente J.D. Vance, ha lanciato un allarme carico di preoccupazione: “Il 30 o 40 per cento degli attivisti conservatori della Generazione Z, tutti giovani che lavorano a Washington in ruoli importanti in Congresso o negli uffici federali, sono ormai seguaci di Fuentes e ne seguono le orme”. Il tradizionale mondo Maga – è l’analisi di Dreher – rischia di venir sfidato e sgretolato dall’avanzata dei Groypers. Cioè dei seguaci del nazionalismo bianco di Fuentes, una sottocultura erede del movimento un tempo chiamato “alt-right”, che prende il nome da una rana deforme nata sulla rete sotto forma di meme, a sua volta evoluzione di un altro meme, Pepe the Frog, figura ranesca antropomorfa nata una ventina di anni fa nel mondo dei cartoon digitali. I Groypers e il loro leader sono una tra le tante derive culturali nate negli Stati Uniti negli anni della presidenza di Barack Obama, prosperate durante la prima presidenza Trump e poi decollate come luoghi di opposizione all’amministrazione di Joe Biden e al mondo woke progressista. Nell’intervista a Carlson, Fuentes ha raccontato di aver cominciato la propria carriera da attivista nel 2016 mentre era una matricola alla Boston University e faceva campagna per Trump. Diventato rapidamente un personaggio per le sue provocazioni e i dibattiti ingaggiati contro gli studenti progressisti che dominavano il campus, Fuentes in breve tempo ha fatto una scelta analoga a quella che pochi anni prima aveva fatto Kirk: ha lasciato perdere gli studi per dedicarsi a tempo pieno all’attivismo po litico. Ma ciò che ha da subito caratterizzato il nascente movimento dei Groypers, separandolo dal resto dell’universo Maga, è stato il profondo antisemitismo che lo contraddistingue. Fuentes nei suoi tweet o nei video su Rumble non esita certo a prendersela con i neri, con le minoranze, con la comunità lgbtq. Ma il suo vero obiettivo sono gli ebrei. E’ una battaglia che, a suo dire, è cominciata “quando ho iniziato a chiedere a tutti di spiegarmi le ragioni per cui gli Stati Uniti, con qualsiasi governo, sono così impegnati a finanziare e aiutare Israele. Io voglio un paese America First, ma qui siamo pieni di gente che è Israele First e questo non è accettabile. Non sono Maga, sono Miga, Make Israel Great Again”. E’ un approccio che lo ha messo subito in rotta di collisione con Shapiro e con il mondo di Daily Wire, una delle palestre del mondo Maga in cui sono cresciuti molti di coloro che si riconoscono nella linea di Charlie Kirk e che oggi vorrebbero diventarne i successori: oltre a Shapiro, si tratta di personaggi giovani e con un certo peso tra i trumpiani come Candace Owens, Jack Posobiec, Matt Walsh e Michael Knowles. Tutti presi di mira e attaccati da Fuentes, al quale hanno risposto creando un cordone sanitario intorno ai Groypers che finora li aveva tenuti fuori dal mainstream della destra. Il quarantunenne Shapiro, ebreo e filoisraeliano, è la vera bestia nera di Fuentes (che in passato ha attaccato molto anche lo stesso Kirk) ed è a partire dagli attacchi contro di lui che il giovane estremista bianco ha sviluppato una retorica sempre più virulenta contro tutti gli ebrei, accompagnandola con deliranti teorie sulla supremazia cristiana e sulla necessità di “ripulire l’America dalle lobby ebraiche”. Il tutto raccontato ridendo e scherzando, usando meme e crocifissi e nascondendosi dietro il consueto richiamo alla libertà di espressione. America First Foundation è ora un’organizzazione ben strutturata e anche ben finanziata, grazie al sostegno da parte di personaggi come il rapper antisemita e neonazi Kanye West, di cui Fuentes ha promosso e accolto come una sorta di inno del suo movimento il recente brano “Nigga Heil Hitler”. L’obiettivo adesso è entrare con forza nella campagna elettorale del 2026 per le elezioni di midterm, osteggiando o appoggiando candidati repubblicani per cercare di portare in Congresso personaggi con idee affini a quelle dei Groypers. Tucker Carlson ha permesso a Fuentes di entrare nel dibattito che conta, rompendo il cordone sanitario creato intorno a lui. Secondo Rod Dreher, l’unico esponente Maga che nei prossimi anni avrà la possibilità di frenare l’ascesa dei Groypers tra le giovani generazioni e raccogliere l’eredità di Kirk sarebbe J.D. Vance, che per ora osserva con un certo distacco la guerra civile conservatrice. Ma il vero interrogativo è che cosa farà Trump. Con Fuentes il presidente ha avuto finora sempre un atteggiamento ambiguo. Nel 2022 lo ha ospitato insieme a Kanye West a cena a Mar-a-Lago, in un momento in cui Trump era ai minimi della popolarità e stava cominciando a ricostruire la sua carriera politica. Non ne era nato in apparenza alcun legame particolare e Fuentes era stato tenuto lontano dalla campagna elettorale e poi dalla Casa Bianca, a differenza di Kirk o Shapiro. Di fronte alle polemiche delle ultime settimane dopo l’intervista con Carlson, Trump non ha preso posizione tra i vari schieramenti, ma ha difeso l’intervistatore: “Non gli si può dire cosa fare o chi intervistare”, ha detto. “Se vuole intervistare Nick Fuentes, di cui non so molto, lasciateglielo fare e tocca poi alla gente decidere se guardarlo o no”. Fuentes ha pubblicato subito su X le parole di Trump, ringraziandolo e festeggiando. E ha ricominciato a ironizzare sulla Shoah e a celebrare Hitler.
Cisgiordania, in ottobre otto raid al giorno. A Gaza «67 minori uccisi dopo la tregua»
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di Marco Girardo
Cisgiordania, in ottobre otto raid al giorno. A Gaza «67 minori uccisi dopo la tregua»
Due conflitti. Uno fragilmente trattenuto dalla tregua, quello di Ga2a, e uno al quale manca solo il riconoscimento ufficiale, un nome, in Cisgiordania. La Palestina assediata, frammentata e divisa si riunisce quotidianamente intorno ai feriti e gli uccisi, e sono forse i bambini, troppo spesso senza nome, a rivelare la natura più spietata della guerra. Secondo Ricardo Pires, portavoce dell’Unicef, sono almeno 67 i minori uccisi nella Striscia di Ga2a dal cessate il fuoco del 10 ottobre. «Decine sono i feriti. È una media di quasi due minori al giorno», ha sottolineato Pires in una conferenza stampa ieri a Ginevra. Attraverso i numeri, le Nazioni Unite hanno offerto recentemente anche il quadro drammatico della Cisgiordania. Dal 7 ottobre 2023 a oggi sono 211 i bambini uccisi dalle forze dell’ordine israeliane. Anzi, 213 se si aggiungono all’elenco Sami Ibrahim Mashaikha, 16 anni, e Amr Khaled al-Marboua, colpiti a morte ieri dai soldati dell’Idf durante un’operazione a Kfar Aqab, conurbazione di Ramallah. Devono ancora essere restituite alle famiglie le salme di Mohammad Ayyash e Bilal Sabarnah, entrambi quindicenni, uccisi giovedì scorso in circostanze poco chiare a Beit Ummar, non lontano da Hebron. La comunità sostiene che a sparare sia stata la guardia della vicina colonia di Karmei Zur. A Tal, villaggio vicino a Nablus, un agente di polizia palestinese è stato ucciso nella sua abitazione durante un’operazione delle forze israeliane. Dopo la città cristiana di Taybeh, assalita dai coloni giovedì, ieri è stato il turno di Huwara e Abu Falah, anch’essi piccoli centri non lontano da Nablus. In ottobre i raid sono stati 260, una media di otto al giorno. Solo nella notte fra giovedì e venerdì le incursioni devastatrici sono state sette: incendi di macchine, campi ed edifici, aggressioni che hanno preso di mira perfino gli anziani. Mai così dal 2006. Nel corso delle ultime settimane, il numero, la ferocia e soprattutto la resistenza dimostrata dai coloni al pur connivente esercito, hanno portato il presidente della repubblica Herzog, il capo di Stato maggiore Zamir e perfino il segretario di Stato americano Rubio a esprimersi con preoccupazione e fermezza. Rapidamente, tuttavia, nella narrazione le operazioni dei “giovani delle colline” sono passate da rappresentare un pericolo anarcoide e sistematico per lo Stato a essere le intemperanze di un «piccolo gruppo estremista», come affermato dal premier Netanyahu. O, secondo un’interpretazione ancora più originale, quella dell’ambasciatore americano a Tel Aviv Huckabee, «un piccolo numero di giovani criminali che non abitano nemmeno lì, ma vi si recano per creare caos in Giudea e Samaria». Le bande dei giovani sionisti messianici fanno in realtà informale riferimento al ministro della Sicurezza Ben-Gvir e a quello delle Finanze Smotrich, essi stessi coloni, alfieri dell’annessione di Ga2a e della Cisgiordania, e della legge sulla pena di morte. Il provvedimento, che ha superato il primo dei tre passaggi parlamentari, prevede la pena capitale per qualsiasi «terrorista» che «uccida un israeliano per motivi razzisti e con lo scopo di danneggiare lo Stato di Israele e la rinascita del popolo ebreo nella sua terra». In vista del secondo passaggio alla Knesset si discutono i particolari. Smotrich ha affermato che la legge andrebbe applicata anche a un ebreo che lavora per conto dell’Iran. Lo Shin Bet, contrariamente alla tradizione, si è mostrato incline ad accettare il disegno di legge. L’esercito ha dichiarato di non volersi opporre, ma non ritiene che la pena debba essere obbligatoria. È una risposta alla posizione di BenGvir, propugnatore della corrispondenza fra condanna ed esecuzione, timoroso che la pavida interpretazione dei magistrati possa sottrarre il condannato all’iniezione fatale.
Netanyahu sul leader siriano: «Al-Jolani è tornato da Washington pieno di sé»
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di Redazione
Netanyahu sul leader siriano: «Al-Jolani è tornato da Washington pieno di sé»
Il leader siriano Ahmed al-Sharaa è tornato dalla visita alla Casa Bianca «pieno di sé». L’avrebbe detto il premier israeliano Benjamin Netanyahu all’ultima riunione del gabinetto di sicurezza, stando all’emittente israeliana Kan. «Al-Jolani è tornato pieno di sé da Washington», avrebbe detto Netanyahu usando quello che è stato il nome di battaglia di al-Sharaa quando era il leader dei jihadisti di Hayat Tahrir al-Sham, che lo scorso dicembre in Siria ha messo fine al regime di Assad. «Sta iniziando a fare tutte quelle cose che non accetteremo», avrebbe detto Netanyahu. E avrebbe aggiunto che al-Sharaa «vuole portare le forze russe al confine». Stando al Jerusalem Post, Netanyahu avrebbe confermato le indiscrezioni di stampa sulla visita di una delegazione russa nel sud della Siria, vicino al confine con Israele. Due giorni fa Netanyahu ha visitato le truppe israeliane dispiegate oltre la linea di demarcazione tra i due Paesi, accompagnato dai ministri della Difesa, Israel Katz, degli Esteri, Gideon Saar, e del capo dello Shin Bet, David Zini.
Guerriglia a Bologna per impedire il match tra Virtus e Maccabi
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di Francesca Musacchio
Guerriglia a Bologna per impedire il match tra Virtus e Maccabi
Bologna ieri ha vissuto una giornata di massima tensione. Il corteo pro Pal, organizzato per protestare contro la partita di basket tra la Virtus Bologna e gli israeliani del Maccabi in programma al Pala Dozza, in serata è sfociato in una vera e propria guerriglia urbana per le vie del centro. La manifestazione, composta da circa 5000 persone e alla quale hanno partecipato collettivi, sindacati di base, centri sociali e giovani palestinesi, è partita intorno alle 19 da piazza Maggiore. L’obiettivo dei manifestanti, però, era quello di dirigersi verso il Pala Dozza, che dista poco più di un chilometro dalla piazza principale della città. Una volta arrivati su via Lame, all’altezza della baracchina Tper, alcuni manifestanti si sono coperti il volto e hanno smontato parti del cantiere recuperando transenne, mazze di legno e altri materiali. Poi è iniziato il lancio di fumogeni, bottiglie di vetro e sassi verso le forze dell’ordine. Sono stati sparati anche fuochi d’artificio ad altezza uomo. A quel punto, spiega la Questura di Bologna, «è stato necessario l’utilizzo dell’idrante» per disperdere i manifestanti. Gli scontri, però, sono proseguiti in vari punti. Il corteo si è diviso in più gruppi, mentre i cassonetti sono stati posizionati in mezzo alla strada per sbarrare il passo ai mezzi con gli idranti. Dalle barricate create con i cassonetti, i facinorosi hanno iniziato a lanciare sanpietrini e altri oggetti contro gli agenti. La zona intorno al Palazzetto dello Sport era circondata da un’ampia zona rossa che, fin dalle 13, ha permesso l’accesso solamente ai residenti e ai possessori di abbonamento o biglietto per poter assistere alla partita. Dalle 18, invece, i manifestanti si sono radunati per protestare «contro l’opportunità di giocare una partita con la squadra israeliana». La presenza del Maccabi, infatti, è diventata il catalizzatore di un fronte che voleva bloccare l’evento sportivo. Il corteo ha sfilato dietro lo striscione “Show Israel the Red Card” con cartellini rossi e palloni “insanguinati”. Presente anche Patrick Zaki che sui social ha scritto: «La partita di oggi può sembrare un evento sportivo ordinario, ma porta con sé un peso politico ed etico impossibile da ignorare in una città che ha definito la propria identità sulla base della solidarietà, della memoria e del rifiuto di ogni forma di fascismo». Durante la manifestazione sono stati intonati cori contro Netanyahu, il Primo Ministro israeliano e il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, sotto la pioggia e un dispositivo di sicurezza dispiegato su tutta l’area del palazzetto. Poco dopo le 19 il pullman del Maccabi Tel Aviv è arrivato scortato dalla polizia, mentre il corteo definiva l’incontro «la partita della vergogna» e accusava la squadra israeliana di essere «funzionale al governo sionista». Le tensioni di ieri sera tra manifestanti e forze dell’ordine concludono una settimana che ha visto un durissimo scontro tra il Comune di Bologna, che voleva rinviare o spostare la partita in un’altra zona della città, e il ministro Matteo Piantedosi che ha deciso che la partita si sarebbe comunque giocata.«L’esasperazione e l’estremismo incendiario generato dal Pd e dal suo Sindaco, con la complicità di pro-Pal e teppisti, a Bologna sfocia nuovamente nell’intolleranza e nella violenza – ha commentato in serata Galeazzo Bignami, capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera dei deputati -. Aggredire le forze dell’ordine e costringere una città a blindarsi in casa per impedire lo svolgimento di un momento di sport, dimostra il vero volto della sinistra italiana. Noi stiamo dalla parte dello sport, delle forze dell’ordine e di chi non ne può più di questo estremismo ideologico in cui è finita la sinistra con i suoi alleati».
Coppia di israeliani aggredita a Roma Sputi e pugni al grido «Free Palestine»
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di Giulia Sorrentino
Coppia di israeliani aggredita a Roma Sputi e pugni al grido «Free Palestine»
Ennesimo e gravissimo episodio di antisemitismo che si è registrato a Roma per una coppia di israeliani che hanno vissuto letteralmente una vacanzadaincubo.Èciòcheèsuccessoad coppia di israeliani, Noya e Roy, rispettivamente ventuno e ventitré anni in vacanza a Roma. È successo tre giorni fa come racconta Noya raggiunta da Shalom: «Uscivamo da una cena in un noto ristorante nel centro di Roma, e ci stavamo dirigendo verso un altro locale quando per la strada, è arrivato un uomo con uno scooter e sentendoci parlare in ebraico ha cominciato ad urlare “free Palestine” più e più volte ci ha sputato e ha sferrato un pugno in faccia al mio fidanzato».Poic’è stata lacolluttazione tra i due e le grida della ragazza, mentre il ragazzo israeliano è riuscito a fermare l’aggressore che è fuggito subito. «Mi sono tolta i tacchi e ho iniziatoacorrere, avevopaura al contempo però temevo che quell’uomo potesse fare qualcosa di peggiore a Roy»,La ragazzaharaccontato aShalom che «sono stata in Italia tantissime volte, ma cosa del genere non mi èmaisuccessaenonavreimaiimmaginato di poter vivere un incubo così proprioa Roma, lacosa che più mi ha colpito è che stavamo solo parlando. Semplicementecamminavamo.È assurdo essere aggrediti, con violenza, solo perché israeliani ed ebrei». EpisodiodenunciatodaldeputatodiFratelli d’Italia Mauro Malaguti: «La sinistraProPal cirifletta, perché dentrola solidarietàaGa2asiannidaunantisemitismo atavico, come dentro al popolo palestinese si annida il terrorismo di Hamas. I partiti di opposizionecerchinoaltriargomentipercontestare il governo, perché quelli ProPal possono essere molto pericolosi».
Il tour ProPal di Greta in Italia a Verona occupa l`università
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di Filippo Impallomeni
Il tour ProPal di Greta in Italia a Verona occupa l`università
Greta Thunberg è arrivata in Italia per il tour politico a fianco di Alleanza Verdi Sinistra e collettivi. Per concludere, ciliegina sulla torta, con lo sciopero generale proclamato dall’Unione sindacale di base il 28 novembre. La prima comparsa l’ha fatta ieri a Verona, abusivamente. Dove in viale Università, al Polo Zanotto, si è tenuta l’assemblea organizzata dal collettivo «Tamr» e sostenuta da altri movimenti universitari. Ovviamente ProPal legati da un solo verbo: «Palestina libera, dal fiume fino al mare». Insomma, il solito copione. Stavolta però a ridosso delle elezioni regionali, motivo per il quale l’ateneo scaligero avrebbe deciso di sfrattare Greta e compagni dalle aule delle facoltà di lettere e filosofia. Una decisione semplice, quasi di elementare comprensione: un comizio politico che tra gli organizzatori ha un candidato di Avs viola in pieno la norma sulla par condicio. «Troviamoci per discutere insieme dei prossimi passi della mobilitazione al fianco del popolo palestinese, che si unisce all’opposizione contro il governo Meloni e le sue politiche di guerra. Costruiamo insieme un ampio fronte popolare in vista dello sciopero generale del 28 novembre». Questo il proclama, tutt’altro che dagli intenti culturali, degli attivisti che hanno prontamente gridato alla censura. A ogni modo, nonostante il divieto, l’attivista svedese è arrivata in università accompagnata da Simone Zambrin (uno di quelli che partecipò alla passarella in barca a vela con la Flotilla). Mentre i collettivi, dopo averlo già annunciato, hanno occupato indisturbati l’aula magna del Polo. Ancora una volta, quindi, le università si trasformano in luoghi adibiti all’indottrinamento politico della sinistra più radicale. Poco importa se, dove gli studenti pagano le tasse per studiare, si incita all’annullamento dello stato di Israele o si reclutano nuovi professionisti del disordine per le piazze anti-Meloni. Guai a interrompere i sogni di Greta e dei giovani «pacifisti» come Maya Issa, la rappresentante romana del movimento degli studenti ProPal. O meglio, la Francesca Albanese de noantri protagonista anche lei dell’incontro, colei che ha detto: «Non sostengo il 7 ottobre ma lo comprendo». Adesso non resta che aspettare la sfilata della Thunberg a braccetto con Usb, quando a Genova si mostrerà anche la vera Albanese. Mentre martedì le trecce di Greta saranno a Firenze, tra dibattiti e docufilm (Non spingete).
La sfida allo stato. L`Imam di Torino e l`affronto a Meloni Poi attacca Salvini
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di Giulia Sorrentino
La sfida allo stato. L`Imam di Torino e l`affronto a Meloni Poi attacca Salvini
L’imam di Torino ora va all’attacco anche della Premier, evidentemente una moda visto che anche Mohammad Hannoun si era permesso di chiedersi se Meloni fosse andata all’estero per sfilare o per rappresentare l’Italia. Brahim Baya, infatti, ha scritto che «l’anno scorso la Presidente del Consiglio chiese in diretta tv alla magistratura di “occuparsi di me. Risultato: non è accaduto nulla perché non avevo commesso alcun reato. Nel frattempo, lei è denunciata da un team di giuristi italiani alla corte penale internazionale per complicità genocidio». Poi aggiunge che lui continuerà a parlare con responsabilità, pacatezza e con la libertà che gli spetta come cittadino italiano. Se non fosse che non ravvisiamo alcuna pacatezza nelle parole che ha rivolto ai soldati israeliani: «Ci vorrebbe una bomba sotto questa casa occupata che faccia schiattare questi ratti maledetti», era il pensiero espresso sui social da uno dei volti dell’islam “moderato”. Lo stesso che si scaglia contro gli esponenti di Lega e FdI che hanno chiesto la sua espulsione dopo l’ennesimo elogio rivolto a un terrorista. E, infatti, lui ha dedicato diversi pensieri a Yaya Sinwar: non un martire, ma colui che viene considerato la mente dell’attacco del 7 ottobre, giorno del pogrom commesso da Hamas. «La voce della resistenza. Metteva in guardia da anni l’occupazione dalle conseguenze dei suoi atti criminali», ha scritto Baya. E poi: «Yahya Sinwar è caduto come vivono gli uomini liberi: affrontando l’invasore, ferito, con le mani spezzate, circondato dalle rovine, ma ancora capace di scagliare il suo bastone contro il drone del nemico», commenta celebrandolo a «un anno dal suo martirio, ricordiamo l’uomo che disse con il suo silenzio: “Siamo qui, restiamo qui”. Il suo nome, come quello dei suoi fratelli, rimane inciso nella pietra della Storia» insieme a «tutti i resistenti del mondo. Il mondo non dimentica i suoi eroi. La Resistenza non muore». Giorgia Meloni si era espressa su Baya nel maggio del 2024: «Le parole dell’imam all’università di Torino? È il risultato di una cultura che ho combattuto e che combatto», aveva detto ospite di «Dritto e rovescio» su Rete4, commentando un sermone che lui aveva tenuto a Palazzo Nuovo, sede dell’ateneo, davanti agli studenti dei collettivi ProPal. E aveva aggiunto: «Combatto da sempre la cultura per la quale la laicità dello Stato si deve applicare solamente contro la religione cattolica perché noi dobbiamo togliere i crocifissi dalle aule delle nostre scuole, ma sia chiaro che se arriva un imam e si mette a inneggiare la jihad dentro un’università, quello va bene. Questo non sarà mai il mio modello e mi auguro ancora di avere uno Stato italiano che fa rispettare le regole, perché a casa nostra la propaganda jihadista non si può fare e quindi mi aspetto che ci sia qualche magistrato che si occupi di questa persona». Una magistratura che, però, dopo un anno e mezzo non sembra aver mosso alcun passo. Questo il volto delle piazze per Ga2a lo sa. E, purtroppo, lo rivendica fieramente. Ci sono giudici che ritengono opportuno inneggiare a un terrorista? Ritengono accettabile che, per difendersi, Baya si scagli contro la deputata FdI Augusta Montaruli e la Lega dicendo che «condannati atta ccano un cittadino incensurato»? E che chiami nuovamente Il Tempo in causa apostrofandolo come «quotidiano razzista e sionista»? Poi il guanto di sfida dell’islam piemontese: «Se qualcuno pensa che io abbia commesso un reato vada dalla magistratura. Perché non lo fanno? Perché non c’è nulla da denunciare. Solo propaganda, paura della verità e nostalgia dell’autoritarismo». Dopo l’attacco al Premier, alla stampa, a membri del nostro Parlamento, ci saranno toghe che se ne occuperanno? L’apologia di terrorismo è un reato che punisce chi pubblica e diffonde messaggi di esaltazione, lode o sostegno verso atti di terrorismo o organizzazioni terroristiche. Ed è stabilito dal codice penale, esattamente dall’articolo 414 (istigazione a delinquere) con specifiche aggravanti che prevedono pene più severe se i reati riguardano il terrorismo. Il pensiero dubitativo qui risulta obbligatorio: perché la giustizia non prende provvedimenti? Il messaggio che rischia passare è che per qualcuno paragonare i terroristi ai martiri sia lecito e soprattutto impunito.
Il benaltrismo di Elly e Conte sull`Islam Party
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di Tommaso Cerno
Il benaltrismo di Elly e Conte sull`Islam Party
Non hanno visto i convegni in Parlamento con i leader dei palestinesi italiani e i big del loro partito. Non hanno visto nemmeno i legami fra Mohammad Hannoun e la propaganda di Hamas. Non hanno letto i dossier americani che ricostruiscono la rete che porta dall’Italia a Ga2a. Insomma guardano altrove, parlano d’altro e fingono che non sia mai nato nemmeno il partito dei musulmani a Roma pur dopo la presentazione ufficiale da parte di un ex militante del Pd convertito all’islamismo. La domanda è: perché? Perché questo benaltrismo e non una semplice presa di distanze da un magma che mescola in maniera esplosiva parole come integrazione ad altre come genocidio, ispirando alla violenza come soluzione? Non credo che non si veda ciò che sta succedendo in Italia, come già in Francia. E se proprio Schlein e Conte, insieme a Bonelli e Fratoianni, sono così distratti, ci pensa tutti i giorni lo stesso Hannoun a spiegargli come un gps politico dove si trova e in che direzione sta andando. Alzando il tiro da Il Tempo, che da mesi denuncia la deriva radicale in corso, alla premier Meloni e al vice Salvini. Una sfida allo Stato.
«Io denunciato ma so distinguere semiti e sionisti»
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di Guglielmina Aureo
«Io denunciato ma so distinguere semiti e sionisti»
«Sono appena stato denunciato per istigazione all’odio razziale e demonizzazione di Israele dall’Ucei (Unione comunità ebraiche italiane)». È indignato Enzo Iacchetti. La fase della rabbia è superata. Le sue carotidi sono al sicuro dopo lo shock subito nel sentire la frase “definisci bambino” pronunciata, qualche settimana, fa a “Cartabianca”, da Eyal Mizrahi, presidente della Federazione Amici di Israele. Non che una denuncia possa sconvolgere “Enzino”. Se trentuno stagioni a “Striscia la notizia” portano inevitabilmente a una certa dimestichezza con gli avvocati, l’educazione ricevuta in famiglia porta alla resilienza, a difendere le proprie idee come racconta nel suo libro “25 minuti di felicità – Senza mai perdere la malinconia”, edito da Bompiani. Iacchetti domenica 30 novembre, alle 18, sarà al Palazzo Ducale di Genova per la chiusura del Festival di Passaggio. È amareggiato? «Mi sono sentito anche dare del fascista. Io? Con un nonno partigiano! Perché faccio distinzione tra semiti e sionisti? Perché la penso come Moni Ovadia e tanti altri ebrei contrari al governo Netanyahu? Perché sono pacifista come quelli che scendono in piazza? Ho risposto sui social con una frase di Dostoevskij (Arriverà un tempo in cui le persone intelligenti non potranno più fare una riflessione per non offendere gli imbecilli). Non sanno la storia e la ripetono». La sua storia l’ha raccontata nel romanzo… «Mi hanno proposto di scriverlo. La prima volta ho risposto no, la seconda anche. La terza ho detto sì, se mi fate scrivere qualcosa di me che la gente non sa, così che ci si possa identificare. Io ho sempre scritto per il teatro, canzoni e articoli per il Secolo XIX negli Anni ’90. Leggo, e ho letto moltissimo, da Steinbeck a Pavese a Garcia Marquez». Nel romanzo ci sono l’infanzia a Castelleone, il rapporto col papà che scoraggiava il suo amore per la musica, la tv sotto forma di legami, come quello con Costanzo. «Sono agnostico ma in una gerarchia celestiale Maurizio è in Paradiso. È stato il mio secondo padre. Il primo è morto a 57 anni quando io ne avevo 22. Maurizio l’ho conosciuto a 39 anni e l’ho frequentato fino alla sua morte. Mi ha scelto, corretto, coccolato. Mi è stato vicino sempre anche quando in famiglia c’erano problemi di salute. Aveva un grande senso dell’umorismo. Gli devo tutto umanamente e professionalmente. Oggi è poco ricordato. Questo mi rende triste». Antonio Ricci? «Ricci mi ha fatto diventare famoso. È stata anche una svolta economica che mi ha permesso di sistemare le faccende della mia giovinezza incauta e disperata. Ho cominciato a 14 anni a suonare… Per Antonio nutro un rapporto di eccessiva stima, lo stimo in modo XXL, ha un’intelligenza che mi fa paura. Quando viene a teatro mi dice sempre che sono stato bravo, in 31 anni di “Striscia” una volta ha detto “stasera siete andati bene”». Ezio Greggio? «È il compagno di banco che tutti vorrebbero. Dopo aver visto la chimica fra noi, ci siamo detti “non litighiamo che dureremo tanto”, questo è stato il nostro karma. Siamo diversi e facciamo vite diverse. Ci diamo libero sfogo solo nel calcio: lui è juventino e io interista». “Striscia”: gli scoop da Wanna Marchi a… «Alle roulotte inutilizzate dopo il terremoto… O alla caduta del governo Berlusconi per un fuori onda: Rocco Buttiglione (alleato con Massimo D’Alema) proponeva a Tajani il megainciucio: un’alleanza tra i loro partiti in vista delle Regionali. Un casino… La lega uscì dal governo… era il 25 novembre del 1994. Non so come abbia fatt o Ricci a sostenere le ire del Cavaliere». Non si è mai trovato a disagio a “Striscia”? «Il mio ruolo era un po’ quello del remissivo nella coppia. Quando la battuta riguardava qualche collega che conoscevo dicevo a Ezio “questa dilla tu”, e lui viceversa. Poi è arrivato il Tapiro e si sono stemperati i toni». Che impressione le fa sentir dire da Pier Silvio Berlusconi che non è blasfemo pensare di chiudere “Striscia”? «Non credo che la chiuderà. Ma “Striscia” si modificherà, probabilmente, inizierà più tardi, diventerà una prima serata, non si sa cosa rimarrà della vecchia». La rivedremo? «Aspetto una comunicazione sulle date d’inizio, spero non coincidano con il mio impegno teatrale. Il 7 febbraio iniziano le prove dello spettacolo “Buongiorno ministro” con Carlotta Proietti. Commedia spagnola tradotta: due ore di belle risate su un ministro costretto a dimettersi». È al Tavolo di Fazio. «Dove mi diverto molto. Sono uno dei pochi con il microfono sempre aperto, con Fabio ci intendiamo, improvvisiamo, basta un’occhiata e io sparo la battuta». Cosa la fa ridere in tv? «La Gialappa’s, Maurizio Crozza, Luca e Paolo a “diMartedì”. Gli unici spazi di satira rimasti». Lol? Zelig? «Non li guardo per invidia, perché non mi chiamano, so che io lì sarei bravo. Ma capisco, le generazioni cambiano. Mi piacciono Marta e Gianluca, hanno una comicità vicino a quella che ho sempre amato». Ha lasciato Milano per le colline di Luino… «Sono stato 40 anni a Milano, non ce la facevo più. Bello il Bosco Verticale ma se abiti lì, in circonvallazione? L’aria è irrespirabile, c’è delinquenza». È una città che espelle i poveri e i meno poveri… «Impossibile campare per una famiglia normale con due bambini, ci sono stati degli errori politici enormi». Nel libro lei parla dell’impegno per l’Africa, in Tanzania, in Kenya… «Con il mio amico Icio De Romedis abbiamo finanziato più di mille pozzi d’acqua, scuole, ci diamo da fare vendendo dvd, dischi… Basta spendere per gli ambasciatori nel mondo, io mi sono francescanizzato, ci paghiamo tutto e portiamo i soldi che ci danno gli amici». Tenterà per la quinta volta di andare al Festival di Sanremo? «No, mi hanno fatto troppo male le quattro volte in cui mi hanno scartato. La quinta sarebbe un grande dolore. Avevo canzoni di Giorgio Conte, Nomadi e Francesco Guccini. Erano belle canzoni. “Iacchetti non è un cantante” mi sono sentito dire (da Baglioni, è scritto nel libro, ndr). Eppure con quel direttore artistico ho cantato tante volte, quando si invecchia si dimenticano un po’ di cose. Io cerco di leggere più che posso».
Il partito di corbyn rosso-islamico non è ancora nato e già si sta spaccando
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di Giovanni Longoni
Il partito di corbyn rosso-islamico non è ancora nato e già si sta spaccando
La sinistra britannica vive un momento fra i più difficili della sua storia. Da una parte ci sono gli sbadati laburisti al governo i quali continuano a scoprire, con loro sommo sconcerto, che bisogna pagare le tasse. Ieri è stato il turno di John Healey: il ministro della Difesa ha ammesso che si era scordato di saldare delle imposte sulla sua seconda abitazione. Si tratta dell’ennesimo caso dopo quelli della ex vice premier Angela Rayner e della segretaria per i senzatetto, Rushanara Ali, che sfrattava gli inquilini degli immobili di sua proprietà per alzare gli affitti. I sondaggi danno il governo Starmer in caduta ma bisogna dire che la minaccia per l’attuale inquilino di 10, Downing Street viene solo da destra, con Reform UK di Nigel Farage che avanza a valanga nel gradimento popolare (al netto di qualche esponente della formazione arrestato perché al soldo di Putin). A sinistra di Starmer infatti il problema che sembrava incarnarsi nella barba poco curata, nelle giacche sformate e nel berretto alla Lenin di Jeremy Corbyn si sta risolvendo da solo. “Your party” è il nome provvisorio del movimento guidato dall’ex numero uno laburista insieme con Zarah Sultana – musulmana praticante di origini pakistane, con idee repubblicane e nemica di Israele – su un programma che voleva mettere insieme proprio l’attivismo filopalestinese con la lotta sociale di quella parte della sinistra britannica che non si riconosce in Starmer e neppure nel blairismo riveduto e corrotto dell’attuale esecutivo. Sulle prime, la creatura di Jeremy cacciato dal Labour per l’antisemitismo suo e del suo entourage sembrava destinata a un futuro luminoso: i primi rilevamenti la davano al 10% di gradimento fra l’elettorato. Invece qualcosa non sta andando per il verso giusto. “Your Party”, infatti, è atteso la prossima settimana dal suo primo congresso ma ci arriva con le ossa rotte e dopo addii importanti ancora prima di venire ufficialmente fondato. Se ne sono già andati, sbattendo la porta, due pezzi da novanta come Adnan Hussain e, ed è la notizia di ieri, Iqbal Mohammed, entrambi musulmani e tutti e due fortemente ostili alle aperture al mondo omosessuale e ai trans. Soprattutto sono due che il seggio a Westminster se lo erano già procurato a differenza di tanti scappati di casa che affollano i ranghi del partito in stato nascente. Mohamed era stato attaccato da Zarah Sultana per una serie di post sui social media critici nei confronti delle questioni di «genere» ma anche Hussain pare non vedesse di buon occhio quella che per lui era una confusione fra Mecca e checca. Sembrano baruffe interne a un partitino inglese e tuttavia fanno parte di un contesto molto più grande. L’alleanza fra le istanze pro-Pal e quelle delle sinistre, estreme e meno estreme, è infatti una delle realtà più importanti del mondo attuale. Lo si vede nelle piazze italiane, nell’Assemblea nazionale francese dove imperversa Mélenchon col suo partito di giacobini antisemiti. Soprattutto è un fenomeno che è spuntato dalle urne di New York con il nuovo sindaco Zohran Mamdani, sciita e socialista (ma forse ha ragione Trump che lo chiama communist, anche se ieri lo ha elogiato). È un alleanza possente ma del tutto tattica. E le disavventure di Corbyn preso in mezzo allo scontro fra musulmani e trans sono un campanello d’allarme. Ma a sinistra non lo ascolteranno: d’altra parte, che alternative hanno?
Un premio giornalistico all`Albanese
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Un premio giornalistico all`Albanese
Il premio speciale della Fondazione Luchetta Ota D’Angelo Hrovatin, per l’impegno a favore dell’infanzia palestinese, è stato consegnato ieri a Franesca Albanese. La relatrice speciale dell’Onu, contestata anche da parte del centrosinistra per le sue opinioni anti-Israele, ha ritirato ieri il premio a Trieste. «Il valore di questo premio così prestigioso e dal significato così specifico» ha detto ieri la Albanese, «è un riconoscimento della sofferenza dell’infanzia palestinese. Quindi, al di là delle strumentalizzazioni politiche, o partitiche, o ideologiche, la cosa che conta è che la cittadinanza italiana, che oggi è rappresentata da questa regione, continui a essere vicina alle istanze di un popolo che sta soffrendo l’inenarrabile». Dalla Regione Friuli Venezia Giulia, per bocca dell’assessore alla Sicurezza Pierpaolo Roberti, si contesta invece la scelta di premiare la Albanese: «È sconcertante che proprio a Trieste, città in cui sono state proclamate le leggi razziali, la Fondazione Luchetta abbia deciso di assegnare un premio a colei che si erge a paladina di manifestazioni in cui si inneggia alla “Palestina libera dal fiume al mare”, slogan che è sinonimo della volontà di cancellare lo Stato di Israele».
Greta occupa l`Università di Verona Con lei candidati di Avs e centri sociali
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di Al Gon
Greta occupa l`Università di Verona Con lei candidati di Avs e centri sociali
Venghino signori venghino! Riecco Greta e il suo circo. La signorina Thunberg, ormai 22enne, col sostegno di Avs e dei centri sociali ieri ha occupato l’Università di Verona. L’ambientalista riciclatasi alla causa filo-islamica (business oggi più redditizio) ha violato il divieto imposto dall’ateneo e comiziato nell’aula magna della facoltà di Lettere e Filosofia. L’Università aveva vietato l’incontro per questioni di par condicio, dato che domani e lunedì in Veneto si vota per le regionali, sui social l’evento era stato promosso con decine di “post” contro il governo «delle destre» e «dei fascisti» e tra i promotori c’era un candidato di Alleanza Verdi Sinistra, Francesco Orecchio, il quale a luglio durante l’Aida, in Arena, aveva proiettato la bandiera della Palestina. Lo stesso Orecchio è il portavoce del Collettivo Tamr, che il 14 novembre aveva inoltrato la richiesta al rettorato. Che ovviamente non ha potuto che respingerla: dall’Università sottolineano che non si è trattato di una scelta ideologica ma «esclusivamente fondata sul rispetto della normativa a cui si devono attenere gli enti istituzionali». L’ateneo ha proposto una data alternativa, successiva alle elezioni, e però il Collettivo tramite il candidato della Bonelli&Fratoianni ha rifiutato. Quindi, ieri poco prima delle 17, l’occupazione, senza incontrare particolare resistenza. Circa 300 gretini hanno stipato l’aula magna, dove hanno affisso striscioni contro Israele e il centrodestra. L’Università, parte lesa della vicenda, per scongiurare ulteriori rischi dovuti alla sicurezza è stata costretta ad aprire un’altra aula, più piccola, per consentire ad altri 150-200 manifestanti di seguire in collegamento il comizio. Greta, reduce dalla comica esibizione al Circo-Flotilla, ha pontificato sulla geopolitica: «Quello in Palestina è un piano di pace che non ha niente a che fare con la pace e la giustizia, è una vergogna per il diritto internazionale. Ed è una vergogna», ha detto più volte l’attivista svedese, «che l’Università abbia tentato di impedire questo incontro e provato a togliere la corrente mentre si scandivano degli slogan». Poi ha continuato: «Poche persone hanno diritto di saccheggiare il pianeta per il profitto personale». A occupare con lei l’aula magna c’era Maya Issa, la rappresentante romana del movimento degli studenti pro-Pal. La stessa che in tivù ha avuto l’ardire di affermare: «È una vergogna che si parli del 7 ottobre dopo 70mila morti»; «Le responsabilità del 7 ottobre non sono di Hamas ma della comunità internazionale che non ha fatto nulla per impedirlo»; «Io non giustifico il 7 ottobre ma lo comprendo». Capito? Comprende la carneficina dei terroristi, gli stupri, i rapimenti. Ieri ha rilanciato: «Questo governo è complice del genocidio, si deve dimettere subito». Strepitando più di un muezzin ha esortato i presenti – uomini quasi tutti con la kefiah e decine di donne velate – a partecipare allo sciopero generale a Roma del prossimo fine settimana, a cui parteciperà pure Greta, accompagnata da Francesca Albanese. L’altro intellettuale di spicco presente all’Università di Verona – e ci scusiamo se ne trascuriamo altri altrettanto meritevoli – era tale Simone Zambrin, attivista veronese che a sua volta ha preso parte alla comica spedizione in barca a vela alla volta di Ga2a. Per fortuna ieri all’Università di Verona c’erano anche tanti giovani che se ne sono fregati e hanno continuato a studiare: il rischio, tra qualche anno, era quello di ritrovarsi in aula magna.
I pro-Pal assaltano Bologna Razzi e pietre sulla polizia
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di Alessandro Gonzato
I pro-Pal assaltano Bologna Razzi e pietre sulla polizia
Guerriglia per l’incontro di basket contro gli israeliani: feriti 8 agenti bombe carta e cassonetti a fuoco. Il Comune dem dà la colpa al governo ¦ Missione compiuta. Bologna finisce ancora ostaggio della violenza pro-Pal: l’ultima volta era stato il 7 ottobre quando gli odiatori dell’occidente avevano festeggiato il secondo anniversario della strage di Hamas assaltando per ore la polizia. Ieri la replica: bombe carta, petardi, sassi e bastoni contro le forze dell’ordine. Motorini e biciclette scaraventati a terra, cassonetti incendiati, cestini divelti. Otto gli agenti feriti, una quindicina i violenti fermati e identificati. Stavolta il pretesto delle zucche vuote ornate di kefiah, altre indossavano caschi, è stato la partita di basket tra Bologna e gli israeliani del Maccabi Tel-Aviv, in programma al Paladozza. La città dalle 19.30 è diventata un campo di battaglia, e ci torniamo subito. Il sindaco dem, Matteo Lepore, al solito prono ai centri sociali aveva chiesto l’annullamento dell’incontro (senza però presentare una richiesta ufficiale). Voleva che la città si arrendesse alla minaccia dei delinquenti e ieri, poco prima che riscoppiasse la guerriglia, tramite l’assessore alla Sicurezza, Matilde Madrid, ha scaricato la responsabilità sul governo: «Noi non dobbiamo chiedere scusa alla città, casomai è qualcun altro che dovrà farlo». Mercoledì Lepore aveva attaccato il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi: «Prendo atto della decisione del ministro», e aveva tenuto a sottolineare che la situazione «andava gestita con la testa e non con i muscoli, quindi se ne assume la responsabilità». Per il sindaco dem, si capisce, lo Stato dovrebbe annullare ogni evento contro cui si scaglia l’estrema sinistra. La zona attorno al PalaDozza, nel cuore della città, è stata blindata dalla tarda mattinata. Molti negozi hanno abbassato le saracinesche subito dopo pranzo: diversi commercianti (alcuni vanamente) hanno tentato di proteggere ulteriormente le vetrine con pezzi di legno e cartoni. Alcune banche si sono protette con pannelli bianchi, professionali, inchiodati all’esterno. La partita cominciava alle 20.30. Davanti al palazzetto sono stati schierati 400 tra poliziotti e carabinieri in assetto antisommossa: alle 18.45 l’arrivo del pullman israeliano è stato protetto da un fitto cordone delle forze dell’ordine. Il corteo dei manifestanti, che ha annoverato anche Potere al Popolo e i sindacati di base, si è dato appuntamento alle 18 in piazza Maggiore – tra i primi ad arrivare l’attivista egiziano Patrick Zaki – ribattezzata “Piazza Ga2a”. Lo slogan della manifestazione era “Blocchiamo tutto”. Con certi cervelli, bloccati da sempre, non c’è stato bisogno. Al corteo c’erano 5mila persone. La violenza è esplosa all’altezza di via Marconi dove i delinquenti hanno anche rovesciato i cassonetti per costruire barricate: una volta svuotati hanno cominciato a scagliare contro gli agenti bottiglie di vetro. Poi i cassonetti sono stati dati alle fiamme. Un gruppetto di manifestanti vestiti di nero ha sparato a ripetizione razzi-bengala contro le divise. La polizia è stata costretta a usare idranti e lacrimogeni. Per strada un fiume di bandiere della Palestina e alcune di Rifondazione Comunista. Tra via Reno, via del Pratello e via Bassi è stato l’inferno. Arrivano le prime reazioni politiche. Il capogruppo di Fdi alla Camera, Galeazzo Bignami (bolognese), ha tuonato: «L’estremismo incendiario generato dal Pd e dal suo sindaco, con la complicità dei pro-Pal, sfociano ancora nella violenza». Intanto i violenti provano a sfondare la “zona rossa” organizzata per difendere i cittadini. In via Rivareno, alle 21, la prima inevitabile carica della polizia. Nella rossa Bologna, città in cui l’amministrazione di sinistra tollera tutto, sarà un’altra lunga notte di delinquenza.
Il ritorno stonato di Patrick Zaki
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di Daniele Dell'Orco
Il ritorno stonato di Patrick Zaki
Come sono lontani i tempi in cui, all’indomani del 7 ottobre, le posizioni anti-israeliane di Patrick Zaki mettevano in imbarazzo la sinistra. Ora la sinistra che s’è conformata a Zaki. E l’ha redento. Sul Manifesto, l’attivista, ieri in piazza a Bologna tra i manifestanti pro-Pal, ha parlato della partita di Eurolega Virtus-Maccabi come se avesse smascherato un complotto mondiale. La sua tesi è che la gara della Champions di basket sia stata una sorta di messinscena organizzata dal governo israeliano per ripulirsi l’immagine: il famoso sportwashing. Ma cosa c’entra la partecipazione di squadre israeliane ad una competizione storica, e perdipiù in trasferta, con lo sportwashing? Nient’altro che un modo per paragonare Israele alle autocrazie. Da un lato usa il vergognoso riferimento alle Olimpiadi del ’36 nella Germania nazista, dall’altro denuncia il “doppiopesismo” con la Russia, esclusa dalle competizioni sportive. Un “e allora la Russia?” vuoto e infantile. Poi, a proposito di nazismo, c’è Bologna, trasformata nell’articolo in eroe tradito nei suoi valori antifascisti. Zaki scrive che Bologna ha venduto l’anima. Ma una città non è un monolite. La soluzione proposta — boicottare la partita — è il colpo di teatro finale: se il mondo è complicato, semplifichiamolo con un bell’esilio da qualche altra parte. È l’idea dello sport come palcoscenico da chiudere a seconda degli astanti, anziché spazio vivo in cui ci si incontra. Com’è sempre stato nel corso della storia. Quella che si studia. Non si interpreta.
La polizia incrimina la legge assolve
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di Mario Sechi
La polizia incrimina la legge assolve
La violenza metropolitana è lo specchio dei tempi: negli anni Settanta e Ottanta la ribellione era ideologica, l’assassinio era politico, lo scontro in piazza un mezzo della rivoluzione. La fantasia al potere non ci arrivò mai e gli anni furono più lugubri che formidabili, consumati in un lampo e non di genio. Venne presto il tempo che i sociologi della sinistra consegnarono alla storia come degrado dell’ “edonismo reaganiano” e corruzione della “Milano da bere”. Avevano un problema con Ronald Reagan e Bettino Craxi e finirono travolti dal Muro di Berlino. Il conflitto sociale continuò nelle curve degli stadi, con la febbre del tifo e la sbronza da ultrà, una cosa da scazzottata al bar e in autogrill, gol e sangue, trasferta e pestaggio. Nella confusione dell’alcol, trent’anni dopo, sono usciti dai sarcofaghi della storia gli antisemiti, gli ignoranti con la kefiah, al fianco di Hamas e contro gli ebrei (anche ieri sera a Bologna), è sempre la stessa compagnia di giro, dal libretto rosso di Mao ai manifesti di Hezbollah. Come in un videogioco, alla penultima schermata, è comparso il mostro, figlio di una mutazione genetica che parte dal “cattivo maestro” e arriva al “maranza”, un triplo salto mortale senza rete, dagli “anni di piombo” al week end con il coltello in Corso Como. Segni particolari, il cervello vuoto. È questa piovra di ignoranza il fatto semi-nuovo (la “grande noia” non è inedita) che impegna la destra (al governo) e fa sbandare la sinistra che ha perso la bussola della sicurezza fino a disorientare i suoi sindaci. Milano ha vissuto cronaca ben più nera, stragi e esecuzioni, ma l’invasione del piccolo crimine con grande impatto è capillare, tra italiani, stranieri e oriundi, prime e seconde generazioni, buone famiglie e cattive abitudini, delinquenza e scemenza, c’è molto lavoro da fare. E la magistratura militante, che indaga e sentenzia con l’ideologia, quella che scarcera all’istante anche quando si tratta di delinquenti presi con le mani nel sacco, non è la soluzione, ma parte del problema. Mi ricordo il poster di un film poliziesco del 1973 con Franco Nero: «La polizia incrimina. La legge assolve». Arrestateli. E teneteli dentro.
«No al basket israeliano» Scontri in piazza a Bologna la polizia usa gli idranti
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di Enza Miriami
«No al basket israeliano» Scontri in piazza a Bologna la polizia usa gli idranti
Bombe carta, petardi, cassonetti e persino il materiale del cantiere per la costruzione del tram usati come barricate contro il cordone delle forze dell’ordine schierate attorno alla “zona rossa” del PalaDozza. Quello che si è verificato ieri, in pieno centro a Bologna – in occasione della partita di pallacanestro tra la Virtus e il Maccabi Tel Aviv – è stato uno scenario di guerriglia urbana. Disordini che erano già stati preannunciati dal sindaco di Bologna Matteo Lepore, che aveva provato a spostare il match per questioni di ordine pubblico, senza però ottenere risultati. Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi invece aveva ribadito la sua l’irremovibilità: la partita si sarebbe giocata al PalaDozza. Alla fine, il prefetto ha assicurato al sindaco che ci sarebbero state le condizioni di ordine pubblico e rispetto dell’incolumità dei cittadini per poterla svolgere. E circa cinquecento tra poliziotti, carabinieri e finanzieri in assetto antisommossa sono stati schierati attorno al palazzetto, supportati da mezzi blindati e idranti dispiegati per contenere così il corteo partito da piazza Maggiore, ribattezzata per l’occasione piazza Ga2a. Con palloni da basket «insanguinati», bandiere della Palestina, cartellini rossi e uno striscione «Show Israel the red card» oltre cinquemila manifestanti – tra loro Potere al Popolo, sindacati, giovani palestinesi e anche l’attivista egiziano Patrick Zaki protestano contro la scelta di ospitare una squadra israeliana. Dai microfoni si sentono urla come «Blocchiamo tutto», «Governo Meloni dimissioni!», «Se non cambiamo, intifada pure qua».
Gaza, zone verdi senza presenza di membri Hamas
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Gaza, zone verdi senza presenza di membri Hamas
GLI USA stanno elaborando piani per costruire delle “zone verdi” nella Striscia di Ga2a, ovvero comunità per i palestinesi sul lato israeliano della linea gialla, inviando ingegneri e iniziando a bonificare i siti nella speranza di allontanare i civili dalle aree controllate da Hamas. Lo scrive il Wall Street Journal sostenendo che si tratta di un tacito riconoscimento del fatto che il disarmo di Hamas e la privazione della sua autorità non verranno raggiunti a breve, come richiesto dal piano di pace in 20 punti elaborato dal presidente Trump. Secondo quanto riferito al Wsj squadre di ingegneri stanno lavorando alle nuove aree al Centro di coordinamento civile-militare.
Miliziani di Hamas in fuga dai tunnel di Rafah: catturati o uccisi
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di Rosalba Reggio
Miliziani di Hamas in fuga dai tunnel di Rafah: catturati o uccisi
In Cisgiordania continuano gli attacchi dei coloni contro i civili palestinesi In Libano uccise da Israele dalla tregua 331 persone, circa un morto al giorno Medio Oriente Da tempo bloccati nei tunnel sotto Rafah, la sorte di circa 200 miliziani di Hamas resta ancora incerta. Dopo le pressioni americane perché i guerriglieri potessero avere un passaggio sicuro verso l’area ancora controllata dalla organizzazione islamista e il secco no di israele, ieri 15 di loro sono usciti da diversi imbocchi nella parte orientale di Rafah e quella meridionale di Ga2a, ma sono stati attaccati dalle forze israeliane. L’aeronautica militare ha colpito e ucciso sei di loro e le truppe della Brigata Nahal ne hanno catturati 5 che si erano arresi. Altri sono riusciti a scappare. Mentre i prigionieri sono stati condotti in Israele per essere interrogati dallo Shin Bet, l’esercito ha continuato le ricerche degli altri uomini scandagliando la zona. Nonostante le violazioni continue all’accordo di pace, il governo israeliano ha deciso di istituire un team ristretto di ministri per procedere nella seconda fase dell’accordo mediato da Trump. Nel gruppo, il responsabile degli Esteri Gideon Sa’ar, quello della giustizia Yair Levin e i due ultranazionalisti Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich. Tra tutti, l’unico a non aver contestato pubblicamente l’accordo è Levin. Smotrich, some riportato da Haaretz, avrebbe invece attaccato Netanyahu per il piano, accusandolo di aver perso un’occasione per «liberarsi delle catene di Oslo». Forti le critiche anche di Ben Gvir, mentre Sa’ar, come risulta da Times of Israel, sarebbe favorevole pur non accettando la creazione di uno «Stato terrorista palestinese» nella Terra di Israele. Sempre difficili le condizioni della popolazione civile nella Striscia. Sebbene dalla tregua stiano entrando più rifornimenti alimentari, fa sapere il Pam (Programma Alimentare Mondiale) il cibo resta insufficiente per coprire il bisogno e le piogge invernali rischiano di rovinare le derrate consegnate. Intanto, come tutti i venerdì, Israele ha chiuso per festività i valichi di frontiera con l’Egitto, bloccando l’ingresso degli aiuti. Anche le violenze non si fermano. Ieri Medici Senza Frontiere ha fatto sapere che i suoi team continuano a soccorrere donne e bambini feriti agli arti o alla testa. Una strage, quella dei civili, che ha colpito soprattutto i bambini, Dall’inizio della tregua, ha dichiarato il portavoce dell’Unicef Ricardo Pires, a Ga2a sono stati uccisi circa due bambini al giorno. Non trova pace neanche la Cisgiordania. Come riportato dall’agenzia Wafa, ieri sono stati diversi gli attacchi dei coloni israeliani. Ad Abu Falah, a nord di Ramallah, avrebbero dato fuoco a un edificio agricolo dopo avervi scritto sopra slogan razzisti. Un incendio doloso ha colpito anche sei case in costruzione vicino a Nablus. Un gruppo di coloni sarebbe poi entrato anche in un villaggio a est di Betlemme e i soldati che li accompagnavano avrebbero usato gas lacrimogeni per disperdere i residenti che cercavano di intervenire. L’agenzia segnala inoltre la creazione di un insediamento illegale vicino a Khan al Ahmar, a est di Gerusalemme. Per gestire le violenze, ma anche per le crescenti pressioni dell’amministrazione americana che teme di compromettere l’accordo di pace, Netanyahu ha ieri convocato un gabinetto per discutere del problema. Ma le morti non si fermano. Ieri l’Idf ha ucciso due adolescenti durante una incursione notturna e un agente di polizia palestinese. Ma anche in Libano, a quasi un anno dal cessate il fuoco, si continua a morire. Secondo il ministero della Sanità libanese sarebbero state uccise dalla tregua da Israele 331 persone, cioè circa un morto al giorno.
Metamorfosi Medio Oriente
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di Goffredo Buccini
Metamorfosi Medio Oriente
Ruhollah Khomeini pensava in grande: «Io spero che potremo alzare la bandiera dell’Islam in tutto il mondo». E, in grande, odiava: «Se un miliardo di musulmani levasse la propria voce, i sionisti avrebbero paura delle loro acclamazioni». Annientare gli ebrei, «profanatori dei luoghi sacri», è divenuto così uno dei capisaldi della rivoluzione iraniana dentro cui si mescolano dal 1979 terzomondismo e rinascita sciita, teocrazia populista e repressione popolare. Coerentemente a questo progetto di espansionismo escatologico, un gigante ridestato come l’Iran ha sviluppato la sua sfera di influenza da Teheran a Damasco, da Baghdad a Beirut, con relativo sbocco sul Mediterraneo garantito da Hezbollah e propaggini sulle rotte del Mar Rosso tramite i ribelli Houti; diventando, nonostante lo scisma religioso, protettore dei sunniti di Hamas a Ga2a. È questa, sulla mappa della geopolitica del terrore, la Mezzaluna Sciita che il 7 ottobre 2023 ha giocato la sua grande scommessa: chiudere la partita con Israele mentre l’odiata «entità sionista» era più debole, perché divisa (da un anno ogni sabato mezzo Paese manifestava in piazza contro il premier Netanyahu e la sua sciagurata riforma della giustizia). Il pogrom nei kibbutzim pacifisti e la mattanza al Nova Festival hanno un profilo preciso: dovevano essere il clic d’un attacco simultaneo dei Proxy e del loro dante causa iraniano per cancellare la Stella di David e creare un’unica Palestina «libera dal fiume al mare», ovvero liberata dagli ebrei, come vaneggiano in Occidente i nostri inconsapevoli ragazzi pro Pal nei cortei e nelle università. Ma Israele non muore, si rialza e reagisce: l’azzardo è fallito. E da questo fallimento prende le mosse Il nuovo Medio Oriente di Giovan Battista Brunori, corrispondente della Rai da Gerusalemme e cronista valoroso (le oltre duecento pagine del libro — pubblicato da Belforte Editori — seguono il percorso dei suoi reportage sul campo, arricchite dai servizi televisivi visibili scansionando con lo smartphone i codici QR). Alle tre del mattino del 13 giugno 2025 suonano le sirene, i caccia israeliani attaccano Teheran mirando a distruggere i siti nucleari dove, nonostante promesse e sanzioni, gli scienziati degli ayatollah continuano ad arricchire l’uranio ben al di sopra dei limiti per uso civile. Manca poco alla bomba? L’idea di un ordigno di distruzione di massa nelle mani di un regime canaglia mette i brividi ma, per ora, può essere riposta nell’archivio degli incubi. L’attacco israeliano ha l’effetto di trascinare con sé anche Trump. L’erratico presidente americano, che fino a poco prima stava trattando con gli ayatollah, decide di saltare sul carro vittorioso di Netanyahu e domenica 22 giugno manda i suoi B-2 a bombardare la centrale nucleare sotterranea di Fordow con le GBU-57, capaci di penetrare per decine di metri gli strati di cemento dei bunker prima di esplodere. È finita? Forse no. L’ayatollah Khamenei, successore di Khomeini, resta al comando, il regime vacilla ma non crolla, 400 chili di uranio arricchito sono stati forse trasferiti in un altro sito, gli scienziati uccisi negli attacchi verranno rimpiazzati. La «guerra dei 12 giorni» non è risolutiva e ne vedremo forse un nuovo capitolo da qui a ottobre del 2026, data delle elezioni israeliane, cruciali per un premier che vive di guerra. Ma il programma nucleare è ritardato: e non è questo l’unico colpo. La Mezzaluna tramonta. Brunori ci racconta come Israele, superato lo choc, si ricompatti attorno al suo esercito di popolo. E come il mitico Mossad, scornato dal disastro del 7 ottobre, si riscatti con una serie di operazioni in stile Monaco ’72. Ecco dunque l’uccisione di Ismail Haniyeh, il capo politico di Hamas che invocava il sangue del proprio popolo «per irrorare la rivoluzione», in visita di Stato a Teheran; quella di Hassan Nasrallah
, carismatico leader di Hezbollah, a Beirut; l’operazione «walkie talkie» con cui i servizi segreti di Gerusalemme decapitano il gruppo terrorista facendo esplodere simultaneamente cinquemila cercapersone «truccati» in mano ai suoi miliziani; l’eliminazione di Yahya Sinwar, il cupo regista del 7 ottobre, a Ga2a. L’effetto collaterale è la caduta del feroce regime siriano di Bashar al Assad, non più protetto dalla solidarietà sciita nella regione. Regolati i conti almeno per il momento, è tempo di guardare indietro. Al massacro del 7 ottobre. Alle sue vittime. Ai 251 sequestrati nei tunnel di Ga2a. Agli stupri collettivi praticati da Hamas come arma. All’omissivo silenzio della comunità internazionale. Il racconto di Brunori — è giusto dirlo — si dipana in gran parte dal punto di vista israeliano: del resto la tragedia israelopalestinese è così divisiva da non lasciare grandi spazi di terzietà a chi vi si avvicini. Dunque, niente sconti per gli ospedali Nasser e Al-Shifa, certo bombardati dall’Idf ma infiltrati pesantemente da Hamas. E neppure concessioni ai giornalisti palestinesi — tante le vittime tra loro — talvolta così «embedded» tra i miliziani da assumere un ambiguo doppio ruolo. Anche la strategia della fame, con cui il governo estremista israeliano tenta di piegare Ga2a dal marzo 2025, viene contestualizzata forse al di là del plausibile: vero che Hamas strumentalizza gli aiuti, vero che l’Onu spesso abbandona le derrate nei centri di stoccaggio (Brunori stesso lo documenta a Kerem Shalom), ma è indiscutibile che il sistema dei contractor messo in piedi da Israele in soli quattro punti di distribuzione a sud della Striscia travalichi qualsiasi criterio di umanità e dignità. E, tuttavia, il libro non esce mai dai suoi canoni di onestà cronachistica, rifuggendo i luoghi comuni. Ed è la sua cifra migliore. Le colpe di Netanyahu, l’ex «Mister Sicurezza» che ha fallito; le violenze dei coloni e le connivenze dei politici messianici a West Bank; la vittoria propagandistica di Hamas che, pur sconfitto dalle armi, torna a rendere l’antisemitismo veleno corrente nel mondo: tutto si tiene mentre rispolveriamo gli Accordi di Abramo, unica formula possibile per cercare la convivenza tra ebrei e musulmani nella regione, un’integrazione necessaria. Il nuovo Medio Oriente si staglia nella tregua a Ga2a e nella provvidenziale liberazione degli ultimi ostaggi. Ma resta sullo sfondo, tra americani, israeliani e monarchie arabe, un convitato di pietra, silente. Il regime di Teheran, contestato fin nel costume dalla sua stessa gente (persino con un matrimonio all’occidentale non represso dalla polizia morale), in bilico tra destini tutti possibili e aggrappato alla forza economico-militare dei suoi pasdaran: l’ultimo spicchio, forse, di ciò che fu una mezzaluna.
Virtus-Maccabi, scontri al corteo pro Pal
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di Andreina Baccaro
Virtus-Maccabi, scontri al corteo pro Pal
I timori del sindaco di Bologna Matteo Lepore alla vigilia della partita di basket tra la Virtus e il Maccabi Tel Aviv, alla fine si concretizzano: per ore ieri sera il centro della città è stato messo a ferro a fuoco da alcuni gruppi di manifestanti staccatisi dal corteo Pro-Palestina. Mentre al PalaDozza si giocava il match, in un clima surreale, tra spalti vuoti e la zona rossa istituita fuori dal palazzetto per non far arrivare i manifestanti, un corteo di circa 6 mila persone ha sfilato al grido di «Palestina libera», «Fuori Israele da Bologna», «Meloni stiamo arrivando», «Piantedosi amico di Israele». La manifestazione era stata convocata da diverse sigle di centri sociali e sport popolare che chiedevano da giorni che il match non si giocasse, ma è stata partecipata anche da molti cittadini. Il sindaco aveva insistito perché la partita fosse rimandata e spostata fuori città, visto che il palazzetto che di solito ospita le partite di basket delle due squadre cittadine, è in pieno centro e nel cuore dell’area interessata dai cantieri del tram. Ma il Viminale si è opposto e ha dispiegato un contingente di 400 uomini per cinturare l’area della struttura. Il Comune, non senza polemiche, si è adeguato, con ordinanze di chiusura delle strade e delle scuole adiacenti. «Questa è la Bologna degna — gridano al megafono del corteo —, che sta dalla parte giusta della storia, che sta con la Palestina, non con questo governo guerrafondaio e amico di Israele». «La partita della vergogna», come l’hanno definita i manifestanti, si è giocata, ma fuori, mentre un pezzo del corteo cercava di avanzare pacificamente, un altro pezzo si è fronteggiato con le forze dell’ordine in assetto antisommossa per ore. Prima all’incrocio tra via Marconi e via Lame, che porta proprio al palazzetto, dove contro la polizia sono stati lanciati fumogeni, bombe carta, uova, razzi con un lanciarazzi. Gli agenti hanno risposto con lacrimogeni senza caricare. È arrivato poi l’idrante che, a suon di bombe d’acqua, ha spezzato il corteo. A quel punto alcuni gruppi di manifestanti, incappucciati, hanno messo su barricate, dato alle fiamme cassonetti, divelto transenne dai cantieri. I disordini sono proseguiti per un paio d’ore, finché l’ultimo gruppo di violenti non è stato caricato e disperso. Tra le forze dell’ordine si contano otto feriti, nessun fermo, ma 15 manifestanti sono stati identificati dalla Digos. Intanto la Virtus batteva la squadra israeliana per 99 a 89, ma a Bologna non c’era nulla da festeggiare: mentre il fumo e l’aria resa irrespirabile dai lacrimogeni si diradavano, tra le strade del centro restavano cantieri saccheggiati, auto danneggiate, cestini delle spazzatura divelti e barricate infuocate. «Lo sport e la cultura sono ponti: solo nelle menti più piccole possono trasformarsi in terreno di violenza. Purtroppo in queste ore Bologna si tinge di un’altra triste pagina di intolleranza e violenza» attacca la sottosegretaria alla Cultura, bolognese, Lucia Borgonzoni. Oggi si conteranno i danni ma sarà anche il giorno delle polemiche.
La sponda di Trump per Mamdani: «Su molte cose la pensiamo uguale»
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di Viviana Mazza
La sponda di Trump per Mamdani: «Su molte cose la pensiamo uguale»
Non è stato semplicemente un incontro «civile» come aveva previsto Trump in mattinata. Al presidente è piaciuto molto Zohran Mamdani, al punto che la tv di destra Fox osservava ieri sera che «JD Vance dovrebbe essere geloso, perché sembra che Trump voglia Mamdani come vice». Trump in passato aveva minacciato di tagliare i fondi federali se New York avesse eletto «quel comunista» (in realtà è un socialista democratico), ma dopo averlo incontrato ieri è arrivato a dire che «sarebbe totalmente a suo agio» a vivere a New York con Mamdani sindaco. «Sareste sorpresi da quante cose abbiamo in comune», ha aggiunto. «Sorprenderà i conservatori». Ha promesso di aiutarlo a «rendere New York di nuovo grande» e «Meglio andrà, più sarò felice». Mamdani ha puntato su due cose per fare buona impressione: con una dose di adulazione — ma meno appariscente di tanti leader in visita — ha fatto capire che il proprio successo elettorale segue la scia di quello di Trump, dicendo che hanno in parte gli stessi elettori (e al presidente piace l’idea di essere popolare a New York) e perché al centro di entrambe le loro campagne elettorali c’è stata la lotta al carovita. Trump ha ricordato come gli elettori di Bernie Sanders votarono per lui (anziché per Hillary Clinton) nel 2016. In secondo luogo, Mamdani ha fatto leva sul fatto che Trump è un immobiliarista, gli piace costruire: il presidente ha detto di aver trovato «interessanti» le idee del prossimo sindaco sulla necessità di costruire alloggi. E New York li ha uniti: Trump ha detto che essere sindaco di New York era un suo sogno. Il presidente comunque era ben disposto perché stima i vincitori (e odia i perdenti) e Mamdani ha vinto, partendo dall’1%, come ha ricordato il presidente.Trump si è detto impressionato dalla calca di giornalisti fuori dalla Casa Bianca: «Vengono leader internazionali qui e non interessa a nessuno». E ha aggiunto: «Lui è diverso. Non è il tipico candidato che non ha nulla di eccitante». Stabilita l’intesa, Trump e Mamdani hanno parlato ai giornalisti l’uno seduto al Resolute Desk, l’altro in piedi alla sua destra, in completi blu, cravatte (rossa e e blu), ma l’uno con la spilletta della bandiera Usa e l’altro con l’anello del nonno ricevuto in Siria. Trump ha aiutato Mamdani ad evitare le domande più rischiose. Quando gli è stato chiesto se creda, come ha dichiarato una volta, che Trump sia un «fascista», il presidente è intervenuto per toglierlo d’impiccio: «È ok, rispondi di sì anziché stare a spiegare». Quando hanno chiesto a Mamdani perché sia arrivato in aereo anziché in treno o in autobus, il presidente è intervenuto spiegando che ha poco tempo e molto da fare. A una domanda sulle accuse passate di Mamdani al governo americano di aver contribuito al genocidio dei palestinesi, il sindaco ha replicato che si riferiva al «genocidio commesso dallo Stato israeliano e al nostro governo che lo finanzia, e ho espresso la preoccupazione che i newyorchesi vogliono che le loro tasse vadano a beneficio dei newyorchesi». Trump non ha detto nulla. Sull’immigrazione, Mamdani ha detto che vuole collaborare col governo federale su 170 crimini seri, non su casi di «una madre e i figli» (si riferiva alla recente violenta irruzione degli agenti anti-immigrazione dell’Ice in una casa del Queens). Qui Trump si è limitato a un appunto: «Abbiamo parlato di crimine, piuttosto che di Ice».