Rassegna stampa del 25 novembre 2025
La rassegna di oggi è segnata da un’ondata di narrativa ostile verso Israele, prevalentemente concentrata sulle vicende di Gaza e sull’eco internazionale del conflitto. Il Manifesto, Domani e La Stampa dedicano ampio spazio a racconti drammatici e accuse estreme: violenze nelle carceri, “complicità nel genocidio”, “stragi di affamati” e una presunta “grande emigrazione da Israele”. È una linea editoriale coerente con il loro posizionamento ma spesso priva di verifiche indipendenti.
Diverso il taglio del Foglio, che denuncia una nuova fatwa “accademica” partita dall’Iran contro Israele, mostrando come Teheran continui a mobilitare strumenti religiosi, culturali e universitari per alimentare l’ostilità anti-israeliana in Europa e negli Stati Uniti.
Sul piano geopolitico, il Riformista offre l’unica vera analisi strutturale della rassegna: Aldo Torchiaro spiega come la sicurezza di Israele si intrecci con la guerra in Ucraina e con il tentativo iraniano di espandere la propria influenza su entrambi i fronti. L’articolo evidenzia come un cedimento europeo su Kyiv avrebbe ricadute dirette sulla deterrenza di Israele.
Sul fronte politico interno italiano, il Tempo e Repubblica parlano della frattura dentro i Giovani PD sul tema “Sinistra per Israele”: l’immagine che emerge è quella di una sinistra divisa, dove una parte contesta Fiano, mentre altri giovani dem lo difendono apertamente.
Chiude la rassegna un altro articolo del Manifesto, che accusa Israele di aver “umiliato il Libano” con i bombardamenti su Beirut. Anche qui, il linguaggio è fortemente accusatorio e ignora le responsabilità operative di Hezbollah nelle aree colpite.
Nel complesso, la selezione stampa del 25 novembre è sbilanciata verso narrazioni di denuncia, con il Riformista e il Foglio come unici punti di equilibrio analitico. Il quadro internazionale resta teso, ma la postura israeliana emerge come coerente davanti a un ambiente mediatico spesso ideologico e ostile.
La strada di Israele incrocia il bivio dell`Ucraina
Torchiaro firma l’analisi più lucida e strategica del giorno: mostra come la tenuta dell’Occidente in Ucraina incida direttamente sulla sicurezza israeliana e sulle ambizioni iraniane. Un pezzo chiaro, documentato, che colloca Israele nel quadro geopolitico reale e non retorico.
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di Aldo Torchiaro
La strada di Israele incrocia il bivio dell`Ucraina
Rompere con il Cremlino significherebbe compromettere la sicurezza del fronte nord dello Stato ebraico esponendolo alle manovre di Teheran. Per questo gli aiuti a Kyiv non hanno mai incluso l’Iron Dome. Gli israeliani in tregua guardano all’Ucraina. Preoccupati, indignati, perfino. Ma necessariamente prudenti. La guerra in Ucraina, il piano negoziale promosso da Donald Trump e accolto con favore da Vladimir Putin, e la prospettiva di una “pace imperfetta” stanno riaccendendo un dibattito complesso dentro Israele. A prendervi parte, la stampa nazionale, la politica e l’opinione pubblica. Israele è in una posizione unica: profondamente radicato nel campo democratico occidentale, legato agli Stati Uniti da un rapporto strategico senza equivalenti, ma costretto al tempo stesso a mantenere un equilibrio con la Russia, attore ancora influente nell’area siriana. a pag. 6 Aldo Torchiaro G li israeliani in tregua gu ard a no all ’ Ucra i n a . Pre o ccu pa ti , i nd ig n a ti, perfino. Ma necessariamente prudenti. La guerra in Ucraina, il piano negoziale promosso da Donald Trump e accolto con favore da Vladimir Putin, e la prospettiva di una “pace imperfetta” stanno riaccendendo un dibattito complesso dentro Israele. A prendervi parte, la stampa nazionale, la politica e l’opinione pubblica. Israele è in una posizione unica: profondamente radicato nel campo democratico occidentale, legato agli Stati Uniti da un rapporto strategico senza equivalenti, ma costretto al tempo stesso a mantenere un equilibrio con la Russia, attore ancora influente nell’area siriana e interlocutore obbligato nella gestione delle minacce iraniane oltre il Golan. La stampa israeliana, negli ultimi giorni, offre un quadro nitido di questa tensione. Da Haaretz a The Times of Israel, da Israel Hayom a Maariv, il tratto comune è chiaro: Kyiv merita sostegno. Lo merita per ragioni morali – il Paese è stato aggredito, come fu aggredita Israele il 7 ottobre – ma anche per ragioni politiche, perché una vittoria russa o un accordo punitivo creerebbero un precedente destabilizzante in un mondo già attraversato da revisionismi territoriali. Nei giorni scorsi The Times of Israel ha riportato una frase che sintetizza bene il sentire israeliano: «La guerra della Russia contro l’Ucraina è una minaccia esistenziale per l’Europa. Tutti vogliamo che finisca. Ma come finisce conta». Al tempo stesso, i media israeliani sottolineano ciò che distingue Israele dagli altri alleati occidentali. Haaretz lo ripete da mesi: la Russia resta decisiva in Siria e gestisce il delicato meccanismo di deconfliction che permette allo Stato ebraico di colpire obiettivi iraniani senza provocare escalation. Per Israele, rompere frontalmente con il Cremlino significherebbe compromettere la sicurezza del fronte nord, esponendo il Paese alle manovre di Teheran e Hezbollah. È per questo che gli aiuti a Kyiv, pur non essendo mai venuti meno, non hanno incluso sistemi d’arma strategici come l’Iron Dome. Se la realpolitik impone cautela al governo, il cuore della popolazione è invece con Kyiv. La maggioranza degli israeliani considera la Russia l’aggressore e l’Ucraina la vittima, e non mancano le manifestazioni di solidarietà. Ci sono ragioni storiche – milioni di persone provenienti dall’ex URSS, molti dei quali ucraini – e ragioni identitarie: Israele comprende bene cosa significhi difendere la propria sovranità sotto minaccia. Nei social, nei talk show e nelle interviste, il sostegno emotivo a Kyiv è molto evidente. E non di rado la stampa ricorda il parallelo implicito tra la resistenza ucraina e la resilienza israeliana. In questo quadro la linea israeliana si definisce con sempre maggiore chiarezza: sostegno politico e morale a Kyiv, nessuna rottura frontale con Mosca, attenzione quasi ossessiva alla postura americana. È la realpolitik di Tel Aviv, tradotta in scelte concrete. Benjamin Netanyahu incarna perfettamente questo equilibrio: condanna l’aggressione russa, evita però sanzioni pesanti contro il Cremlino e frena da sempre su forniture militari decisive all’Ucraina per non compromettere la libertà d’azione israeliana nei cieli siriani, dove la Russia resta il controllore di fatto dello spazio aereo e del margine di manovra contro l’Iran e Hezbollah. In questo contesto la Corte penale internazionale, non riconosciuta da Israele, è stata messa in condizione di serio disagio dalla campagna antisraeliana portata avanti in Europa: il fronte pro-Hamas ha raggiunto i suoi obiettivi, riuscendo a collocare Israele sullo stesso piano di Putin in quanto a condanne e a incrinare la percezione di un occidente compatto. La frattura del campo occidentale è stata pensata, voluta e perpetrata con metodo. Così, mentre l’opinione pubblica israeliana simpatizza apertamente per Kyiv e guarda con inquietudine a un piano di pace che somiglia a una resa, la leadership politica continua a muoversi su un crinale strettissimo: tenere la barra saldamente allineata a Washington – anche quando la regia è quella di Donald Trump, l’alleato che più di tutti ha segnato la diplomazia israeliana negli ultimi anni – senza provocare una reazione russa che potrebbe ridisegnare, a svantaggio di Israele, gli equilibri già fragilissimi del fronte nord.
Dall’Iran arriva una mega fatwa accademica contro Israele
Meotti segnala un fenomeno importante e sottovalutato: l’uso politico dell’accademia e della religione da parte dell’Iran contro Israele. Il contenuto è utile e ben informato, ma il tono è a tratti allarmistico. Rimane comunque un contributo significativo e non ideologico.
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di Giulio Meotti
Dall’Iran arriva una mega fatwa accademica contro Israele
L’Iran mette una taglia sui docenti israeliani. Centomila dollari a chi uccide i nomi grossi. Dall’Iran arriva una mega fatwa accademica contro Israele Roma. Finora Teheran aveva messo una taglia su scrittori come Salman Rushdie, attiviste contro il velo come Masih Alinejad, ex funzionari americani come Mike Pompeo e John Bolton, rappresentanti delle comunità ebraiche come lo svedese Aron Verständig. Ci sarebbe la Repubblica islamica non soltanto dietro molti account che in due anni di guerra stavano postando notizie su Gaza e riprese dai media occidentali. Anche il sito apparso sul web che sta diffondendo liste di proscrizione contro decine di accademici israeliani sarebbe opera di Teheran. Pubblicano i loro dati personali e offrono ricompense per atti di intimidazione e omicidi. Le autorità israeliane definiscono “senza precedenti” per il livello di dettaglio, la portata delle minacce e l’esplicita incitazione alla violenza contro accademici israeliani. La pagina, sotto il nome di “The punishment for justice movement”, ha un tariffario: mille dollari per affiggere cartelli di protesta davanti alle loro abitazioni, ventimila per l’incendio di case o veicoli, cinquantamila per l’omicidio di un professore. La cifra raddoppia per quelli definiti “bersagli speciali”, ovvero figure di primissimo piano della comunità scientifica israeliana: Daniel Chamovitz, presidente della Ben Gurion University; Daniel Zajfman, ex presidente del Weizmann Institute e attuale presidente della Israel science foundation; Eliezer Rabinovici, fisico della Hebrew University ed ex rappresentante israeliano al Cern; Erez Etzion, direttore dell’Istituto di fisica delle particelle di Tel Aviv e Shikma Bressler, ricercatrice del Weizmann e voce centrale nel movimento di protesta contro la riforma giudiziaria. Molte di queste università erano state prese di mira lo scorso giugno nella “guerra dei dodici giorni” fra Israele e Iran, quando Teheran aveva lanciato i missili sui laboratori e le aule accademiche. Ora fotografie, indirizzi di casa, numeri di telefono, email, profili social e anche copie di passaporti e visti statunitensi escono non in un sito amatoriale, ma frutto di un’operazione di intelligence meticolosa. Le liste includono anche docenti e ricercatori che vivono fuori da Israele, soprattutto negli Stati Uniti e in Europa, ampliando il potenziale raggio d’azione della minaccia. Fra i nomi con una taglia c’è il professore di Scienza dei computer di Oxford, Michael Bronstein. Alla University of London, Michael Ben-Gad, professore di Economia, è stato qualche settimana fa contestato e aggredito in aula per aver prestato servizio nell’esercito israeliano negli anni Ottanta. Un manifestante ha minacciato di “decapitarlo”. Il prossimo potrebbe farlo per riscuotere una taglia. Da Sciences Po in Francia alle università in Germania e Inghilterra, nell’ultimo anno numerosi professori ebrei o israeliani sono stati aggrediti da gruppi filopalestinesi che si è poi scoperto erano eterodiretti da Teheran e Hamas. Anche l’assassino di Salwan Momika, il rifugiato iracheno che aveva bruciato il Corano in Svezia e ucciso a Stoccolma durante una diretta social, è scappato a Teheran. Bashar Zakkour, già coinvolto in altre attività criminali, è fuggito in Iran dopo aver assassinato Momika. Le Guardie rivoluzionarie dell’Iran avevano inviato quindicimila messaggi in svedese per chiedere la testa di Momika e il loro comandante in capo, Hossein Salami, aveva minacciato Momika: “Prima o poi la mano dei mujahed ti raggiungerà”. Ora rischiamo che raggiungano anche gli accademici israeliani in nome del “boicottaggio”.
Gaza, chi è complice del genocidio. La disperata speranza dei palestinesi
Un articolo totalmente schierato, che utilizza la categoria “genocidio” senza alcun fondamento giuridico né supporto fattuale. La narrazione è emotiva, unidirezionale e ignora sistematicamente il ruolo di Hamas, trasformando un contesto complesso in una requisitoria morale priva di rigore.
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di Tomaso Montanari
Gaza, chi è complice del genocidio. La disperata speranza dei palestinesi
Ouesto piccolo libro è diverso da tutti gli altri che ho scritto. Forse non mi onore, ma confesso che non ho mai perso il sonno per le tragedieche affliggono i nostri giorni: per quanto viscerale fosse il coinvolgimento, la notte è sempre stata uno spazio di quiete, e di ricarica . Ma con Ga2a . no: non è andata così . Le notizie, le immagini, le vod di Ga2a mi hanno travolto, come non mi era mai accaduto. E, a un certo punto, ho iniziato a non dormire: almeno . a non dormire più come prima- Credo che questo sia avvenuto per due ragioni, una generale e una personale. La prima è che ciò che continua a succedere a Ga2a non è una guerra, ma qualcosa di completamente diverso: è un genocidio. È, cioè, il tentativo —pianificato, ealmeno in partè attuato — di eliminare un intero popolo dalla faccia della Tena . Consapevolezza Mi sono sempre chiesto cosa avrei fatto se, nei primi armi quaranta del Novecento, avessi saputo di Auschwitz : come si poteva convivere con una consapevolezza del genere? E , bisogna aggiungere, come si sarebbe potuto appartenendo a un paese alleato di quello che compiva il genocidio? Perché questo è il punto. La guerra in Ucraina è spavento sa: ma non la stiamo facendo noi, la sta facendo quello che ogni giorno definiamo come un nemico, Vladimir Putm Possiamo e dobbiamo reagire, manifestare, condannare: nella nostra università abbiamo dato riparo e stipendi a colleglli ucraini in fuga dalle bombe, e a colleghi russi in fuga dalla dittatura. Ma, per quanto i nostri governi europei avrebbero potuto probabilmente incidere assai di più, salvando vite e forse ponendo fuie alla guerra, essi non sono compiici di Putm Nel caso di Ga2a , invece, sì : i nostri governi sono alleati di quello che compie il genocidio. Continuiamo a rimanere al fianco di Israele, blocchiamo le sanzioni, vendiamo e compriamo strumenti di guerra. La Repubblica italiana non era mai stata trascinata in un simile abisso morale. E ognuno degli innocenti assassinati a Ga2a pesa anche sulla nostra coscienza nazionale. E questo è sconvolgente. La seconda ragione per cui ho iniziato a non dormire, è stato il contatto diretto con le persone di Ga2a. In particolare, congli studentiele studentesse che chiedevano di poter uscire dall’assedio, venendo in Italia . La prima è stata una giovane studiosa. Aya Asnour, con la quale sono stato in contatto dall’aprile 2024, che finalmente è arrivata in Italia nel giugno 2025, e che ora ha un contratto di ricerca nella università di cui sono rettore. La sua esfiltrazione, portata a termi ne dall’Unità di crisi della Farnesina e dalla nostra ambasdata ad Amman, è stata l ‘ esperienza sulla quale è stato poi costruito Ü corridoio universitario che ha portato in Italia 150 studenti. Le mailei messaggi WhatsApp di Aya , e poi quelli di un numero crescente di altre ragazze e ragazzi di Ga2a, mi hanno sprofondato in una realtà inimmaginabile: quella che vedevamo ³ï tv o sui social, ma ora declinata attraverso vite concrete: volti, voci e testi che prendevano forma nel mio telefono, specie la sera e la notte, quando a Ga2a si riusciva ad avere energia elettrica e segnale. È stata una abissale lezione di dignità e grazia: mai al loro posto sarei riuscito ad avere un dedmo di quelle che segnavano i loro messaggi Alcuni di toro si firmavano «con disperata speranza»: la formula che spiega perché oggi – mentre ancora imperversano fame e malattie, mentre Israele continua a uccidere, mentre l’Onu seppellisce la speranza di una autodeterminazione palestinese — a Ga2a si fa musica. si fa arte, si restaurano i monumenti: disperata speranza di un popolo maestro di sumurf, di resistenza. E cosi, mentre si lavorava per strappare almeno qualche studente alla morsa del genocidio, è cresciuta la necessità — necessità innanzitutto morale — di una mobilitazione. Nell’aprile scorso — insieme a Paola Cariai, Claudia Durastanti. Micaela Frulli, Francesco Fallante, Evelina Santangelo e inizialmente anche a Giuseppe Mazza — abbiamo dato vita a Ultimo giorno di Ga2a, che ha promosso — dal basso, sulla rete, senza finanziamenti e sponsor politici — una serie di mobilitazioni che hanno visto una partecipazione incredibile. L’esposizione dei sudari. delle luci nella notte, il suono delle campane decine di migliaiadi persone, comuni, università, diocesi hanno aderito a un percorso che legava i margini del paese e dava voce ai senzapotere, nel silenzio dei media mainstream Persone comuni Quando, nei primissimi giorni di settembre. Ultimo giorno di Ga2aha proposto lo sciopero generale contro il genoci dio, siamo stati accolti dall’entusiasmodelle persone comuni, e da un’alzata di sopracciglio dei derisori: dopo nemmeno un mese, gli sdoperi generali per Ga2a sonostati due, seguiti da una manifestazione di proporzioni mai viste. Mentre tutto questo accadeva di giorno, di notte mi sono spesso trovato ascrivere: l’unico modo per provare a elaborare questa cosa enorme, cosi più grande di noi. E il libro che ora esce per Feltrinelli ne è il frutto, e lo racconta: con le nue parole, e con le tavole disegnate da Marco sauro per la campagna di Ultimo giorno di Ga2a, che abbiamo poi ritrovato nelle piazze, trasformate in cartelli e bandiere. Era fìntroppo ñÛàãî che il cosiddetto “piano di pace” di Trump (quello che ora dovremmo chiamare Trump-Putin-Onu) non avrebbe messo fine al genocidio, ma avrebbe messo fine alla copertura mediática su di esso. E che, con la copertura mediática, sarebbe venuta meno la dimensione di massa della mobilitazione. Il libro esce ora proprio per questo motivo: per contribuire a tenere accesa la luce e viva l’attenzione su ciò che succede a Ga2a, e in Cisgiordania. E per dare una mano, per quanto minuscola, a chi a Ga2a vive: i proventi dei diritti d’autore, e una afra identica offerta da Feltrinelli, andranno all’Associazione per la cultura e il libero pensiero (Culture and Free Thought Association, https://web.cfta-ps.org/), una delle reti di organizzazio ni per i diri tri umani più grandi e attive di Ga2a, che ha sede nella zona meridionale della Striscia, a Khan Younis, e che ha aperto anche un Centro sanitario femminile, supportato da Emergency sul piano medico e logistico. Cfta è guidata da un’assemblea generale composta da undici donne e otto uomini, e da un board dirigenziale di sei donne e un uomo tutto il contrario del potere maschile che genera guerra eogni tipo di violenza. Siamo ancora qui Pochi giorni fa, un ministro di Israele ha detto: «Non esiste un popolo palestinese: è un’invenzione priva di fondamento storico». Proprio in quel momento una giovane donna — Nada Anwar Rajah: un’ingegnere informatìca, di Ga2a, ma anche un’artista e una scrittrice — ha guidato un gruppo di bambine e bambini a dipingere sulle macerie. “We Are Still Here”, siamo ancora qui, è il nome di quel progetto: il genocidio, per ora, è fallito. Se anche noi siamo ancora qui — se riusciamo a essere ancora umani — è perché non abbiamo raduto, non siamo stati complid. E forse anche perché non siamo più riusdti a dormire.
Se l’uccisione di Tabatabai non suscita la levata di scudi dell’Onu è perché la realtà sta prevalendo
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di Iuri Maria Prado
Se l’uccisione di Tabatabai non suscita la levata di scudi dell’Onu è perché la realtà sta prevalendo
Sono condotti con successo e senza l’abituale insurrezione delle coscienze internazionali i recenti attacchi israeliani in Libano. Nel giro di alcune settimane le forze di difesa dello Stato ebraico hanno eliminato decine di esponenti di Hezbollah, appena oltre il confine e sino a Beirut; e, proprio negli ultimissimi giorni, le operazioni hanno portato all’uccisione di importantissimi quadri dell’organizzazione terroristica filo-iraniana. Tacciono, in buona sostanza, le diplomazie e i governi normalmente occhiuti su ogni movimento israeliano lassù, quelli che arrivavano a parlare di “crimini di guerra” per l’abbattimento di un cancello di Unifil. Sono raggomitolate le sensibilità onusiane che nei mesi scorsi denunciavano il pericolo di “escalation” a ogni colpo sparato da Israele in difesa della Galilea incenerita dai missili del “Partito di Dio”. Il segretario generale dell’Onu, António Guterres, almeno fino a ieri pomeriggio era affaccendato in chiacchiere social sul Congo, sulle energie rinnovabili, sul cambiamento climatico: svanito l’antico disappunto per l’improntitudine israeliana, cioè l’incresciosa decisione di Gerusalemme di non tollerare ulteriormente quegli inesausti bombardamenti dal nord. Come mai tutto questo? Verosimilmente si tratta dell’affermazione – contro quella retorica puntualmente mono-orientata – di un puro e semplice principio di realtà. Si sta forse comprendendo per il Libano ciò che – pur tardivamente – si è capito per Ga2a. Quando il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite si risolve a riconoscere che la Striscia radicalizzata e militarizzata dalle forze terroristiche costituisce un problema non per Israele, ma per i Paesi circostanti e per tutta la regione, preconizza un possibile cambio di atteggiamento che vale anche altrove. Cioè ovunque (come per esempio in Libano) il “potere di fatto” sia in mano a organizzazioni terroristiche distruttive, che corrompono le società, ne annullano le possibilità di sviluppo e le pervertono in un autismo sanguinario senza futuro. La guerra su sette fronti che Israele ha combattuto negli ultimi due anni (e il fronte libanese rappresentava forse quello più temibile) era la guerra che la comunità internazionale, si faccia attenzione, lasciava che quei sette fronti combattessero impunitamente contro Israele. La comunità internazionale – con la propria indifferenza, quando non con la propria complicità – faceva da holding sostanziale di quel consorzio d’accerchiamento. È intervenuta la forza della realtà a disarticolare quell’equilibrio. È per questo che l’assassinio a Beirut di Haytham Ali Tabatabai, numero due di Hezbollah, non diventa l’affare di diritto internazionale che sarebbe stato solo qualche mese fa.
Hezbollah non può rifiatare in Libano. Ogni nuovo comandante sarà ucciso
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di Paolo Crucianelli
Hezbollah non può rifiatare in Libano. Ogni nuovo comandante sarà ucciso
Israele ha il diritto di fare prevenzione per impedire che i terroristi sciiti si riarmino. Israele ha colpito nel cuore del quartiere di Dahiyeh, nella periferia sud di Beirut, una delle roccaforti storiche di Hezbollah. Il raid, avvenuto nel pomeriggio di domenica 23 novembre, ha preso di mira l’edificio identificato come “safe house” di Haytham ‘Ali Tabatabai, considerato il numero due del movimento sciita. L’operazione – condotta con un attacco aereo di precisione sull’esatto piano dell’abitazione – è la prima a Beirut da mesi e rappresenta una delle azioni più mirate dall’inizio della tregua del novembre 2024. La conferma della morte di Tabatabai è arrivata in serata da fonti israeliane e, poco dopo, anche da Hezbollah. Si tratta di uno dei colpi più duri inferti all’organizzazione dopo la lunga serie di eliminazioni che, tra il 2024 e il 2025, ha decapitato gran parte della leadership militare di Hezbollah. Tabatabai, ricercato dagli Stati Uniti con una taglia di cinque milioni di dollari, era stato designato “terrorista internazionale” già nel 2016. In base al cessate il fuoco mediato da Washington e Parigi nel 2024, Hezbollah aveva accettato – almeno sul piano formale – la graduale smobilitazione delle sue milizie nel sud del Libano e la consegna degli armamenti pesanti all’esercito libanese (LAF), in linea con la Risoluzione Onu 1701. La realtà sul terreno, tuttavia, smentisce puntualmente le dichiarazioni ufficiali. Secondo i rapporti dell’intelligence israeliana e di diversi osservatori internazionali, Hezbollah ha continuato a riorganizzare le sue unità operative, ricostruire depositi e infrastrutture logistiche, reintrodurre forze speciali e vettori d’attacco nascosti lungo la linea di interdizione, riallestire la catena di comando dopo ciascuna eliminazione mirata. Il raid su Tabatabai va letto dentro questo quadro. La strategia israeliana, ormai esplicita, è impedire che Hezbollah possa ricostruire un comando stabile dopo ogni perdita. Il messaggio è forte e chiaro: “Ogni nuovo comandante è un comandante morto”. È una linea che Israele ha adottato con crescente coerenza: impedire all’organizzazione di rifiatare, rendere temporanei e instabili tutti i vertici militari e mantenere Hezbollah in una condizione di precarietà permanente. Le fonti israeliane sostengono che l’operazione, denominata “Black Friday”, sia stata coordinata con gli Stati Uniti e pienamente conforme ai termini della tregua, poiché Tabatabai “continuava a dirigere attività terroristiche”. Gli Usa hanno interesse a evitare una nuova guerra totale nel nord di Israele e, quindi, ad accelerare la dismissione dell’apparato militare di Hezbollah. L’accordo del 2024 prevedeva un ruolo determinante per l’esercito libanese: ristabilire il controllo sul sud, rimuovere le forze non statali, garantire che Hezbollah arretrasse oltre il fiume Litani e si disarmasse. Il risultato, finora, è stato insufficiente. Non per cattiva volontà – il Libano resta uno Stato fragile, con istituzioni indebolite, un’economia in crisi e un governo costantemente ostaggio di equilibri confessionali precari. Disarmare Hezbollah equivarrebbe, per molti analisti, a innescare una guerra civile. E così, Gerusalemme sostiene che, se il Libano non è in grado di far rispettare gli accordi, allora Israele ha il diritto di agire preventivamente per impedire il riarmo del gruppo sciita e scongiurare una futura ripresa delle ostilità. È una posizione dura, ma coerente con la percezione israeliana della minaccia: un Hezbollah indebolito, con limitato accesso alle armi e con i vertici militari costantemente nel mirino, non può produrre una risposta offensiva adeguata. Il raid di Beirut non è solo un evento militare: è l’ennesimo indicatore della crisi strutturale del Libano. Nonostante segnali di maggiore assertività da parte del governo libanese e del suo esercito, il Paese rimane – nella sostanza – ostaggio di Hezbollah, della sua forza armata parallela e della sua capacità di influenza interna. Israele ha colto il momento per ribadire una dottrina ormai stabilita: nessun comandante, nessuna infrastruttura, nessuna catena di comando di Hezbollah è destinata a durare. E finché il Libano non sarà in grado di esercitare pienamente la sua sovranità, le operazioni mirate israeliane continueranno a rappresentare la principale modalità di contenimento del gruppo.
Da Gaza al Libano, non cessa il fuoco di Bibi
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di Umberto De Giovannangeli
Da Gaza al Libano, non cessa il fuoco di Bibi
Bombarda Gaza. Attacca Beirut. È la “pace” targata Benjamin Netanyahu. Torna a infiammarsi il fronte libanese. Le forze armate israeliane (le Idf) hanno già predisposto piani di risposta in caso di attacchi dal Libano in risposta al blitz in cui è stato ucciso a Beirut Haytham Ali Tabatabai, capo di stato maggiore di Hezbollah, e li definisce «sproporzionati». Lo scrive la testata israeliana Channel 12. Allo stesso tempo, Israele sta esortando il governo libanese a continuare a far rispettare l’accordo di cessate il fuoco e a disarmare Hezbollah a sud del Litania. Le forze di sicurezza israeliane stimano che l’assassinio di Tabatabai non porterà a un’escalation nei rapporti con l’organizzazione terroristica, scrive ancora la testata, ma sono preparate a qualsiasi scenario. Si stima che in Libano ci siano migliaia di missili e razzi, e quindi una delle possibili risposte all’assassinio è che una delle organizzazioni terroristiche in Libano effettui l’attacco al posto di Hezbollah. “Continueremo ad agire con tutte le nostre forze contro Hezbollah e a impedirgli di tornare a rappresentare una minaccia per i nostri cittadini”, ribadisce Netanyahu Israele dovrebbe stare attento alla risposta di Hezbollah all’omicidio, del leader militare del movimento sciita libanese Haytham Ali Tabatabai da parte delle Idf. È il monito lanciato dal leader del consiglio esecutivo di Hezbollah, sceicco Ali Daamoush. Parlando ieri al funerale di Tabatabai a Beirut, Daamoush ha affermato che «i sionisti dovrebbero essere preoccupati, perché hanno commesso un grave crimine contro la resistenza e contro il Libano». Riguardo a una soluzione diplomatica delle tensioni, Daamoush ha affermato: «Non ci occuperemo di alcuna proposta ?nché il nemico non si impegnerà a rispettare l’accordo di cessate-il-fuoco» che Israele e Hezbollah hanno raggiunto lo scorso novembre. Israele ha accusato il movimento sostenuto dall’Iran di aver violato l’accordo e sostiene che i suoi attacchi contro il gruppo servono a impedirne il riarmo. Alludendo alle pressioni degli Stati Uniti e di altri Paesi su Beirut af?nché disarmi Hezbollah, come previsto dall’accordo di cessate-il-fuoco, Daamoush ha aggiunto: «È dovere dello Stato difendere i suoi cittadini e la sua sovranità. Il governo deve elaborare piani in tal senso e respingere i diktat e le pressioni straniere». Non lasceremo le nostre armi, non lasceremo la nostra terra!”, hanno gridato i partecipanti al funerale, scandendo slogan contro Israele e gli Stati Uniti. Dal Libano alla Striscia. Sul terreno non si arrestano i raid israeliani, che secondo le autorità sanitarie della Striscia hanno provocato 24 morti sabato sera, riferisce Al Jazeera, e altri 4 ieri mattina, secondo l’agenzia palestinese Wafa. Gli attacchi israeliani su Gaza hanno causato la morte di 342 civili, per lo più bambini, donne e anziani, dall’entrata in vigore del cessate il fuoco il 10 ottobre. L’Ufficio stampa del governo di Gaza ha dichiarato che almeno 875 palestinesi sono rimasti feriti nelle ultime sei settimane.
lntervista a Hasan Kilani «in Israele c`è molta ipocrisia sui diritti Lgbtqi »
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di Francesca Saturnino
lntervista a Hasan Kilani «in Israele c`è molta ipocrisia sui diritti Lgbtqi »
L’autore giordano palestinese presenta oggi a Napoli la fanzine «I hear your silence», pubblicata da Fada II «Le discriminazioni che affrontiamo sono le stesse, in un luogo o l’altro del mondo, anche si manifestano diversamente, l’essenza dell’omofobia e della queer fobia è la stessa». Per questo il nostro deve essere un movimento transnazionale, mai come in questo momento siamo sotto attacco», dice Hasan Kilani, 35 anni, scrittore e attivista queer femminista giordano palestinese, trasferito a Londra. È in Italia per presentare I hear your silence, fanzine appena pubblicata da Fada, collettivo di reporter multimediali indipendenti italiani, basati in Italia e all’estero. L’obiettivo del progetto, che ha una forte componente fotografica con i ritratti di persone arabe queer nel loro quotidiano a cura di Daniela Sala, è creare ponti tra le sponde del Mediterraneo, spazi di visibilità, confronto tra attivisti e attiviste, associazioni, comunità locali. Dopo Milano, Roma e Trento, I hear you silence fa tappa a Napoli e Salerno per la quinta edizione di Mediterraneo contemporaneo, rassegna curata da Maria Rosaria Greco, quest’anno dedicata alla comunità queer di paesi come Palestina, Libano, Giordania, Egitto, Tunisia. Tre giorni di incontri, mostre, laboratori, per una narrazione decoloniale, tra cui la presentazione della fanzine oggi all’Accademia di Belle Arti di Napoli alle ore 16 e domani ai Morticelli di Salerno. Abbiamo sentito Hasan prima dell’arrivo a Napoli. Qual è la situazione dei diritti Lgbtqi+ in Giordania e nel mondo arabo? La Giordania è uno dei pochi paesi islamici in cui non esiste una legge contro le relazioni dello stesso sesso. Ma non siamo protetti. Se ti discriminano sul posto di lavoro, in ospedale, nell’appartamento dove vivi, nessuno può impedirlo. E c’è ancora più discriminazione contro i rifugiati e i migranti. Attivismo per me è soprattutto produzione di conoscenza, essere sicuri che come persone queer stiamo archiviando la nostra storia. La cultura dominante rifiuta da sempre il fatto che esistiamo, afferma che siamo frutto dell’influenza del mondo occidentale mentre esiste una storia del movimento queer nelle nostre regioni e una storia della poesia Lgbtqi+. Penso ai contributi di figure come Musa Al Shadeedi, scrittore e ricercatore iracheno che ha curato diversi libri sulla sessualità non normativa nel cinema arabo. In Giordania abbiamo cominciato condividendo spazi safe. Nel 2007 è nato My Kali Magazine, rivista online che raccoglie contributi in arabo: racconta di noi, cosa significa essere musulmano e queer. Oggi ci leggono da ogni regione del mondo arabo, e vi collaborano artisti arabi queer da ogni parte del mondo. Molti considerano Israele progressista in campo di diritti. Cosa ne pensi? Ogni anno spendono milioni per portare attivisti europei e americani al Pride, fotografarli, fare propaganda. Il mio punto di vista di palestinese cresciuto sotto il controllo militare israeliano è molto diverso. A 16 anni coloravo i capelli, tingevo le unghie, amavo gli orecchini, mi piaceva vestire come le persone che vedevo in tv. Ogni volta che mi fermavano ai check point mi umiliavano davanti a mia madre, ai miei concittadini: «È questo il tipo di uomo che libererà la Palestina?». In Giordania è stato più semplice provare a fare la differenza, in Palestina la vita è orribile per tutti, che tu sia gay, cristiano, donna, uomo, ti trattano come un rifiuto umano solo perché sei palestinese. Come vive una persona queer in Palestina? L’omofobia esiste, io sono privilegiato, supportato dalla mia famiglia, dalla mia comunità. Vorrei far riflettere sul fatto che la Palestina è una prigione a cielo aperto, tutto è controllato, non c’è accesso al mondo esterno, viaggiare è impossibile. Se metti le persone in prigione, come ti aspetti che ci sia progresso? I diritti umani che Israele garantisce, inclusi i diritti delle persone queer, valgono per israeliani, americani, europei, non per i palestinesi che vivono a due chilometri, dietro un muro. Come vedi la situazione attuale? Forse non è al livello del genocidio che abbiamo visto in questi due anni, ma viviamo nell’oppressione, con decine di palestinesi ammazzati ogni giorno. Questo è il nostro destino, lo scenario, dal 1948. In West Bank, zona «demilitarizzata» anni fa, in questo momento oltre quattrocento minori sotto i 18 anni sono detenuti in prigione. Quando dicono che in Israele il Pride è un segno di progresso, non pensano che ci siano bambini in carcere, leggi fasciste che sottomettono i palestinesi in uno sistema di apartheid fatto di muri e check point. Come fai a essere progressista con i diritti Lgbtqi+ e non estenderli a dei bambini?
La grande emigrazione da lsraele
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di Chiara Cruciati
La grande emigrazione da lsraele
Guerra, oppressione, riforma della giustizia: sempre più israeliani ebrei decidono di lasciare il Paese. Nel 2023 il numero è schizzato a 82.800, per mantenersi stabile nel 2024 II Guerra, oppressione, riforma della giustizia:sempre più israeliani decidono di andarsene. Nel 2023 erano 82.800, circa lo stesso nel 2024. La percentuale di rientri è appena il 29% delle partenze. Un’attivista: «Solo un pensiero mi frena: se noi andiamo via, resteranno solo coloni, nazionalisti e religiosi». Sono ovunque. Alle stazioni degli autobus e dei treni, appiccicati sui lampioni, sulle vetrine dei negozi e sui distributori automatici. Ricoprono anche le antichissime porte di ingresso alla Città Vecchia di Gerusalemme. Un mare di adesivi di ogni forma e misura: sono le foto di soldati israeliani morti nei vari fronti di guerra aperti da Israele negli ultimi due anni. Qualcuno sorride, qualcuno imbraccia il fucile, quasi tutti sono ritratti con l’uniforme. Ogni adesivo è corredato da un messaggio, più o meno stringato. Il più comune recita: «Possa Dio vendicare il suo sangue». Altri optano per versi della Torah, alcuni per l’incitamento all’unità di appartenenza del militare. C’è anche chi traveste la morte con l’ironia: «Non voglio un adesivo». UN FENOMENO sorto spontaneamente che ha via via oscurato i poster con i volti degli ostaggi a Gaza e l’appello «Bring them home». Se l’iniziativa resta privata (gli adesivi sono autoprodotti da famiglie e amici), la differenza salta agli occhi: oltre l’espressione collettiva di lutto, c’è la spinta militarista che caratterizza la società israeliana e c’è, soprattutto, l’invito a proseguire. A non chiudere i fronti bellici spalancati nella regione, la guerra permanente che nel caso di Gaza si è fatta genocidio. «Non dobbiamo fermarci», recita uno degli slogan più comuni degli adesivi. Sono sticker, eppure sono simbolo di un impulso sempre più acceso e radicale, lo stesso palesato dai proclami pubblici e le politiche del governo di ultradestra. E da cui una parte della società israeliana, silenziosamente, si sta allontanando. Letteralmente, fisicamente. «Negli ultimi mesi ho perso almeno quindici amici, sia israeliani che palestinesi, tutti attivisti. Se ne sono andati, sono emigrati all’estero, ci dice D., membro di un’ong per i diritti umani israeliana – Molti di loro hanno figli, non intendono crescerli qui, in questo tipo di società. Vanno via anche sostenitori del governo, in realtà: vivere in una zona di guerra permanente li spaventa». A. È UN’ATTIVISTA di lungo corso, impegnata da anni al fianco dei palestinesi. Dichiarata antisionista, da mesi tenta di vendere la sua casa per potersi trasferire all’estero. Non ha ancora trovato acquirenti. Una sua amica, S., ci rimugina da mesi: non vede l’uscita dal tunnel, «temo che sarà sempre peggio, che da razzismo e autoritarismo non si possa tornare indietro. Un unico pensiero mi frena: se noi ce ne andiamo, resteranno solo coloni, nazionalisti e religiosi». Il fenomeno dell’emigrazione ebraica israeliana sta crescendo tanto da spaventare lo stesso governo. Gli ultimi dati li ha forniti la Commissione per l’immigrazione della Knesset il 20 ottobre scorso: se già nel 2022 avevano lasciato il paese 59.400 israeliani (+44% rispetto all’anno precedente), nel 2023 il numero è schizzato a 82.800 per mantenersi stabile nel 2024. Nello stesso periodo è calato drasticamente il numero di israeliani di ritorno: 24.200 nel 2023, 12.100 tra gennaio e agosto 2024. La percentuale di rientri è appena il 29% delle partenze, aggiunge la Commissione, per un totale di 130mila israeliani ebrei in meno da inizio 2022 a metà 2024, su sette milioni totali (comprensivi dei 700mila coloni illegali tra Gerusalemme est e Cisgiordania). IL PRESIDENTE della Commissione, il deputato laburista Kariv, l’ha definita «non un’ondata, ma uno tsunami…oggi un milione di israeliani vive in paesi stranieri». Le ragioni, in sede di Commissione, non sono state affrontate, per lo meno non ufficialmente. E i numeri, secondo vari osservatori, sarebbero sottostimati: difficile tenerne traccia in tempi così stretti, ma fonti stampa – tra cui il quotidiano The Times of Israel citando nel 2024 la Population Authority – hanno parlato addirittura di mezzo milione di espatri. Certa è la tendenza, da tempo gli emigranti superano le nuove cittadinanze. Chi la materia la studia da anni è Yinon Cohen, sociologo alla Columbia University. In una ricerca pubblicata a giugno a quattro mani con Kaiting Zhou, spiega che «l’aumento dell’emigrazione iniziato prima di ottobre 2023 potrebbe essere collegato alla riforma giudiziaria avviata a gennaio 2023. L’impatto a breve termine dell’attacco del 7 ottobre sull’emigrazione israeliana è ancora più pronunciato». Se il numero di israeliani che ha lasciato il paese nel 2024 è doppio rispetto al 2022, Cohen traccia un parallelo con la Seconda Intifada, altro periodo di fuga consistente: all’epoca i tassi di emigrazione che raggiunsero l’apice nel 2001 si erano dimezzati nell’arco di cinque anni. STAVOLTA però potrebbe essere diverso, scrivono Cohen e Zhou: «I recenti sviluppi in Israele non contribuiscono a ridurre l’emigrazione… Il consenso sulla guerra ha già iniziato a erodersi e, alla fine del 2024, il livello di solidarietà tra gli ebrei è diminuito drasticamente rispetto a dicembre 2023… Ci sono poche ragioni per aspettarsi che possa mitigare l’emigrazione, come è accaduto in passato… Infine, la riforma giudiziaria sembra riprendere slancio, sollevando ulteriori dubbi sul futuro dell’Israele democratico tra gli israeliani laici e progressisti, che tendono ad avere un livello di istruzione elevato e rappresentano il gruppo più a rischio di emigrazione». TRA DI LORO c’è C., professore emigrato in Europa dopo svariati tentativi di trovare un impiego nell’accademia israeliana. Nessun colloquio è andato a buon fine: «Non mi hanno mai detto esplicitamente la ragione del rifiuto, ma dopo l’inizio della guerra un rettore mi ha parlato dei miei post sui social media e che se volevo avere un futuro qui era meglio rimanere in silenzio e non esprimere le mie opinioni. La mia famiglia e la mia compagna vivono in Israele, sarei voluto restare, ma non è un luogo dove persone estranee al consenso genocidario possano avere una carriera. Insomma, non ti mettono in prigione ma ti impediscono di guadagnarti da vivere». A pesare, dice C., non è solo il governo. Lo fa anche «la cosiddetta opposizione che non agisce per niente come un’opposizione né a Ga2a né a difesa della libertà di espressione» e il silenzio complice dell’accademia. Non è l’unico ad averla lasciata: «Posso parlare per le persone intorno a me, una sottocategoria molto limitata della società israeliana. Ci sono motivazioni politiche per andarsene ma anche per restare e combattere. Ho amici palestinesi delusi perché si sentono abbandonati in una società fascista. Altre persone all’estero pensano invece che la cosa migliore che un israeliano di sinistra possa fare sia lasciare il paese. Non concordo: non credo che il mio contribuito alla lotta palestinese sia un israeliano in meno». «Penso però che se non posso lavorare, non posso esprimermi senza essere brutalizzato, se vivo nella costante e malata venerazione della morte con adesivi di soldati ovunque… è orribile. Vogliamo dire che è una motivazione politica? È più complicato di così». Accanto alla prospettiva della guerra permanente e all’assenza di una risoluzione dell’occupazione militare, pesa soprattutto la deriva verso la peggiore destra, resa plastica dai sondaggi che svelano maggioranze bulgare a favore dell’espulsione dei palestinesi, dalle violenze brutali dei coloni e dai dati sull’immigrazione: in Israele tendono a trasferirsi soprattutto ebrei religiosi e nazionalisti, per lo più da Francia e Stati uniti. NON È UN CASO che a emigrare siano soprattutto persone con figli: non vogliono crescerli in Israele, chi perché la ritiene una società sempre più estremista, chi perché vede l’economia indebolirsi, chi perché non intende trasmettergli una normalità di guerra, di corse nei bunker sotto le scale: «Alla fine il luogo più pericoloso nel mondo per un ebreo è Israele – conclude C. – E lì invece pensano di rischiare a Londra o a Berlino perché leggono un libro in ebraico o parlano in ebraico. È ridicolo. È vero, a volte mi sento a disagio, mi vergogno di dire che sono israeliano. Ma penso sia giusto che io provi vergogna».
Libano umiliato dalle bombe israeliane, in attesa del papa
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di Pasquale Porciello
Libano umiliato dalle bombe israeliane, in attesa del papa
Il quinto bombardamento israeliano su Beirut dall’inizio della tregua iniziata il 27 novembre 2024, dopo oltre 13 mesi di guerra, ha colpito domenica pomeriggio la periferia sud della capitale libanese uccidendo almeno sei persone e ferendone 28. Obiettivo, Haytham Ali Tabatabai, membro fondatore e comandante della Forza al Radwane, unità d’élite di Hezbollah, e i suoi uomini. Un colpo senza dubbio importante per l’esercito israeliano, che ora si prepara a un’eventuale risposta di Hezbollah. Il capo di stato maggiore dell’esercito israeliano si è già recato alla frontiera con il Libano ieri mattina e ha ordinato un «rafforzamento della vigilanza operativa. (…) Il settore è sotto altissima tensione e lo stato di allerta è massimo. Israele si prepara a diverse possibili reazioni, anche da altri fronti come lo Yemen», in riferimento agli Houthi. IL COMANDANTE IN CAPO dell’esercito libanese, Rodolphe Haykal, ha incontrato ieri la coordinatrice speciale delle Nazioni Unite in Libano, Jeanine Hennis-Plasschaert, per discutere della situazione. La recente decisione Usa di annullare la visita del comandante a Washington – la prima nel suo genere – è stata largamente percepita come una «sanzione» umiliante per il Libano, sia dai quadri militari che dal mondo politico. Il vice-presidente del Consiglio superiore sciita, lo sheikh Ali Khatib, nel condannare l’attacco israeliano, ha sottolineato «l’insufficienza dello sforzo messo in atto dallo Stato libanese. L’aggressione (…) mostra l’abbandono del Libano da parte della comunità internazionale». Hezbollah, che ha accusato pubblicamente gli Stati Uniti – attore principale, assieme alla Francia, del processo di stabilizzazione messo in campo dopo la tregua – di aver dato il «via libera» all’attacco israeliano, ora considera una risposta militare. Fino ad oggi, Israele ha unilateralmente violato la tregua con bombardamenti quotidiani soprattutto nel sud e nell’est del paese; occupa inoltre cinque villaggi libanesi lungo la linea di confine. IL LIBANO dieci giorni fa ha annunciato la volontà di presentare un reclamo al consiglio di sicurezza Onu sulla costruzione di un muro da parte di Israele in territorio libanese, che ha reso inaccessibili oltre 4mila metri quadrati di territorio alla popolazione locale, in violazione della risoluzione 1701 e della sovranità libanese. Unifil – forza Onu che presidia con oltre 10mila soldati dal 1978 la Linea Blu, la zona cuscinetto tra i due paesi – ne ha chiesto la rimozione, ma Israele nega che il muro sia stato costruito in territorio libanese: «Il muro è parte di un progetto più ampio cominciato nel 2022» ha dichiarato il portavoce dell’esercito israeliano. A POCHI GIORNI DALLA VISITA di papa Leone XIII, il paese intero è in grande allarme. Una risposta eventuale di Hezbollah trascinerebbe il Libano in una spirale ancor più larga di violenza. Il 31 dicembre segnerà il termine fissato dal parlamento libanese su direttive americane per il disarmo completo di Hezbollah, che ha però già annunciato che ciò non avverrà. Ad agosto, inoltre, è stata sancita la fine della missione Unifil nel dicembre 2026 (ci sarà poi un ulteriore anno per il ritiro totale) e che lascerà il sud del Libano senza un vero e proprio argine, dato anche l’enorme divario tra l’esercito libanese e quello israeliano. L’ambasciatore iraniano in Libano, Mojtaba Amani, ha aperto alla possibilità di una ripresa delle ostilità con Israele: «Siamo pronti a ogni tipo di risposta», ha dichiarato ieri sera ai media iraniani. Tabatabai si aggiunge alla lunga lista di nomi apicali eliminati nelle fila del Partito di Dio. A cominciare da Hassan Nasrallah, guida di Hezbollah per oltre trent’anni, ucciso in un massiccio bombardamento il 27 settembre 2024. Ovvero pochi giorni dopo le esplosioni di cercapersone e walkie talkie in dote ai membri di Hezbollah, che ha palesato il livello di infiltrazione dell’intelligence israeliana nel partito e la fragilità che lo ha portato a firmare una tregua svantaggiosa. IL RISCHIO OGGI è che, consegnando le armi e de facto arrendendosi a Israele, Hezbollah perda la sua egemonia sui territori che ha governato in maniera incontrastata per decenni, facendo della resistenza a Israele il cardine su cui ha basato la sua legittimità. Ciò si tradurrebbe anche in una riduzione del suo potere sulla gestione della ricostruzione delle aree distrutte dalla guerra. Hezbollah, formalmente unito, è spaccato al suo interno sulla gestione del difficile momento. Se però si dovesse trattare di una questione di sopravvivenza, allora gli scenari possibili sarebbero devastanti per tutto il Libano.
L`esercito israeliano ha neutralizzato nel Sud del Libano due membri dell`organizzazione terroristica Hezbollah
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di Roberto Motta
L`esercito israeliano ha neutralizzato nel Sud del Libano due membri dell`organizzazione terroristica Hezbollah
In una serie di operazioni mirate, le Forze di Difesa Israeliane (IDF) hanno neutralizzato due membri dell’organizzazione terroristica Hezbollah, sostenuta dall’Iran, nel Libano meridionale. Gli attacchi, condotti nei villaggi di Bint Jbeil (anche scritto Bin Jabal) e Blida, vicino al confine israeliano, sono stati descritti dalle IDF come azioni mirate contro individui che minano attivamente i fragili accordi di cessate il fuoco tra Israele e Libano. Il primo incidente è avvenuto nelle prime ore del mattino nell’area di Bint Jbeil, una nota roccaforte di Hezbollah situata a pochi chilometri dal confine della Linea Blu. Secondo le dichiarazioni dell’IDF, il terrorista eliminato era direttamente coinvolto negli sforzi di ricostruzione e fortificazione volti a ricostruire le infrastrutture militari danneggiate di Hezbollah nella regione. A seguito degli intensi combattimenti scoppiati dopo il 7 ottobre 2023 e del successivo accordo di cessate il fuoco del novembre 2024, Hezbollah è stato I accusato da Israele di aver sistematicamente violato i termini dell’accordo tentando di ristabilire posizioni militari e riarmarsi in aree che avrebbero dovuto rimanere smilitarizzate a sud del fiume Litani. Più tardi, lo stesso giorno, è stato effettuato un secondo attacco di precisione nel vicino villaggio di Blida. In questa operazione, le forze dell’IDF hanno identificato ed eliminato un agente di Hezbollah che stava conducendo attivamente attività di sorveglianza e raccolta di informazioni dirette alle truppe e alle comunità israeliane lungo il confine settentrionale. Secondo quanto riferito, il terrorista è stato osservato mentre utilizzava apparecchiature ottiche per monitorare le posizioni delle IDF, una chiara violazione dei termini del cessate il fuoco che proibiscono attività militari ostili nella zona di confine. Le IDF hanno sottolineato che le azioni di entrambi gli individui costituivano esplicite violazioni degli accordi esistenti, negoziati alla fine del 2024, che impongono a Hezbollah di ritirare le sue forze a nord del fiume Litani e di cessare tutte le operazioni militari nella regione di confine meridionale. Nonostante il cessate il fuoco formale, Israele ha ripetutamente accusato l’organizzazione terroristica sciita di tentare di sfruttare l’accordo ricostruendo infrastrutture terroristiche, accumulando armi e conducendo missioni di ricognizione, attività che minacciano direttamente la sicurezza delle comunità civili israeliane nel nord. «Queste precise operazioni riflettono il costante impegno delle IDF a rimuovere qualsiasi minaccia immediata per i residenti del nord di Israele e a preservare la sovranità e la sicurezza dello Stato di Israele», ha dichiarato un portavoce dell’IDF. «Continueremo ad agire con decisione contro qualsiasi tentativo di Hezbollah di consolidare il proprio potere terroristico lungo il confine e ripristinare le sue capacità». Gli attacchi giungono in un momento di forti tensioni lungo il confine tra Israele e Libano, dove migliaia di residenti israeliani sono ancora evacuati dalle loro case a più di un anno dallo scoppio delle ostilità. Mentre il cessate il fuoco del novembre 2024 ha ridotto significativamente gli scontri a fuoco su larga scala, incidenti localizzati (tra cui attacchi con missili anticarro, infiltrazioni di droni e tentativi di infiltrazione) sono persistiti, sottolineando la natura fragile dell’attuale accordo. Israele ha chiarito che non tollererà un ritorno alla realtà precedente all’ottobre 2023, in cui Hezbollah manteneva un’estesa presenza militare nelle immediate vicinanze di città e villaggi israeliani. Le continue azioni di controllo delle IDF nel Libano meridionale mirano a garantire che i termini del cessate il fuoco siano pienamente applicati e che la minaccia alle comunità del nord di Israele sia definitivamente rimossa. Hezbollah non ha rilasciato dichiarazioni ufficiali sulla perdita dei due operativi, sebbene l’organizzazione in genere riconosca le vittime giorni o settimane dopo, spesso definendoli «martiri sulla strada per Gerusalemme». Gli osservatori regionali osserveranno attentamente se queste ultime eliminazioni possono innescare un’escalation o se entrambe le parti continuino a contenere gli incidenti secondo il modello di azioni limitate e reciproche che ha caratterizzato il confine da quando è entrato in vigore il cessate il fuoco.
Eliminati 5 leader di Hamas
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di Roberto Motta
Eliminati 5 leader di Hamas
Le Forze di Difesa Israeliane (IDF) hanno lanciato attacchi aerei di precisione contro le infrastrutture terroristiche di Hamas a Ga2a, neutralizzando cinque comandanti di alto rango in rappresaglia diretta per un attacco alle truppe israeliane. L’incidente, avvenuto nel sud di Ga2a il 22 novembre, sottolinea la strategia di Israele nel difendere i propri soldati, rispettando al contempo l’accordo di cessate il fuoco in vigore dal 10 ottobre. Tuttavia, la provocazione sconsiderata di Hamas minaccia di smantellare questa fragile tregua, L’attacco è iniziato quando un terrorista palestinese, sfruttando un corridoio di aiuti umanitari designato in base ai termini del cessate il fuoco, ha attraversato la «Linea Gialla» entrando in territorio israeliano e ha aperto il fuoco sul personale delle IDF impegnato in operazioni di sicurezza di routine. Miracolosamente, nessun soldato israeliano è rimasto ferito, a testimonianza della vigilanza e della professionalità delle IDF. Questa violazione non è stata un errore isolato, ma fa parte di un modello di aggressione orchestrato da Hamas, L volto a minare il cessate il fuoco e riaccendere la violenza. Gli attacchi aerei mirati su Ga2a, sono stati concentrati su obiettivi di alto valore per Hamas. L’operazione, guidata dall’intelligence in tempo reale dell’Agenzia per la Sicurezza Israeliana (Shin Bet), ha portato all’eliminazione di cinque alti funzionari di Hamas profondamente radicati nell’apparato militare e logistico del gruppo. Tra i caduti Halmas Hadidi, il capo dei rifornimenti e dell’equipaggiamento per il quartier generale di produzione di armi di Hamas, che ha svolto un ruolo fondamentale nell’armare i terroristi responsabili di innumerevoli attacchi contro i civili israeliani. Gli altri quattro comandanti, le cui identità sono ancora in fase di verifica, sono stati figure chiave nella pianificazione delle operazioni contro le forze dell’IDF e obiettivi marittimi durante il conflitto in corso. Questi attacchi esemplificano la precisione chirurgica dell’IDF: rendere giustizia a coloro che orchestrano omicidi riducendo al minimo i danni alla popolazione civile di Ga2a, nonostante l’uso di scudi umani da parte di Hamas. Il primo ministro Benjamin Netanyahu, parlando attraverso il suo ufficio, ha condannato fermamente le azioni di Hamas e ha confermato la determinazione di Israele nel contrastarle sempre in tempo reale. «Oggi, Hamas ha violato nuovamente il cessate il fuoco», ha detto Netanyahu, «inviando un terrorista nel territorio controllato da Israele per attaccare i soldati dell’IDF. In risposta, Israele ha eliminato cinque importanti terroristi di Hamas». Israele quindi ha ribadito non tollererà provocazioni che mettano in pericolo i suoi soldati, Le Forze di Difesa israeliane hanno ribadito che gli attacchi sono una «palese violazione dell’accordo di cessate il fuoco». L’esercito ha sottolineato che gli attacchi erano una necessaria misura difensiva e ha ribadito le sue richieste ad Hamas di restituire i restanti tre ostaggi uccisi – Dror Or, Ran Gvili e Sudthisak Rinthalak – e di procedere al disarmo completo, in linea con il piano globale, aprovato dall’Onu, in 20 punti preparato dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump per la stabilizzazione di Ga2a. «Le Forze di Difesa israeliane rimangono impegnate nel cessate il fuoco, ma risponderanno con decisione a qualsiasi minaccia , sottolineando la moderazione di Israele di fronte ai ripetuti tradimenti di Hamas». Hamas ha reagito con una retorica incendiaria anziché con l’assunzione di responsabilità. Il gruppo terroristico ha inizialmente minacciato di porre fine al cessate il fuoco, accusando Israele di «violazioni» e chiedendo ai mediatori di costringere Gerusalemme a rivelare l’identità dell’attentatore. In una dichiarazione, Hamas ha definito gli attacchi una «pericolosa escalation» e ha respinto il resoconto di Israele, nonostante l’agenzia di Protezione Civile di Ga2a, gestita da Hamas, abbia segnalato 21 morti, inclusi gli attacchi a Nuseirat e Al-Nasr che hanno causato rispettivamente sette e quattro vittime.. Quest’ultima riacutizzazione getta una lunga ombra sul cessate il fuoco, mediato sotto l’egida degli Stati Uniti e approvato dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite solo pochi giorni fa. Con i mediatori arabi che hanno definito la risposta di Israele «sproporzionata» la tregua è appesa a un filo. L’amministrazione Trump ha espresso un forte sostegno alle azioni di Israele, ritenendole essenziali per far rispettare i termini dell’accordo e impedire un ritorno alla barbarie del 7 ottobre 2023. Mentre proseguono le ricerche dei resti degli ostaggi, condotte da Hamas e dai militanti della Jihad islamica palestinese, il mondo osserva: Hamas sceglierà la pace o l’eliminazione dei suoi leader aprirà la strada a una Ga2a libera dalla morsa del terrore?
Il nuovo metro della sicurezza di Israele
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di Redazione
Il nuovo metro della sicurezza di Israele
Domenica scorsa l’esercito israeliano ha dichiarato di aver eliminato Haytham Ali Tabatabai, uno dei principali leader di Hezbollah. Tsahal è tornato a colpire Beirut, la capitale del Libano, con l’obiettivo di bloccare il riarmo di Hezbollah che, secondo gli israeliani, era proprio coordinato e gestito da Tabatabai, il cui ruolo era equiparabile a quello di capo di stato maggiore per il gruppo sciita con cui Israele ha combattuto più di una guerra. L’ultima è stata lo scorso anno e si è conclusa con un accordo di cessate il fuoco, mediato anche dagli Stati Uniti, secondo il quale Hezbollah doveva ritirarsi al di sopra del fiume Leonte e il Libano doveva procedere con la smilitarizzazione del gruppo. Israele, durante la guerra, è riuscito a decimare le capacità di Hezbollah, ha distrutto la leadership e ora, secondo l’accordo, può intervenire ogni volta che vede tentativi di riarmo. Gli israeliani forniscono al governo e all’esercito del Libano informazioni di intelligence per andare a colpire Hezbollah, tuttavia il lavoro libanese ha iniziato a rallentare e sta a Tsahal agire, concordando gli attacchi con gli americani, per tenere a bada Hezbollah. L’uccisione di Haytham Ali Tabatabai va letta in questa cornice, ma bisogna anche considerare che il Libano e il trattamento di Hezbollah sono un messaggio che Israele manda anche al resto dei nemici e manda anche a Gaza, facendo capire a qualsiasi entità che si insedierà al posto di Hamas nella Striscia, che Israele sarà capace di continuare ad agire per fermare ogni violazione dell’accordo. Il Libano dimostra che ancora una volta gli israeliani devono badare alla loro sicurezza e mettere fine al potere dei gruppi armati è un lavoro complesso che il governo non sempre è disposto a fare o ha le capacità per farlo. Colpendo Hezbollah, Israele manda un messaggio anche dentro Ga2a e a chi pensa che verrà tollerata la permanenza di Hamas, neppure sotto altre forme.
La lunga tregua “incerta” a Gaza
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di Luca Foschi
La lunga tregua “incerta” a Gaza
Passata la risoluzione al Consiglio di sicurezza dell’Onu, mentre continuano in silenzio le trattative sulla seconda fase della road map che dovrebbe portare alla stabilizzazione e alla ricostruzione di Ga2a, vacilla la tregua nella Striscia e in Libano sotto i bombardamenti israeliani. Sono almeno 343 le persone uccise a Ga2a dal 10 ottobre, oltre 330 invece nel Paese di cedri, dove il cessate il fuoco è entrato in vigore il 27 novembre 2024. Quattro palestinesi sono stati uccisi ieri a Ga2a. Due uomini a Khan Yunis, eliminati, sostiene l’esercito israeliano, mentre attraversando la Linea Gialla che delimita il territorio sotto proprio controllo, «rappresentavano una minaccia immediata». Altri due uomini sono invece caduti sotto i colpi d’arma da fuoco nel quartiere di Tuffah, a Ga2a City. Nell’enclave devastata da oltre due anni di guerra, ha dichiarato l’Unrwa, l’Agenzia dell’Onu per il soccorso dei profughi palestinesi, il 90% della popolazione dipende interamente dagli aiuti. Nel frattempo ha cessato le operazioni la Ga2a Humanitarian Foundation (Ghf), società israelo-americana che da fine maggio ha distribuito aiuti umanitari durante le fasi più cruente del conflitto. La Ghf è accusata dall’Onu di aver creato un sistema di distribuzione degli aiuti nel quale hanno perso la vita centinaia di ga2awi, uccisi dal fuoco dell’Idf e dei servizi di sicurezza della fondazione. Importanti esercitazioni delle forze armate israeliane sono cominciate al confine con il Libano, dove Tel Aviv resta in attesa di una possibile risposta di Hezbollah all’omicidio del suo capo militare, Haythman Ali Tabatabai, ucciso domenica insieme ad altre quattro persone da un attacco aereo nella periferia sciita di Beirut. Il raid che ha ucciso Tabatabai, così come quelli che quotidianamente colpiscono il sud del Libano, sono giustificati da Israele con la necessita di impedire il riamo del Partito di dio, che starebbe silenziosamente andando avanti nonostante la tregua. Sfruttando il contesto di guerra a bassa intensità, il capo di Stato maggiore israeliano Eyal Zamir ha deciso di operare un primo repulisti dei vertici dell’esercito responsabili del fallimento avvenuto il 7 ottobre 2023. Diversi i congedi, almeno tre in posizioni chiave, e le note di biasimo. La mossa, non coordinata con il ministro della Difesa Katz, rinnova gli attriti fra forze armate ed esecutivo, per il quale una larga fetta della popolazione chiede da tempo una commissione d’inchiesta indipendente che tarda ad arrivare. L’esercito israeliano è operativo anche nel sud della Siria, con un addestramento di larga scala nell’altopiano del Golan, in preparazione a «diversi possibili scenari». A metà luglio gli scontri fra tribù sunnite e druse aveva indotto Tel Aviv a prendere la difesa di queste ultime, con bombardamenti “ammonitori” che avevano colpito persino i palazzi governativi a Damasco. Continuano a destare preoccupazione le tensioni etnico-confessionali all’interno della Siria. Domenica a Homs l’assassinio di una coppia nella zona di Zaydal, accompagnato da messaggi settari sul muro della casa delle vittime, ha scatenato violenti attacchi contro i quartieri a maggioranza alawita, costringendo le autorità a impiegare le forze di sicurezza e imporre il coprifuoco. Sarebbero almeno 18 i feriti.
I Giovani dem all’attacco di Fiano: «Sinistra per Israele non siamo noi». Il Pd si spacca ed Elly resta in silenzio
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di Luigi Frasca
I Giovani dem all’attacco di Fiano: «Sinistra per Israele non siamo noi». Il Pd si spacca ed Elly resta in silenzio
«Mai in nostro nome: noi Gd non ci riconosciamo in Sinistra per Israele». Lo scrivono i Giovani democratici di Bergamo in un post su Instagram. «Riteniamo legittimo che Fiano esprima le proprie posizioni, ma rivendichiamo il diritto e il dovere di chiarire che non parla a nome nostro, né come sinistra, né come Gd e crediamo né come Partito democratico», si legge tra l’altro nel post. «Stasera saremo in piazza, non per silenziare qualcuno ma per ribadire che non ci riconosciamo nei messaggi di Sinistra per Israele. Noi siamo e saremo sempre in lotta contro l’oppressore per una Palestina libera, per una pace giusta, per il coinvolgimento di tutti i popoli in un processo di liberazione dall’apartheid», spiegano ancora i Gd di Bergamo. Insomma, un vero e proprio attacco all’ex deputato del Pd e leader di Sinistra per Israele. Una contestazione che arriva poco tempo dopo quella che ha dovuto subire all’università Ca’ Foscari di Venezia quando un gruppo di ragazzi appartenenti ai collettivi di sinistra gli ha impedito di parlare costringendolo ad abbandonare un convegno. Quanto accaduto a Bergamo, però, fa ancora più male, visto che i contestatori provengono dalla sua stessa area politica. Anzi, esattamente dal suo stesso partito. A sua difesa, però, non si sono mossi i vertici del Na2areno. Alle 22 di ieri sera non era arrivato ancora neanche un messaggio di solidarietà da parte della segretaria Elly Schlein. Ad esprimergli vicinanza soltanto qualche esponente della minoranza del partito. I riformisti del Pd che, quasi in solitaria, negli ultimi mesi hanno preso le distanze dalle piazze ProPal e hanno provato a denunciare i crimini di Hamas. Tra i primi a parlare è Pina Picierno, vicepresidente del Parlamento europeo: «Solidarietà piena a Emanuele Fiano per l’attacco subito dai Giovani Democratici di Bergamo. Nel Partito democratico non c’è spazio per campagne d’odio o delegittimazioni personali: il confronto è legittimo, la violenza verbale no». Ad esprimere indignazione è anche la senatrice del Pd Simona Malpezzi: «Apprendo con sconcerto e amarezza della scelta compiuta dai Giovani Democratici di Bergamo. Una scelta che considero lontana dalla storia del Partito Democratico da sempre in prima linea per affermare valori chiari: il rifiuto di ogni estremismo, il rispetto del pluralismo e la condanna di qualunque forma di odio. È una storia che ci impegna ogni giorno e che non può essere stravolta da posizioni che non rappresentano la nostra comunità politica». La senatrice ricorda anche che «Sinistra per Israele si batte contro il governo Netanyahu, contro le sue scelte illiberali, contro una politica abominevole e rilanciando la soluzione di “due popoli e due Stati” come orizzonte di pace e giustizia. Andrebbe sostenuta, non ostracizzata – prosegue- E prendere di mira chi sostiene questa prospettiva di pace, oltretutto legato alla nostra comunità da una storia importante, isolarlo e demonizzarlo significa allontanarsi dai valori che da sempre animano la nostra comunità». Come detto, non è la prima volta che Fiano è costretto a subire questi attacchi da sinistra. Nel caso della Ca’ Foscari, la solidarietà maggiore l’ha ricevuta dalla ministra dell’Università Anna Maria Bernini che, a differenza di Elly Schlein, è tornata con Fiano all’università per permettergli di fargli tenere quel discorso che gli estremisti di sinistra erano riusciti in un primo momento ad impedire.
Escalation in Libano, il presidente Aoun: “Il mondo fermi lo Stato ebraico”
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di Anna Garofalo
Escalation in Libano, il presidente Aoun: “Il mondo fermi lo Stato ebraico”
La tensione in Medio Oriente è tornata a crescere. Mentre la Striscia di Ga2a subiva nuovi raid israeliani e il Libano viveva una giornata di lutto e rabbia per la morte del comandante militare di Hezbollah Haytham Ali Tabatabai, ucciso domenica in un attacco dell’aeronautica israeliana nella periferia sud di Beirut. Cinque le vittime complessive e ventotto i feriti, secondo il bilancio definitivo diffuso dal ministero della Sanità libanese.Nella capitale, una folla imponente ha accompagnato il feretro del leader sciita. I cortei hanno attraversato i quartieri meridionali tra cori contro Israele e gli Stati Uniti. I vertici politici di Hezbollah erano presenti, mentre il movimento ha confermato ufficialmente la morte del suo comandante, definito un “martire della resistenza”. Il presidente libanese Joseph Aoun ha accusato Israele di voler alimentare l’escalation e ha chiesto alla comunità internazionale di fermare l’aggressione. Durante la cerimonia funebre il responsabile del consiglio esecutivo di Hezbollah Ali Daamoush ha avvertito che Israele “dovrebbe essere preoccupato” per le conseguenze dell’omicidio mirato e ha escluso qualsiasi proposta diplomatica finché Tel Aviv non rispetterà l’accordo di cessate il fuoco raggiunto lo scorso novembre. L’Iran ha condannato l’attacco definendolo un “vile assassinio”. Il clima di allerta è stato evidente anche sul fronte israeliano. Il capo di stato maggiore Eyal Zamir ha visitato ieri la divisione Bashan al confine con il Libano durante un’esercitazione a sorpresa e ha ordinato di elevare immediatamente il livello di prontezza militare. DISTRUZIONE DI TUNNEL DI GAZA Intanto l’Idf ha reso noto che nell’ultimo mese sono stati distrutti centinaia di metri di tunnel a Ga2a. In una comunicazione ufficiale l’esercito ha riferito di aver colpito oltre sessanta obiettivi in una settimana, tra cui quindici pozzi di tunnel e quaranta strutture utilizzate dalle organizzazioni armate. L’agenzia palestinese Wafa ha segnalato ieri quattro morti in nuovi raid su Ga2a City e Khan Yunis, oltre a bombardamenti a nordest di Rafah. Al Jazeera ha riferito del recupero del corpo di un ostaggio della Jihad islamica nell’area di Nuseirat. Restano nella Striscia le salme di altri tre ostaggi, due israeliani e un cittadino thailandese. LA ONG GHF SI RITIRA Sul piano umanitario la contestata ong Ga2a Humanitarian Foundation ha annunciato ieri la fine delle attività nella Striscia. L’organizzazione, sostenuta da Stati Uniti e Israele, aveva sostituito le agenzie dell’Onu nella distribuzione degli aiuti dopo l’interruzione delle consegne decisa da Tel Aviv a maggio. Più volte i contractors impiegati dalla ong erano stati accusati di avere aperto il fuoco contro civili in coda per ricevere cibo. Il Centro di coordinamento civili e militare di Kiryat Gat ha comunicato che negli ultimi sette giorni sono entrati a Ga2a più di ventunomila camion di aiuti. Solo ieri seicento ventinove sono passati da Kerem Shalom e duecentosessantuno da Zikim. VIOLENZA SETTARIA IN SIRIA Oltre ai teatri principali di Ga2a e Libano, la regione continua a essere attraversata da nuove frizioni. In Siria la città di Homs è piombata in un clima di paura dopo un duplice omicidio a sfondo comunitario che ha provocato scontri e vendette. Le autorità hanno imposto un coprifuoco notturno e dispiegato forze armate nei quartieri più esposti. L’Osservatorio siriano per i diritti umani parla di una situazione instabile da mesi con oltre mille cento morti dall’inizio dell’anno, in gran parte appartenenti alla comunità alawita. TAJANI RILANCIA LA SOLUZIONE A DUE STATI Sul fronte diplomatico il ministro degli Esteri italiano Antonio Tajani ha ribadito in un editoriale pubblicato da Arab News la posizione condivisa da Roma e Riad. Secondo entrambi i paesi solo un percorso credibile verso la soluzione dei due Stati può garantire una pace duratura. Tajani ha ricordato che l’Italia ha accolto mille trecento palestinesi per ragioni mediche e ha espresso gratitudine all’Arabia Saudita per il ruolo svolto nel sostenere gli sforzi di ricostruzione. ERDOGAN VALUTA IL CONTRIBUTO TURCO ALLA FUTURA FORZA INTERNAZIONALE In parallelo il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha affermato che Ankara sta ancora valutando una possibile partecipazione alla futura forza di stabilizzazione per Ga2a. Israele ha già fatto sapere che non accetterà la presenza turca nel contingente.
Libano, Hezbollah minaccia ritorsioni contro Israele
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di R. Es.
Libano, Hezbollah minaccia ritorsioni contro Israele
Migliaia di persone hanno partecipato al funerale organizzato dal gruppo militante Hezbollah per il suo massimo comandante militare, Haytham Tabtabai, il giorno dopo la sua morte in un attacco aereo israeliano su un sobborgo meridionale di Beirut. Domenica, Israele ha colpito la capitale del Libano per la prima volta da giugno. Il capo del consiglio esecutivo di Hezbollah, Ali Daamoush, ha minacciato Israele: «I sionisti dovrebbero preoccuparsi, perché hanno commesso un grave crimine contro la resistenza e contro il Libano». La Francia ha espresso profonda preoccupazione per l’attacco e la potenziale escalation, invitando le parti a non intraprendere «azioni unilaterali». I raid israeliani sul Libano meridionale si sono intensificati nelle ultime settimane. Israele sostiene che Hezbollah sta cercando di ricostruire la propria forza militare. Il Governo libanese, che dovrebbe disarmare il gruppo, nega e afferma di aver inviato truppe nella regione, ma di aver bisogno di finanziamenti per l’esercito. A Ga2a, le forze israeliane (Idf) hanno ucciso tre palestinesi ieri, a est di Khan Younis, nei pressi della linea che delimita le aree sotto il loro controllo. Una delegazione di Hamas al Cairo, guidata dal leader in esilio Khalil al-Hayya, ha avuto colloqui con funzionari egiziani per esplorare la prossima fase del fragile cessate il fuoco, come ha riferito Hazem Qassem, portavoce di Hamas. Qassem ha affermato che le violazioni israeliane stanno minando l’accordo. Concordare la composizione e il mandato della forza di sicurezza internazionale è particolarmente complesso. Israele ha affermato che la forza multinazionale deve disarmare Hamas, un passo a cui il gruppo si è finora opposto. Qassem ha affermato che la forza multinazionale deve svolgere un ruolo nel tenere l’esercito israeliano lontano dai civili palestinesi. I miliziani della Jihad islamica hanno riferito di aver ritrovato i resti di un ostaggio che era tenuto prigioniero dall’organizzazione nella parte settentrionale del campo profughi di Nuseirat, secondo quanto riferito dall’emittente al-Jazeera. Sempre ieri, il cancelliere tedesco, Friedrich Merz, ha fatto sapere che farà la sua prima visita in Israele a dicembre. La visita, prevista per il 6 e 7 dicembre, includerà un incontro con il primo ministro Benjamin Netanyahu e una visita al memoriale dell’Olocausto Yad Vashem. Merz sarà il primo leader di un importante Paese europeo a visitare Israele in oltre un anno.
Bergamo, giovani dem contro Fiano. Malpezzi e Picierno: “Siamo con lui”
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di Redazione
Bergamo, giovani dem contro Fiano. Malpezzi e Picierno: “Siamo con lui”
«Saremo in strada, fuori dall’evento organizzato dall’associazione amicizia Bergamo-Israele, per ribadire che la comunità Democratica non è in alcun modo identificabile in Sinistra per Israele». È il post social dei Giovani democratici bergamaschi pubblicato in occasione dell’iniziativa locale in cui era prevista la partecipazione di Emanuele Fiano, ex parlamentare Pd e ora presidente dell’associazione Sinistra per Israele. L’uscita dei giovani del Pd è stata accolta da Simona Malpezzi «con sconcerto e amarezza» per «una scelta che considero lontana dalla storia del Pd, da sempre in prima linea per affermare valori chiari, il rifiuto di ogni estremismo, il rispetto del pluralismo e la condanna di qualunque forma di odio». Come Malpezzi, la solidarietà a Fiano arriva anche dalla vicepresidente dem del Parlamento europeo, Pina Picierno: «Nel Partito democratico non c’è spazio per campagne d’odio o delegittimazioni personali: il confronto è legittimo, la violenza verbale no».
Israele, resa dei conti sul 7 ottobre: l’Idf licenzia generali e ufficiali
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di Anna Lombardi
Israele, resa dei conti sul 7 ottobre: l’Idf licenzia generali e ufficiali
Grandi manovre nell’esercito israeliano. Dove ieri il capo delle Forze armate, Eyal Zamir ha annunciato defenestramento e misure disciplinari per una dozzina di alti ufficiali che il 7 ottobre non seppero prevenire l’assalto di Hamas ai kibbutz più vicini a Ga2a e ai ragazzi del Nova Festival: «Ho l’obbligo di stabilire uno standard chiaro di responsabilità di comando», ha spiegato. Quel giorno morirono 1.200 persone: altre 247 vennero rapite. Subito dopo iniziò la sanguinosissima guerra di Ga2a, in cui hanno perso la vita quasi 69mila palestinesi. Poche settimane fa, l’atteso rapporto della commissione guidata dal generale Sami Turgeman ha ritenuto incomplete le inchieste condotte finora all’interno dell’Idf, mettendo in luce una serie di errori. Quella di ieri, è la prima ammissione di inadeguatezza e pure le prime sanzioni ufficiali. Con buona pace del fatto che l’impatto sarà limitato perché molti dei militari coinvolti hanno già lasciato il servizio, come i tre generali, i più alti in grado della lista, che si sono già dimessi. Zamir, ha comunque lodato i graduati puniti: agirono in un contesto «inaspettato» e «difficile». Ciò nondimeno, «il quadro è inequivocabile: il 7 ottobre l’esercito fallì la sua missione principale, quella di proteggere i cittadini israeliani». I motivi, ha aggiunto, soG no da ricercare nelle decisioni prese prima e durante l’evento. La gogna del congedo illimitato tocca, fra gli altri, all’ex capo dei servizi segreti dell’esercito, generale Aharon Haliva: non presterà più servizio nelle Forze armate. Se ne va anche il generale Oded Basyuk, che quel giorno era capo della Direzione delle Operazioni. Insieme all’ex capo del Comando Meridionale, generale Yaron Finkelman. E fra i rimossi c’è pure Yossi Sariel, all’epoca comandante dell’Unità 8200 dei servizi segreti d’élite dell’Idf. Richiamo formale, invece, per altri comandanti, compreso l’attuale capo dell’intelligence militare, Shlomi Binder, che potrà però completare il suo mandato e ritirarsi dall’esercito solo allora. Censura pure per il capo dell’Aeronautica Militare israeliana, Tomer Bar: «Incapace di difendere il territorio dai droni e dai parapendio di Hamas». Continuerà tuttavia a ricoprire il suo incarico fino alla fine del contratto, ad aprile 2026. Stessa sorte per il viceammiraglio David Saar Salama, capo della Marina: anche lui, «non riuscì a difenderci dall’attacco via mare». Lascerà la divisa fra qualche mese. Insomma, una decisione, poco più che simbolica: ma tutt’altro che indolore. Negli ultimi due anni di guerra, il governo di Netanyahu aveva infatti evitato accuratamente ogni indagine sui fallimenti del 7 ottobre, sostenendo che non si potevano decapitare i vertici militari con il conflitto in corso. Ora, la pressione sta aumentando: sabato sera a Tel Aviv sono scese in piazza migliaia di persone e con loro tutti i leader dell’opposizione — Yair Lapid, Naftali Bennett, Gadi Eisenkot, Benny Gantz e Yair Golan — per chiedere a gran voce un’indagine statale indipendente che il premier vuol evitare a tutti i costi perché potrebbe costringerlo alle dimissioni. E la tensione resta alta: il ministro della Difesa, Israel Katz, ha detto che non accetta le conclusioni della Commissione Turgeman e vuol nominare il difensore civico per riesaminarle. E questo, per ora, basterà a bloccare le nuove nomine dei vertici, appena effettuate da Zamir, per sostituire gli uscenti.
Gaza, chiude la Ghf: “Un successo”. “No, pagina nera negli aiuti”
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di Redazione
Gaza, chiude la Ghf: “Un successo”. “No, pagina nera negli aiuti”
La controversa Gaza Humanitarian Foundation (Ghf) annuncia la fine definitiva delle operazioni nell’enclave palestinese, dove a metà ottobre aveva sospeso le sue attività con l’entrata in vigore dell’accordo di cessate il fuoco. La Ghf, sostenuta da Usa e Israele, in una nota spiega di aver «completato con successo la sua missione di emergenza a Ga2a, dopo aver distribuito più di 187 milioni di pasti gratuiti direttamente ai civili in un’operazione umanitaria da record. Garantendo aggiunge la nota – aiuti alimentari in modo sicuro e senza interferenze da parte di Hamas». Ma nei mesi scorsi la Ghf è stata duramente critica da Onu e ong, che hanno parlato di «pagina nera negli aiuti umanitari nella Striscia». Presto, l a distribuzione si è rapidamente trasformata in caos. Secondo le Nazioni Unite, più di 2.500 palestinesi sono stati uccisi dall’Idf mentre cercavano aiuti davanti ai centri della Fondazione. La Ghf è stata anche accusata di essere stata «uno strumento nella politica di riduzione alla fame» attuata da Israele nella Striscia.
Dissensi fra ebrei. Il confronto Di Segni-Lerner
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di Antonio Carioti
Dissensi fra ebrei. Il confronto Di Segni-Lerner
Anche se a Gaza è stato raggiunto un precario armistizio, che non si sa quanto possa reggere e preludere a sviluppi positivi, non perde di attualità il titolo del libro in cui si confrontano il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni e il giornalista Gad Lerner, Ebrei in guerra (Feltrinelli, pagine 175, e 16). Perché il riferimento non è solo al conflitto in Medio Oriente, ma anche al dissidio che divide l’ebraismo in tutto il mondo, da Gerusalemme a New York, tra una maggioranza che giustifica la durissima reazione israeliana al massacro del 7 ottobre e una minoranza, negli Stati Uniti assai più consistente che in Italia, critica non solo verso il governo di destra guidato da Benjamin Netanyahu, ma più in generale verso quella che giudica una deriva nazional-religiosa deleteria sotto il profilo politico, ma anche spirituale. Sul punto insiste vigorosamente Lerner, denunciando l’egemonia conquistata in Israele da correnti che affermano la sovranità ebraica per diritto biblico dal Giordano al mare e non solo rifiutano l’ipotesi di uno Stato palestinese, ma negano alla radice qualsiasi diritto all’autodeterminazione per gli arabi che vivono in quel territorio, trattati alla stregua di intrusi. Di Segni tende invece a ridimensionare il fenomeno, riconducendolo a visioni esclusiviste che si sono sempre manifestate nel variegato universo ebraico, ma controbilanciate tuttora da un afflato universalistico che non è mai venuto meno nei discendenti del popolo di Mosè. La discussione è molto interessante, specie per un lettore che abbia poca dimestichezza con l’Antico Testamento, per la vastità dei riferimenti storici, filosofici e religiosi a cui si richiamano i due autori. Fanno impressione, ad esempio, le profonde implicazioni di un’attesa messianica per gli ebrei tuttora aperta, un dato che cambia completamente la prospettiva rispetto a quella di chi, magari ateo o agnostico, conta pur sempre gli anni dalla nascita di Gesù e riconosce un valore di fondo alla formula crociana per cui «non possiamo non dirci cristiani». Non ci si può nascondere però che i nodi più spinosi emergono sul terreno politico. Qui il confronto a tratti diviene anche aspro nella sostanza, benché il tono di entrambi gli interlocutori resti sempre nei limiti della cortesia e del rispetto reciproco. Lerner appare angosciato per i comportamenti brutali dello Stato d’Israele, per la sua involuzione in senso etnico, e denuncia l’isolamento nel quale si trovano coloro che dissentono dalla linea di sostegno a Netanyahu prevalente nelle comunità italiane con alcune punte di oltranzismo. Di Segni depreca a sua volta «una perfetta, sofisticata e trionfante offensiva mediatica», per via della quale nelle piazze lo Stato ebraico viene demonizzato, equiparato senza ritegno al Terzo Reich, bollato come una realtà criminale da boicottare e mettere sotto assedio in tutti i modi, rompendo ogni contatto con le sue università, rifiutando l’ospitalità ai suoi turisti negli alberghi e nei ristoranti, addirittura gettando nella spazzatura i farmaci prodotti dalle sue aziende. La coraggiosa lotta su due fronti ingaggiata da Lerner per evitare una rottura irrimediabile tra il mondo ebraico e la sinistra favorevole ai palestinesi (se non addirittura, in alcune frange, ad Hamas) risulta da questo punto di vista assolutamente meritoria. Ma appare anche, inutile nasconderselo, davvero ardua, nei tempi di faziosità diffusa che purtroppo attraversiamo.