Rassegna stampa del 26 novembre 2025
La rassegna di oggi è segnata dal nuovo rapporto delle Nazioni Unite, che definisce Gaza “inabitabile” e descrive un’economia palestinese sprofondata ai livelli più bassi dell’ultimo ventennio. Repubblica, il Manifesto e Domani convergono in una narrazione fortemente accusatoria verso Israele: infrastrutture distrutte, migliaia di dispersi sotto le macerie, famiglie costrette a scavare a mani nude e un collasso economico totale attribuito quasi interamente all’azione militare israeliana. È una linea coerente con il posizionamento delle testate, ma priva di un’analisi equilibrata delle responsabilità di Hamas e del contesto operativo.
Avvenire sposta l’attenzione sulla Cisgiordania: nel villaggio cristiano di Taybeh la raccolta delle olive avviene sotto scorta e la popolazione sta lentamente abbandonando l’area. Domani racconta invece un Libano in allarme, che teme l’allargamento del conflitto dopo i recenti raid israeliani e guarda al Papa come potenziale figura di mediazione.
Il Sole 24 Ore offre l’unica prospettiva geopolitica strutturata: la relazione sempre più stretta tra Donald Trump e Mohammed bin Salman ridisegna gli equilibri del Medio Oriente, con possibili conseguenze su sicurezza, energia e rapporti con Israele. Parallelamente, La Stampa segnala un boom degli episodi di antisemitismo in Europa, quasi raddoppiati nel corso del 2025.
Il quadro più analitico arriva dal Riformista: l’intervista di Aldo Torchiaro a Khaled Abu Toameh sostiene che, dopo due anni di guerra, Hamas è ancora pienamente operativo. Un risultato che l’autore definisce un “fallimento strategico e politico”, aprendo il tema della necessità di una leadership palestinese alternativa alla jihad e di un disegno credibile per il dopo-conflitto.
Nel complesso, la selezione stampa del 26 novembre è fortemente sbilanciata sulla denuncia umanitaria, con il Sole 24 Ore e il Riformista come unici punti di equilibrio analitico, mentre il racconto dominante tende a semplificare un contesto complesso in chiave esclusivamente accusatoria.
Intervsta a Khaled Abu Toameh: «Hamas è ancora in piedi Fallimento politico»
L’intervista più rilevante della giornata: Abu Toameh evidenzia come l’incapacità di eliminare Hamas riveli un fallimento politico oltre che militare. Mette in luce la necessità di una leadership palestinese non jihadista e di una strategia israeliana chiara per il “dopo”, restituendo al conflitto una dimensione politica troppo spesso assente nel dibattito.
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di Aldo Torchiaro
Intervsta a Khaled Abu Toameh: «Hamas è ancora in piedi Fallimento politico»
«Dopo due anni di guerra Hamas è ancora in piedi. Un fallimento strategico e politico», parla Toameh K haled Abu Toameh è uno dei più autorevoli giornalisti arabi israeliani. Per venticinque anni è stato una delle firme di punta del Jerusalem Post, diventando il riferimento occidentale più affidabile per comprendere la politica palestinese, le dinamiche interne dell’Autorità Nazionale Palestinese e l’evoluzione di Hamas. Ha lavorato come producer per i grandi network televisivi americani in Medio Oriente — NBC, BBC, 60 Minutes, tra gli altri — accompagnando le principali testate internazionali nei territori palestinesi e offrendo analisi considerate tra le più lucide e coraggiose. È celebre per le sue interviste esclusive ai protagonisti della storia palestinese. Khaled Abu Toameh è uno dei più autorevoli giornalisti arabi israeliani. Per venticinque anni è stato una delle firme di punta del Jerusalem Post, diventando il riferimento occidentale più affidabile per comprendere la politica palestinese, le dinamiche interne dell’Autorità Nazionale Palestinese e l’evoluzione di Hamas. Ha lavorato come producer per i grandi network televisivi americani in Medio Oriente — NBC, BBC, 60 Minutes, tra gli altri — accompagnando le principali testate internazionali nei territori palestinesi e offrendo analisi considerate tra le più lucide e coraggiose. È celebre per le sue interviste esclusive ai protagonisti della storia palestinese: da Yasser Arafat ad Abu Mazen, fino al fondatore di Hamas, lo sceicco Ahmed Yassin. Il suo lavoro combina conoscenza diretta dei centri di potere palestinesi, rigore giornalistico e un raro coraggio personale nel raccontare ciò che molti evitano di dire apertamente. Lei segue la politica palestinese da oltre quarant’anni. Il 7 ottobre l’ha sorpresa oppure no? «Mi ha sorpreso il tempismo, non l’ideologia. L’attacco è arrivato mentre Israele allentava il blocco, aumentava i permessi di lavoro, entravano soldi e investimenti a Gaza. Tutti dicevano che Hamas fosse dissuaso da un nuovo conflitto. Se mi avessero chiesto due settimane prima le probabilità di guerra, avrei risposto: zero». Che cosa l’ha colpita di più nel modo in cui l’attacco è stato lanciato? «La brutalità dei crimini. Ho visto due Intifade, ma il 7 ottobre ho visto cose mai viste. Guardando i video insieme ai colleghi ho capito dall’accento che quegli uomini venivano da Gaza. E in tutto quel materiale non ho trovato un solo palestinese che dica al gruppo: “Fermiamoci, lì c’è una famiglia”». Dov’erano l’esercito e l’intelligence israeliana quel giorno? «Non ho risposte soddisfacenti. C’erano poche centinaia di soldati, la tecnologia – telecamere, sensori, satelliti – non ha funzionato. Si aspettavano forse una piccola infiltrazione, hanno mandato forze ridotte, finite in imboscate. È il frutto anche di anni di arroganza: per anni ho riportato le minacce di Hamas e molti israeliani mi dicevano che non avrebbero mai osato». Perché allora dice che, in fondo, non è rimasto sorpreso? «Perché Hamas ha fatto esattamente ciò che promette dal 1987: jihad per sostituire Israele con uno Stato islamico. Ho intervistato quasi tutti i loro leader: sono sempre stati chiari. Rapimenti, omicidi, attentati suicidi, razzi – il 7 ottobre, per loro, è solo una nuova fase, lo stesso “From the river to the sea” che oggi si sente nelle piazze occidentali». Quanto pesa l’incitamento religioso e politico dentro la società palestinese? «È enorme e dura da decenni. Moschee, media, scuole, social diffondono l’idea che gli ebrei siano malvagi, che profanino moschee e rubino la terra. Non è solo Hamas: nel 2015 Abbas parlò di “piedi sporchi” degli ebrei su al-Aqsa e di sangue “puro” versato per la moschea. Due settimane dopo iniziò un’ondata di accoltellamenti. Intanto la moschea è ancora in piedi». Che cosa significa davvero lo slogan “From the river to the sea, Palestine will be free” che sentiamo nelle piazze occidentali? «È uno slogan di Hamas. La prima volta l’ho sentito alla fine degli anni Ottanta a Gaza; la seconda su un campus in Canada, gridato da ragazzi che non erano palestinesi. Quando ho chiesto a Khaled Abu Toameh cosa volessero fare degli ebrei non sapevano rispondere. Molti attivisti occidentali non sanno dov’è Ga2a né cos’è Hamas: spesso è più odio verso Israele che solidarietà vera con i palestinesi». Perché dice che i soldi non bastano a moderare Hamas o la società palestinese? «Perché il denaro calma solo per poco. Prima del 7 ottobre Ga2a aveva ristoranti di lusso, cantieri, soldi da Qatar, Europa, Israele. Le due Intifade sono esplose in fasi di crescita economica. Ho studiato molti attentatori suicidi: avevano casa di proprietà, erano studenti, professionisti. Il problema è l’educazione: se a casa e in TV ti ripetono che gli ebrei sono demoni, i 10.000 dollari al mese non cambiano il risultato». I palestines capire che Qual è, alla fine, la vera costruire u natura del conflitto israelo-palestinese secondo lei? sulla Jihad «Non è solo un problema di checkpoint o di insediamenti. Il nodo è che molti nel mondo arabo-musulmano non accettano il diritto di Israele a esistere. Per molti palestinesi Israele è un unico grande “insediamento” da liberare. I due campi interni chiedono entrambi il 100%: o del 1948 o del 1967. Israele realisticamente può offrire meno, ma non vedo un leader palestinese disposto ad accettarlo». Che ruolo hanno i regimi arabi in questa radicalizzazione? «Per anni molti leader arabi hanno usato l’odio verso Israele come distrazione dalle proprie responsabilità. Hanno incitato le masse e ora la gente è più radicale di loro. Con poche eccezioni – Emirati e Bahrein – nessuno dice ai palestinesi che servono concessioni. Intanto in Cisgiordania e a Gaza la gente è governata da mafie e bande: Hamas è terribile, ma l’Autorità palestinese non è molto meglio, l’OLP si comporta da mafia. E a Ga2a non c’è solo Hamas: ci sono almeno una dozzina di gruppi armati». Se la minaccia è esistenziale, qual è la risposta legittima di Israele a un attore come Hamas? «Se qualcuno si piazza davanti a casa tua dicendo che vuole rapire i tuoi figli e bruciarti vivo, non puoi semplicemente aspettare. Hamas ripete che Israele non ha diritto di esistere: non capisco perché Israele non possa dire lo stesso su Hamas. Allo stesso tempo, dopo due anni di guerra Hamas è ancora in piedi: molte capacità militari sono state distrutte, ma l’organizzazione resta e si negozia ancora con lei sul futuro di Gaza. Per me è un fallimento strategico e politico». Che lezione dovrebbero trarre Israele, i palestinesi e l’Occidente? «Israele deve smettere di sottovalutare un nemico che dice apertamente cosa vuole fare. I palestinesi devono capire che non si può costruire un futuro su Jihad, martirio e rifiuto assoluto di ogni compromesso. E l’Occidente deve smettere di illudersi che bastino assegni o slogan: senza cambiare l’educazione e senza leader coraggiosi, continueremo a girare in tondo tra nuove illusioni e nuova violenza».
Se l’odio per gli ebrei si riversa sull’Europa
Halter denuncia l’esplosione dell’antisemitismo europeo, con dati quasi raddoppiati nel 2025. L’analisi coglie un problema reale – la sovrapposizione tra critica a Israele e ostilità antiebraica – ma utilizza un linguaggio a tratti eccessivamente allarmistico, che fatica a distinguere tra livelli diversi di odio, propaganda e attivismo politico.
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di Marek Halter
Se l’odio per gli ebrei si riversa sull’Europa
Pochi giorni fa, abbiamo celebrato l’87esimo anniversario della Notte dei Cristalli a Berlino, quando si bruciarono gli ebrei, oltre che i loro libri: quello fu il primo passo verso l’annientamento degli ebrei europei, quello che lo storico polacco Raphael Lemkin chiamò nel 1944 il “genocidio”. Qual è la differenza tra “massacro” e “genocidio”? L’intenzionalità. Alla conferenza di Wannsee del 20 gennaio 1942, i nazisti si dettero l’obiettivo di ripulire completamente l’Europa dai suoi ebrei. Fecero riferimento a quello che gli ottomani avevano fatto con gli armeni all’inizio del secolo. A distanza di ottant’anni, l’odio riappare sotto un’altra forma: il 7 ottobre 2023, un commando di Hamas ha fatto irruzione a un festival pacifista israeliano accanto al confine di Ga2a, uccidendo 1.188 persone, uomini, donne e bambini, ferendone 4.834 e prendendo in ostaggio 251 persone, tra cui molti bambini. È stato uno dei più grandi massacri di ebrei dalla Seconda guerra mondiale. Qualora si rivelasse essere – come risulta da alcuni documenti di cui gli israeliani sono entrati in possesso- il primo atto del progetto di annientamento degli ebrei di Israele, si tratterebbe di genocidio. In caso contrario, si parla di massacro. Atroce, certo, ma massacro. La differenza tra i due avvenimenti è l’esistenza dello Stato di Israele. Uno Stato che, aggredito, risponde. Come tutti gli Stati. Che fortuna insperata per gli antisemiti di tutto il mondo! Gli ebrei uccidono. È un’occasione, forse, per ripulire la cattiva coscienza ereditata dai testimoni di uno dei più grandi massacri della Storia, se non altro per numero di morti, e i mezzi adottati per liquidarli, quelli degli ebrei durante la Seconda guerra mondiale, sotto lo sguardo indifferente dell’umanità. Ed ecco che manifestazioni oceaniche riempiono le strade delle grandi città di tutto il mondo. Sono manifestazioni che superano per ampiezza quelle contro la guerra del Vietnam a suo tempo. Con una palese differenza: all’epoca la gente gridava “pace in Vietnam!”. Dalla bocca di coloro che oggi solidarizzano con Ga2a, invece, la parola “pace” è scomparsa. A rappresentare il Male, il Male da combattere, non è più il governo, ma tutto Israele. Tanto peggio per gli artisti e i cantanti pacifisti israeliani che vengono fischiati quando prendono parte ai festival internazionali. Tanto peggio per gli eruditi israeliani che contestano la politica dei loro governi e non sono più invitati ai congressi scientifici. Tanto peggio per gli studenti israeliani, che in passato erano invitati a trascorrere le loro vacanze con gli amici all’estero. Tanto peggio, soprattutto, per i francesi, gli americani o gli inglesi di origine ebraica che vengono ridotti soltanto alla loro appartenenza etnica. Oggi sono quei lebbrosi medievali responsabili di tutte le nostre sventure di cui parla Jean Delumeau in “La paura in Occidente”. Secondo il rapporto del 2024 dell’Fbi, negli Stati Uniti – dove risiede la maggioranza degli ebrei nel mondo – il 70% dei crimini d’odio a sfondo religioso colpisce loro. Quanto alla Francia, secondo un’inchiesta del settimanale L’Express, il 57% di tutte le aggressioni a sfondo razzista prende di mira gli ebrei che costituiscono meno dell’1% della popolazione. In Italia, la situazione sta degenerando nello stesso modo, a tutta velocità. L’Osservatorio italiano antisemitismo stima in 877 le azioni antisemite commesse dall’inizio dell’anno in corso, contro le 454 dello stesso periodo dell’anno scorso. La maggioranza di questi episodi si verifica online, soprattutto sui social network come Facebook, Instagram e TikTok. In tutti i conflitti armati, si inneggia a coloro che si oppongono alla guerra voluta e guidata dai loro dirigenti politici. Ricordiamoci dell’accoglienza riservata a Joan Baez o a Bob Dylan mentre le bombe americane uccidevano con il napalm centinaia di migliaia di vietnamiti. Di questi tempi, abbiamo assistito a una sola manifestazione a sostegno di quei milioni di giovani israeliani che protestano tutti i giorni contro la politica del loro governo, contro la guerra di Ga2a, per la liberazione degli ostaggi e per una soluzione a due Stati? Questo, infatti, era quanto prevedevano gli accordi del 13 settembre 1993 firmati tra il Primo ministro israeliano Yitzhak Rabin e il capo dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina, Yasser Arafat, alla presenza del presidente americano Bill Clinton a Washington. Quell’accordo oggi è dimenticato sia dai palestinesi stessi sia da Israele e dai media internazionali. Quanto ai milioni di ebrei sparsi nel mondo, sospettati dai benpensanti di essere “conniventi con Israele”, non resta loro altro da fare che cercare riparo e protezione presso i Paesi in cui abitano da secoli, nella maggior parte dei casi, e brandire la memoria della Shoah. I nuovi antisemiti di fatto stanno ritorcendo la Shoah, che i negazionisti non sono riusciti a far vacillare, contro gli ebrei stessi. Gli ebrei che, in questo periodo, stanno “genocidiando” un altro popolo. Questo verbo non esisteva nei dizionari, ma è stato inventato proprio in occasione della guerra di Ga2a. In ogni caso, avrebbero potuto utilizzare un altro termine, per esempio “populicidio”, inventato da Gracchus Babeuf sotto la Rivoluzione francese per parlare dei massacri delle popolazioni civili in Vandea. «Dare un nome sbagliato alle cose contribuisce all’infelicità del mondo», diceva Albert Camus. È sufficiente guardarci attorno per renderci conto che Camus aveva ragione. Nel caso della maggior parte di coloro che urlano “Ga2a! Ga2a!”, non è questione di difendere un popolo in guerra, bensì di togliere l’ultima difesa a un altro popolo che è stato sempre in pericolo di morte. Ma, come tutte le guerre, quella di Ga2a è finita. Avrebbe potuto finire prima, ma la Storia non segue un calendario preciso. E così, dopo la gioia di ritrovare i vivi, si inizierà a piangere i morti e la distruzione. Poi verrà il tempo dei regolamenti di conti. Hamas sta già liquidando i suoi “traditori”, prima di essere giudicata tra poco dal suo stesso popolo per i crimini che ha commesso. In Israele, i tribunali sono impegnati contro i responsabili che hanno permesso il 7 ottobre. Il presidente Trump ha chiesto in anticipo al suo omologo israeliano Herzog la grazia per il Primo ministro Netanyahu. E poi? Che cosa accadrà? Il progetto si ferma qui. Certo, esiste una casa comune – gli Accordi di Abramo – che può, in attesa di una soluzione palestinese, accogliere tutti quanti. E non è poco. I media ne parleranno per almeno un anno. E da noi? Che cosa sta succedendo da noi in Francia, e da noi in Europa, dove il conflitto di Ga2a è stato usato dalle forze politiche come un mezzo di mobilitazione e ha emancipato il razzismo, soprattutto l’odio per gli ebrei, come non accadeva dai tempi dell’epoca nazista? Come si può rimettere il dentifricio antisemita dentro il suo tubetto? Nel frattempo, le televisioni di tutto il mondo ci mostrano schiere di palestinesi che prendono la strada del ritorno. Il popolo “genocidiato” risuscitato. Adesso, in ogni caso, occorre accoglierlo, farlo stabilire. Io, bambino a Varsavia, sogno che il pesante cancello di ferro di Auschwitz si spalanchi di colpo e che ne escano milioni di ebrei bruciati, “genocidiati”, resuscitati, e che si incamminino verso le loro case. Ma non è altro che un sogno. Quanto a noi, saremo capaci di adire i tribunali contro coloro che, vomitando odio contro gli ebrei, sono responsabili della morte di esseri umani e del deterioramento dell’edificio democratico costruito dalle generazioni prima di noi? Saremo capaci di riallacciare il dialogo tra comunità che nello sguardo hanno odio per l’altro, un odio che impiegheremo molto tempo a estinguere? Bisognerà rispondere a queste domande. E rapidamente. L’odio, infatti, non aspetta mai.
L’economia palestinese è collassata
Cruciati trasforma il rapporto ONU in un atto d’accusa unidirezionale contro Israele, ignorando completamente il ruolo di Hamas, la corruzione interna e la scelta di investire nelle infrastrutture militari anziché civili. Il pezzo riduce un quadro complesso a una narrazione ideologica e non offre alcuna chiave di lettura per comprendere come si possa uscire dall’attuale crisi.
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di Chiara Cruciati
L’economia palestinese è collassata
L’economia dei Territori palestinesi occupati è tornata indietro di vent’anni, gettando milioni di persone nella povertà. A certificarlo è l’Onu mentre Gaza è sommersa da pioggia e macerie e in Cisgiordania i coloni ricevono in premio terre dal governo israeliano. Il disegno di legge approvato ieri dalla commissione esteri e difesa della Knesset è volta, nelle dichiarate intenzioni del Likud che l’ha scritta, a «rimuovere le discriminazioni e ripristinare il naturale diritto dei cittadini israeliani alla loro terra». Prevede la rimozione degli ostacoli all’acquisto di terre nella Cisgiordania occupata, a oggi già possibile ma solo passando per compagnie registrate al Cogat, l’ente che «gestisce» per Israele gli affari civili nei Territori palestinesi occupati. Illegalmente, secondo il diritto internazionale, fattore che non ha mai inciso sull’appropriazione di terre altrui. CI SAREBBE da ridere se non fosse solo l’ultima iniziativa di un processo di colonizzazione e apartheid lungo otto decenni. Il Likud nella sua proposta non fa menzione degli ostacoli legislativi che impediscono ai palestinesi cittadini israeliani di acquistare terre nello Stato di cui sono parte (Israele, appunto), né delle continue confische subite dai palestinesi in Cisgiordania. Né tanto meno delle violenze quotidiane e brutali con cui i coloni israeliani fanno avanzare l’agenda di Stato. L’elenco è troppo lungo per le colonne di un giornale. Per citare le ultime: l’incendio appiccato ieri a una fattoria nel villaggio di Mukhamas, vicino Ramallah, e la creazione dell’ennesimo outpost a Shallal al-Auja da cui pochi mesi fa hanno cacciato una comunità beduina a forza di aggressioni. E poi ci sono i morti ammazzati: se il caso dell’attivista del villaggio di Umm al Kheir, Odeh Hathalin, è il più noto (con il suo omicida, il colono Yinon Levi – «punito» con tre giorni di domiciliari), sono almeno 21 gli omicidi di palestinesi per mano di coloni israeliani rimasti senza colpevoli. I numeri li ha dati lunedì l’ong israeliana B’Tselem, descrivendo le uccisioni dei palestinesi come parte della più vasta campagna di pulizia etnica in corso in Cisgiordania. Dal 7 ottobre 2023, sono 1.004 i palestinesi uccisi tra West Bank e Gerusalemme est. Di questi 21 perpetrati direttamente dai coloni, senza che ne seguissero indagini, arresti e incriminazioni. L’ultimo omicidio risale a domenica: il 20enne Bara Khairy Ali Maali, caduto sotto i colpi di pistola dei coloni durante un’incursione nel villaggio di Deir Jarir, compiuta fianco a fianco con i soldati israeliani. L’impunità è assoluta perché serve uno scopo, parte di un matrix di confische, violenze, chiusure che hanno lasciato la Cisgiordania in uno stato di oppressione senza precedenti. Anche dal punto di vista economico: ieri l’Onu lo ha certificato in un rapporto in cui definisce il de-sviluppo di questi due anni come uno dei peggiori a livello globale dal 1960. «I DANNI INGENTI alle infrastrutture, alle risorse produttive e ai servizi pubblici hanno vanificato decenni di progressi socioeconomici nei Territori palestinesi occupati», scrive l’agenzia Unctad. Il Pil è regredito ai livelli del 2010, quello procapite al 2003, trascinando nella povertà milioni di persone. In Cisgiordania e soprattutto a Gaza, un crollo che è la conseguenza del genocidio ma anche di vent’anni di blocchi ed embarghi che hanno reso l’economia palestinese totalmente dipendente dagli aiuti esterni. IL GRIDO DI ALLARME dell’Onu giunge nel pieno di una tregua fittizia che non sta portando a nessun miglioramento nella vita della Striscia. Con all’orizzonte una ricostruzione selettiva, gestita da Usa e Israele solo su metà territorio, i palestinesi sono soli, alle prese con i raid che non cessano (anche ieri 17 feriti, 14 i corpi recuperati sotto le macerie), la diffusione di malattie a causa delle condizioni igieniche e le piogge incessanti che stanno spazzando via anche i pochi rifugi di fortuna che sono casa per due milioni di sfollati da ormai 25 mesi. Le tende, già vetuste, si sbriciolano, il fango si mescola alle macerie, l’acqua distrugge i rari averi e il gelo congela i corpi come le speranze. Le coperte sono zuppe, non scaldano. E dai valichi, aperti da Israele quasi solo ai camion commerciali, non passano né tende nuove né vestiti invernali. Una delle 500 violazioni della tregua da parte israeliana, anche quella impunita. NE HANNO discusso Turchia, Qatar ed Egitto, ieri al Cairo, mentre Hamas consegnava a Tel Aviv il cadavere del 26esimo israeliano morto a Gaza.
In Libano 127 morti in un anno: chiamatela tregua di Israele
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di Umberto De Giovannangeli
In Libano 127 morti in un anno: chiamatela tregua di Israele
Almeno 127 civili sono stati uccisi negli attacchi delle Forze di difesa israeliane (Idf) contro il Libano da quando è entrato in vigore il cessate il fuoco quasi un anno fa, lo scorso 27 novembre. Lo ha riferito l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani, che ha chiesto un’indagine e il rispetto del cessate il fuoco. Il portavoce Thameen al Kheetan ha dichiarato in una conferenza stampa a Ginevra: «A quasi un anno dal cessate il fuoco concordato tra Libano e Israele, continuiamo ad assistere a un’escalation degli attacchi da parte dell’esercito israeliano». «Ciò ha provocato la morte di civili e la distruzione di obiettivi civili in Libano, insieme a preoccupanti minacce di attacchi più ampi e intensi», ha aggiunto il funzionario, precisando che la cifra indicata include solo i decessi che l’organismo è stato in grado di verificare e che il numero reale potrebbe essere più alto. L’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti ha chiesto che vengano condotte indagini «imparziali e rapide» sui raid aerei condotti dall’aviazione israeliana su obiettivi nel sud del Libano. «Devono essere avviate indagini rapide e imparziali sull’attacco ad Ain el-Hilweh», che ha colpito un campo profughi palestinese, «così come su tutti gli altri incidenti che comportano possibili violazioni del diritto umanitario internazionale da parte di tutte le parti, prima e dopo il cessate il fuoco», ha affermato Al-Kheetan. L’esercito libanese sta attuando il suo piano per disarmare le milizie. Il Libano ha «preso precauzioni per affrontare qualsiasi escalation da parte di Israele e le sue possibili conseguenze». Lo ha detto il primo ministro libanese Nawaf Salam a Beirut, aggiungendo che il Libano è «in uno stato di guerra unilaterale. Continuiamo a chiedere il sostegno internazionale per fare pressione su Israele». Dal Libano a Gaza. Le forti piogge cadute nelle ultime ore sulla Striscia di Gaza stanno aggravando le condizioni degli sfollati. Decine di tende che ospitano gli sfollati sono allagate nella zona di Al-Mawasi, a Khan Younis, nel sud della Striscia di Gaza, riferisce l’agenzia di stampa palestinese Wafa. I soccorritori affermano che decine di tende si trovano nelle pozzanghere provocate dalla pioggia. Le operazioni militari israeliane a Gaza hanno provocato la distruzione totale o parziale del 92% degli edifici residenziali nella Striscia e parte della popolazione ha trovato riparo nelle tende per sfollati, aggiunge Wafa. È in gioco la stessa sopravvivenza di Gaza”, hanno avvertito le Nazioni Unite in un rapporto nel quale si invita la comunità internazionale a elaborare “senza indugio” e in modo coordinato un “piano di ripresa globale”. I raid dell’Idf “hanno eroso tutti i pilastri della sopravvivenza”, dal cibo agli alloggi all’assistenza sanitaria, “minando la governance e facendo sprofondare” l’enclave “in un abisso”, si dice ancora nel dossier della Conferenza Onu sul commercio e lo sviluppo (Unctad). Gaza è ora, a causa degli attacchi militari israeliani, “in uno stato di rovina totale”, prosegue l’Unctad, che stima in circa 70 miliardi di dollari la somma per ricostruire il territorio palestinese. E la chiamano “pace”.
Gli special rapporteur delle Nazioni Unite proteggono i terroristi di Gaza
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di Iuri Maria Prado
Gli special rapporteur delle Nazioni Unite proteggono i terroristi di Gaza
È capitanato da Francesca Albanese la sedicente avvocata secondo cui Hamas ha fatto parecchie cose molto buone – un manipolo di “special rapporteur” delle Nazioni Unite ha buttato giù un documento diretto al boicottaggio del piano per Gaza adottato dalla risoluzione del Consiglio di Sicurezza del 17 novembre. L’appello messo insieme da questi “esperti” – che si dilunga nell’elenco delle presunte violazioni israeliane del cessate il fuoco senza menzionare quelle non presunte, ma certe, compiute dalle formazioni terroristiche di Gaza – riesce a superare per improntitudine i comunicati fatti diffondere l’altro giorno dalla medesima Albanese, già impegnata ad accusare l’Unione europea di comportarsi come un “avvoltoio” nella partecipazione “coloniale” a quel piano per la smilitarizzazione della Striscia. Anche più disinibito, quest’ultimo documento riesce a esibirsi nello sproposito per cui “non ci può essere pace duratura senza responsabilità per i crimini commessi dal 7 ottobre 2023”. Che uno dice: vabbè, 7 ottobre, dunque parliamo dei crimini di Hamas. Macché. I crimini sono quelli di Israele: dal 7 ottobre. E sulla scorta di questa bella premessa – liquidata la risoluzione per Gaza del Consiglio di Sicurezza come “il modello che ha radicato il regime di apartheid coloniale israeliano” – gli “esperti” sollecitano gli Stati membri a sabotare il piano adottando misure alternative. Quali? Sanzioni a Israele, embargo di forniture di armi a Israele, processi a Israele. E infine la chicca: “Un intervento internazionale guidato dalle Nazioni Unite se gli attacchi persistono e la situazione umanitaria peggiora ulteriormente”. La gravità di questi comunicati non riguarda tanto – o non solo – il carattere formalmente eversivo per cui si segnalano, con questi “consulenti” impegnati a contestare e a lavorare contro la stessa organizzazione a cui prestano consulenza. È la sostanza del loro impegno militante a fare ben più grave la faccenda. Si tratta, infatti, di un’attività apertamente rivolta a intralciare le iniziative di smilitarizzazione ed esautoramento delle formazioni terroristiche di Ga2a, iniziative che il Consiglio di Sicurezza ha affidato alla “Forza Internazionale di Stabilizzazione temporanea” che dovrebbe essere istituita dagli Stati membri in collaborazione con il “Board of Peace”. Ricordiamo che cosa dovrebbe assicurare, tra l’altro, quel dispositivo: “La distruzione e la prevenzione della ricostruzione delle infrastrutture militari, terroristiche e offensive, nonché il disarmo permanente delle armi detenute da gruppi armati non statali” a Gaza. Questi “esperti” vogliono proteggere Gaza? Sì, a modo loro: non vogliono proteggere Gaza da Hamas, ma dalle forze legittime che vogliono liberarla da Hamas. Che è un altro modo per dire che questi esperti proteggono Hamas.
A Gaza forti piogge allagano decine di tende di famiglie con bambini
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di Redazione
A Gaza forti piogge allagano decine di tende di famiglie con bambini
È di nuovo il maltempo ad aggravare la situazione a Ga2a. Le forti piogge cadute nelle ultime ore, riferisce la Wafa, hanno allagato decine di tende che ospitano gli sfollati nella zona di AlMawasi, a Khan Younis, nel sud della Striscia: famiglie con bambini si trovano ora nelle pozzanghere e nel fango. Le operazioni militari israeliane dal 7 ottobre 2023, del resto, hanno provocato la distruzione totale o parziale del 92% degli edifici residenziali nella città della Striscia, e gran parte della popolazione vive ormai per strada e nei campi profughi. «È in gioco la stessa sopravvivenza di Ga2a», hanno avvertito le Nazioni Unite in un rapporto nel quale si invita la comunità internazionale a elaborare «senza indugio» e in modo coordinato un «piano di ripresa globale». I raid dell’Idf «hanno eroso tutti i pilastri della sopravvivenza», dal cibo agli alloggi all’assistenza sanitaria, «minando la governance e facendo sprofondare» l’enclave «in un abisso», si dice ancora nel dossier della Conferenza Onu sul commercio e lo sviluppo (Unctad). Intanto, anche la contestata e discussa Ga2a Humanitarian Foundation (Ghf), sostenuta da Israele e Usa per portare aiuti dopo il blocco imposto da Tel Aviv, ha annunciato la fine delle attività. Note sono le accuse secondo le quali i suoi responsabili per la sicurezza abbiano a più riprese aperto il fuoco sui civili in coda per il cibo. Sul terreno continuano i raid. Una persona è rimasta vittima stamattina di un attacco dell’Idf a Bani Suheila, est di Khan Younis. Lo affermano fonti sanitarie citate da «The Times of Israel». Ma l’esercito israeliano ha annunciato di aver ucciso anche «due terroristi» che avevano oltrepassato la “Linea gialla”. Mentre la Jihad Islamica in una nota ha confermato di aver ritrovato il corpo di un ostaggio, durante lavori di scavo nella parte centrale, a nord di Nuseirat. Proseguono, poi, i raid dell’Idf nelle aree meridionali del Libano. Secondo l’agenzia di stampa statale libanese National News Agency (Nna) colpi di artiglieria delle forze armate israeliane ieri sono stati sparati in molti villaggi nel sud del Libano, tra cui Aitaroun e Blida.
Binance citata per riciclaggio pro Hamas
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di Ester Di Lollo
Binance citata per riciclaggio pro Hamas
Le vittime dell’attacco di Hamas contro Israele del 7 ottobre 2023 hanno citato in giudizio Binance, il più grande exchange di criptovalute al mondo, e il suo fondatore Changpeng Zhao (detto Cz), accusandoli di aver facilitato pagamenti per milioni di dollari a Hamas e ad altri gruppi definiti terroristici dagli Stati Uniti. Secondo la denuncia, Binance avrebbe continuato a riciclare denaro per Hamas anche dopo essersi dichiarata colpevole nel novembre 2023 e aver pagato una sanzione penale di 4,32 miliardi di dollari per violazioni delle leggi federali sul riciclaggio di denaro e sulle sanzioni. In una nota, Binance ha rifiutato di commentare la causa, affermando tuttavia che «rispettiamo pienamente le leggi sulle sanzioni riconosciute a livello internazionale». Cz si è dichiarato colpevole di violazioni delle norme anti-riciclaggio legate al patteggiamento di Binance e ha scontato una pena detentiva di quattro mesi. Il presidente Donald Trump lo ha graziato il 23 ottobre. Sempre secondo la denuncia, ingenti somme di criptovalute sarebbero passate attraverso conti di persone senza mezzi finanziari apparenti per giustificarle. Tra questi, una donna venezuelana che sembrerebbe gestire una società brasiliana legata al settore zootecnico, Amazonia Farm. Il suo conto, aperto nel 2022 quando aveva 26 anni, avrebbe ricevuto oltre 177 milioni di dollari in depositi, mentre sarebbero stati effettuati prelievi per oltre 130 milioni.
I dispersi che il mondo non vede: migliaia i corpi sotto le macerie
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di Eman Abu Zayed
I dispersi che il mondo non vede: migliaia i corpi sotto le macerie
Dalla fase iniziale della guerra a Gaza, i dati del ministero della sanità indicano che oltre 7mila persone sono presumibilmente sepolte sotto le macerie. Tra queste, circa 3.600 famiglie hanno denunciato la scomparsa dei propri cari, una tragedia umana immensa che va ben oltre le cifre ufficiali delle vittime. IN MEZZO A QUESTI numeri dolorosi, porto anch’io una parte di questa tragedia. La famiglia di mio padre è tra i dispersi sotto le macerie fin dai primi mesi della guerra. Dieci persone, tra cui bambini, sono ancora lì, senza che abbiamo potuto salutarle. A oggi non abbiamo potuto garantir loro una sepoltura dignitosa, né pregare su di loro; non esiste una tomba da visitare, né un luogo che possa alleviare il peso di questa perdita. Attendere per mesi un segno, una notizia, un indizio, è un dolore che non appare in nessuna statistica, ma che abita la vita di chiunque abbia qualcuno ancora sotto le macerie. Le squadre di soccorso a Gaza lavorano in una delle condizioni umanitarie più difficili al mondo. Per raggiungere i dispersi servono macchinari pesanti per sollevare e rimuovere le macerie, ma la maggior parte di queste attrezzature non è disponibile o è fuori uso a causa dei bombardamenti, della mancanza di carburante e dell’assenza di pezzi di ricambio. Molti edifici sono crollati uno sull’altro, creando strati enormi di cemento impossibili da penetrare con strumenti rudimentali. Inoltre, le zone di ricerca vengono spesso bombardate, costringendo i soccorritori a fermarsi o a ritirarsi per proteggere la propria vita. Il recupero dei dispersi estremamente difficile e lento lascia migliaia di famiglie in un’attesa estenuante. In una breve conversazione con Mohammed al-Madhoun, uno dei soccorritori, la stanchezza nella sua voce era evidente ancora prima delle parole. Mi ha raccontato che la parte più difficile non è solo il peso delle macerie, ma il peso del momento stesso: quando sentono la voce di un bambino che chiede aiuto da sotto il cemento e non hanno gli strumenti adeguati per raggiungerlo rapidamente. MOLTE OPERAZIONI vengono svolte a mani nude o con attrezzi semplicissimi, del tutto insufficienti rispetto alla portata della catastrofe, e nonostante ciò continuano a tentare, un passo dopo l’altro. Mohammed mi ha parlato delle ore passate con i colleghi nelle zone bombardate, muovendosi pur sapendo che ogni istante potrebbe essere l’ultimo. Eppure si dirigono sempre verso i luoghi dove si pensa possano esserci dei bambini, convinti che salvare anche una sola vita valga ogni rischio. Mi ha descritto i suoi compagni come persone che «entrano nei siti come se entrassero nelle loro case», senza pensare ad altro che a raggiungere quella voce, quel respiro nascosto tra le macerie. Si sono mobilitati sforzi straordinari per recuperare i resti di ventotto israeliani, mentre migliaia di palestinesi rimangono sotto le macerie senza squadre di soccorso, senza mezzi, senza il minimo interesse globale. Questo divario non riflette solo un pregiudizio politico, ma un’idea gerarchica del valore umano, in cui la vita di alcuni riceve priorità assoluta mentre altre vengono lasciate a un destino silenzioso, percepito solo dalle loro famiglie. Un’ingiustizia che colpisce profondamente la psiche delle persone, costrette a vivere tra perdita e incertezza, private perfino del diritto basilare di seppellire i propri cari, come se la loro morte non meriti riconoscimento né compassione. Lasciare migliaia di vittime sotto le macerie non è un destino inevitabile, ma il risultato diretto dell’assenza di giustizia e della decisione del mondo di voltarsi dall’altra parte rispetto alla sofferenza di un popolo che chiede soltanto dignità. C’È UN BISOGNO urgente di meccanismi umanitari indipendenti e di un intervento internazionale che ponga fine a questa disuguaglianza e che restituisca ai morti il loro diritto a essere ritrovati, identificati e sepolti con dignità. Restituire dignità ai morti è il primo passo per restituirla ai vivi e per costruire una memoria fondata non sulla rimozione, ma sul riconoscimento e sulla giustizia.
Le donne dimenticate di Gaza: tra violenze, rovine e inondazioni
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di Ernesto Ferrante
Le donne dimenticate di Gaza: tra violenze, rovine e inondazioni
Le donne palestinesi hanno pagato un prezzo altissimo per il conflitto a Gaza e l’occupazione illegale della Cisgiordania da parte di Israele. Oxfam ha denunciato in un nuovo rapporto, pubblicato in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, l’inerzia della comunità internazionale e delle Nazioni Unite. Le detenute palestinesi sono state vittime di abusi sistematici, sessuali e di genere, che, stando alle indagini dell’Onu, potrebbero costituire crimini di guerra e contro l’umanità. Ankara ha parlato apertamente di doppio standard. “La barbarie nei confronti delle donne palestinesi di Gaza non ha ricevuto la risposta che meritava, come abbiamo visto negli ultimi due anni”, ha dichiarato il presidente turco Recep Tayyip Erdogan. “Anche questa volta l’identità della vittima e dell’aggressore ha determinato il tono della reazione”, ha aggiunto Erdogan, citato dall’agenzia di stampa Anadolu. Le tende di migliaia di palestinesi sono state sommerse dalle inondazioni provocate dalle forti piogge cadute nell’ultima settimana. Alcune sono state completamente spazzate via quando l’acqua ha raggiunto 40-50 centimetri in diverse zone dell’enclave costiera. Un ospedale da campo ha dovuto sospendere le operazioni. Amjad al Shawa, responsabile della Rete delle Ong palestinesi, ha sottolineato l’urgente bisogno di almeno 300.000 nuove tende per ospitare circa 1,5 milioni di persone ancora sfollate. Le operazioni militari dello Stato ebraico hanno causato la distruzione totale o parziale del 92% degli edifici residenziali nella Striscia. I due anni di guerra a Gaza e le restrizioni già vigenti hanno innescato “la più grave crisi economica mai registrata”. Nel report “Sviluppi nell’economia del Territorio Palestinese Occupato” redatto dall’Organizzazione delle Nazioni Unite per il Commercio e lo Sviluppo (Unctad), si legge che “l’intera popolazione è sprofondata in una povertà multidimensionale” mentre “la Cisgiordania sta attraversando la più grave recessione economica mai registrata, causata da una maggiore insicurezza, restrizioni alla circolazione e all’accesso e dalla perdita di opportunità produttive in tutti i settori dell’economia”. L’agenzia Onu ha evidenziato che “alla fine del 2024, il Pil palestinese è tornato al livello del 2010, mentre il Pil pro capite è tornato a quello del 2003, cancellando 22 anni di progressi nello sviluppo in meno di due anni”. Il costo della ricostruzione è stato stimato in oltre 70 miliardi di dollari. Occorre un piano di ripresa globale con assistenza internazionale coordinata, ripristino dei trasferimenti fiscali e delle misure per allentare le restrizioni al commercio, alla circolazione e agli investimenti. Una persona è stata uccisa dal fuoco delle Idf a Bani Suheila, a est di Khan Younis. Israele ha ricevuto, tramite la Croce Rossa, la bara di un ostaggio deceduto, che è stata consegnata ai militari all’interno della Striscia. A riferirlo è stato l’ufficio del primo ministro Benjamin Netanyahu. Sono ancora due i corpi che Hamas deve restituire in base all’accordo di cessate il fuoco. Delegazioni di Egitto, Qatar e Turchia si sono incontrate al Cairo per discutere l’attuazione della seconda fase dell’accordo previsto nell’ambito del piano di pace di Donald Trump. Alla riunione hanno partecipato i capi dei servizi segreti egiziano e turco, insieme al primo ministro del Qatar, Mohammed bin Abdulrahman bin Jassim Al-Thani. L’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti ha chiesto che vengano avviate indagini “imparziali e rapide” sui raid aerei condotti dall’aviazione israeliana su obiettivi nel sud del Libano che comportano possibili violazioni del diritto umanitario internazionale da parte di tutte le parti, prima e dopo il cessate il fuoco. Sono almeno 127 i civili uccisi nei bombardamenti israeliani nel Paese dei Cedri. Il numero include solo i decessi verificati. “A quasi un anno dal cessate il fuoco concordato tra Libano e Israele, continuiamo ad assistere a crescenti attacchi da parte dell’esercito israeliano, che hanno causato l’uccisione di civili e la distruzione di obiettivi civili in Libano, insieme alle allarmanti minacce di un’offensiva più ampia e intensificata”, ha affermato Thameen Al-Kheetan, portavoce dell’ufficio delle Nazioni Unite per i diritti umani. Per il primo ministro Nawaf Salam, il Libano è “in uno stato di guerra unilaterale”. Beirut continua a invocare il sostegno internazionale per fare pressione su Israele.
Chi viola la tregua sarà ucciso
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di Roberto Motta
Chi viola la tregua sarà ucciso
È il primo omicidio mirato a Beirut dalla decisione del cessate il fuoco di un anno fa Chi vìola la tregua sarà ucciso Tabatabai (un capo di Hezbollah) ne è la dimostrazione on un’operazione mirata nella tarda serata di domenica, l’Aeronautica Militare israeliana ha eliminato Haytham Ali Tabatabai («Abu Ali»), Capo di Stato Maggiore di Hezbollah e ideatore della campagna clandestina di riarmo del gruppo terroristico. L’attacco, effettuato con munizioni di precisione su un edificio a più piani nella roccaforte di Dahiyeh a Beirut, ha eliminato uno degli uomini più pericolosi ancora in piedi dopo la guerra dell’anno scorso e ha inviato un messaggio inequivocabile: Israele non tollererà un ritorno di Hezbollah al suo confine settentrionale. Il primo ministro o israeliano Benjamin Netanyahu, parlando dal quartier generale militare di Kirya poche ore dopo l’operazione, è stato inequivocabile: «Haytham Tabatabai è stato l’uomo personalmente responsabile della ricostruzione dell’arsenale missilistico e dei droni di Hezbollah, in violazione del cessate il fuoco del novembre 2024 e della Risoluzione 1701 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Finché sarò primo ministro, Israele agirà – ovunque e in qualsiasi momento – per impedire un altro 7 ottobre da nord». I funzionari della Difesa israeliana hanno descritto Tabatabai come il fulcro di un vasto sforzo guidato dall’Iran per contrabbandare kit di puntamento di precisione attraverso la Siria, stabilire fabbriche sotterranee di droni nella valle della Bekaa e reclutare una nuova generazione di comandanti d’élite della Forza Radwan. Le informazioni raccolte nel corso dei mesi lo hanno mostrato mentre si muoveva apertamente a Beirut, coordinandosi direttamente con gli ufficiali dell’IRC e vantandosi in ambienti ristretti del fatto che Hezbollah avrebbe presto ripristinato le sue capacità prebelliche. Fonti israeliane affermano che la decisione di colpire è stata presa solo dopo che prove esaustive hanno confermato che stava attivamente pianificando nuovi attacchi contro i civili israeliani. L’operazione segna il primo omicidio mirato a Beirut dall’entrata in vigore del cessate il fuoco un anno fa: un’escalation deliberata, ammettono i funzionari, ma ritenuta necessaria dopo che i ripetuti avvertimenti alla comunità internazionale sono rimasti inascoltati. «Abbiamo presentato un dossier dopo l’altro agli Stati Uniti, all’UNIFIL, al governo libanese: foto satellitari di nuove linee di produzione, intercettazioni di convogli di armi, lanci di droni sui nostri posti di osam servazione», ha dichiarato ai giornalile sti un alto ufficiale nale del Comando Settentrionale delle IDF, in condizione el di anonimato. «Non re è successo nulla. 01 Hezbollah stava elle correndo verso una ò nuova minaccia à, strategica. Non potevamo più aspettare, re». In Israele, la reazione pubblica è stata di cupo sollievo, più che di celebrazione. Le comunità del nord, che stanno ancora ricostruendo le case distrutte dai 150 mila razzi e missili di Hezbollah lanciati tra ottobre 2023 e novembre 2024, vedono l’attacco come l’applicazione tardiva del cessate il fuoco che, come promesso, avrebbe finalmente portato la pace. «Ogni giorno che Hezbollah si ricostruisce è un altro giorno in cui i nostri figli dormono nei rifugi antiaerei», ha detto Yifat Shalom, un residente di Kiryat Shmona la cui casa è stata distrutta l’anno scorso. «Se il mondo non li disarmerà, grazie a Dio la nostra aviazione può ancora farlo». La prevedibile indignazione di Hezbollah (cortei funebri, incendi di pneumatici e minacce di «una risposta che scuoterà l’entità») è stata accolta con una scrollata di spalle collettiva negli ambienti della sicurezza israeliana. Gli analisti militari sottolineano che l’inventario dei razzi del gruppo terroristico è sceso a circa il 20-30% dei suoi livelli prebellici, la sua struttura di comando di alto livello rimane decimata e la caduta del regime di Assad ha reciso la sua principale arteria di rifornimento dall’Iran. «Possono urlare e marciare, ma la loro capacità di scatenare un’altra guerra su vasta scala è stata drasticamente ridotta», ha dichiarato il Generale di Brigata (in congedo) Effie Defrin alla radio dell’esercito. «Questo attacco lo conferma». Forse la risposta più significativa è arrivata da Washington. Alti funzionari statunitensi, informati solo pochi minuti prima dell’attacco, avrebbero detto alle loro controparti israeliane: «Capiamo perché vi siete sentiti obbligati ad agire». Le flebili critiche internazionali finora (molto più blande rispetto alle precedenti operazioni) riflettono una crescente consapevolezza, anche tra i diplomatici occidentali, che Hezbollah non ha mai veramente onorato il cessate il fuoco firmato.Mentre le forze di terra dell’IDF conducono esercitazioni su larga scala lungo il confine questa settimana e gli squadroni dell’Aeronautica Militare rimangono in stato di massima allerta, il messaggio da Gerusalemme è chiaro: Israele è pronto a qualsiasi tentativo di Hezbollah, ma il gruppo terroristico dovrebbe riflettere con molta attenzione. I giorni in cui i successori di Nasrallah potevano ricostruire alla luce del sole, protetti da minacce di massicce ritorsioni, sono finiti. Per la prima volta da anni, il confine settentrionale di Israele sembra essere regolato dalle regole israeliane, non da quelle di Hezbollah. L’eliminazione di Haytham Tabatabai non segna la fine della minaccia, ma è un potente promemoria di chi detiene ora l’iniziativa strategica.
Enzo lacchetti cerca visibilità facendo l’antisemita in tv
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di Andrea Molle
Enzo lacchetti cerca visibilità facendo l’antisemita in tv
Enzo Iacchetti cerca visibilità facendo l’antisemita in tv a Notizia del giorno, dicono, è che l’Unione delle Comunità ebraiche (UCEI) ha denunciato Enzo Iacchetti per antisemitismo. In un paese normale la breaking news sarebbe: «Ah, quindi Enzo Iacchetti esiste ancora?». E invece no: tocca parlare di un comico al tramonto che, invece di godersi la pensione televisiva, ha deciso di riciclarsi in esperto di geopolitica e teorie del complotto in prima serata. L’UCEI gli contesta di aver demonizzato Israele e il popolo ebraico, rilanciando in Tv stereotipi che hanno alimentato l’antisemitismo per secoli. Non è solo per la sua famosa scenata con minacce di pugni in studio; è il salto di qualità: dal talk show urlato al vecchio repertorio sulle “banche controllate dai sionisti” e sul “potere che domina il mondo”, roba che nei manuali è catalogata sotto la voce “propaganda anni ’30”, non certo “satira impegnata”. Qui scatta il paradosso italiano: da un lato ti viene da dire “ma chi se lo fila questo?”, dall’altro ti ricordi che quelle frasi sono andate in onda davanti a centinaia di migliaia di persone senza che la conduttrice o gli ospiti trovassero il tempo di dire almeno un “Guarda, forse no”. Il problema non è il singolo comico stanco, è il format che trasforma la paranoia in intrattenimento e la storia dell’odio antiebraico in un pretesto per fare share. L’UCEI sceglie la strada della denuncia per istigazione all’odio razziale, richiamando l’articolo 604 bis del codice penale. Qualcuno dirà che così gli si regala centralità, che lo si nobilita persino: da ex conduttore di Striscia la Notizia a martire della libertà d’opinione. Però qual è l’alternativa? Far finta di niente, come se tirare fuori i soliti cliché sul “complotto ebraico” fosse una bizzarria da zio (molto) ubriaco al pranzo di Natale? La verità è che, in un paese in cui si minimizza su tutto, ogni tanto qualcuno deve pur mettere un paletto e dire: no, questo no, nemmeno se lo dice un comico che ha esaurito le gag e ora pesca nel catalogo dell’estrema destra novecentesca. Il guaio è che Iacchetti passerà qualche giorno a fare la vittima del “pensiero unico”, i talk ci camperanno un altro paio di puntate, e poi si tornerà al solito rumore di fondo. Forse la sanzione più efficace non sarà una condanna, ma il silenzio: niente più inviti, niente più risse telegeniche, niente più sfoghi in diretta. Lì sì che capiremo chi davvero “se lo fila” ancora: se il pubblico italiano, la sua famiglia, il cane… o solo il suo avvocato.
Per Trump, i Fratelli musulmani sono la “linea rossa” invalicabile
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di Luca Gambardella
Per Trump, i Fratelli musulmani sono la “linea rossa” invalicabile
Trump vuole inserire i Fratelli musulmani tra i gruppi terroristici. Gli alleati arabi esultano per Trump, i Fratelli musulmani sono la “linea rossa”invalicabile Roma. Con un ordine esecutivo firmato lunedì, Donald Trump rilancia una delle sue vecchie battaglie, quella per sanzionare la Fratellanza musulmana inserendola nella lista delle organizzazioni terroristiche straniere. Ci aveva già provato durante il suo primo mandato, nel 2019, quando tentò di mettere all’indice l’intero movimento islamista, senza distinguere fra le tante anime in cui è diviso e sparse per il medio oriente. Se all’epoca la mossa destò molte riserve, anche fra i repubblicani, a distanza di sei anni sanzionare gli ikhwan – i “fratelli”in arabo –non è più un tabù. Così, il provvedimento ora fa attenzione a menzionare solamente i gruppi affiliati in Libano, Egitto e Giordania –accusati di “finanziare e sostenere Hamas e Hezbollah” – e incarica il segretario di stato Marco Rubio e quello al Tesoro, Scott Bessent, di fornire le loro raccomandazioni entro 45 giorni. Poi spetterà al Congresso dare il via libera. Il sostegno però monta e la settimana scorsa il governatore del Texas, il repubblicano Greg Abbott, con una mossa controversa, ha designato i Fratelli musulmani gruppo terroristico assieme ai membri della Commissione per le relazioni tra americani e islamici, il principale gruppo di advocacy del mondo musulmano negli Stati Uniti. Il movimento islamista sunnita, fondato nel 1928 in Egitto e diventato con le primavere arabe l’occasione per l’islam politico di cimentarsi – fallendo – nell’arte del governo, è diviso in tanti gruppi diversi sparsi nella regione. Si va da quelli più moderati – come per esempio in Turchia, dove il partito islamista del presidente Recep Tayyip Erdogan si ispira alla Fratellanza – a quelli terroristi in senso stretto, come Hamas a Gaza. Quando nel 2019 Trump ventilò l’ipotesi di sanzionare tutti, indistintamente, molti nel Congresso e nei think tank americani fecero notare come una cosa fosse inserire nella lista qualche migliaio di combattenti di al Qaeda e un’altra pensare di fare lo stesso con milioni di musulmani, inclusi elettori di partiti politici in contesti (più o meno) democratici. Le sanzioni prevedono il congelamento dei fondi finanziari detenuti negli Stati Uniti e il divieto di viaggio nel paese, misure difficili da applicare per numeri di persone così elevati. Ma al di là delle difficoltà operative c’era poi un rischio politico, quello di incrinare i rapporti con governi alleati degli Stati Uniti che avevano adottato una politica di tolleranza nei confronti dei Fratelli musulmani, come nel caso della Tunisia o della Giordania. Dopo il 7 ottobre lo scenario è cambiato radicalmente. Pur condannando la dura reazione di Israele, le leadership del mondo arabo hanno preso le distanze da Hamas, generando però un effetto collaterale. Agli occhi di parte dell’opinione pubblica, solo i partiti islamisti legati o ispirati alla Fratellanza sono veri difensori della causa palestinese. La conseguenza è che oggi l’establishment di paesi chiave come l’Egitto e la Giordania non si sente più del tutto al riparo da eventuali ondate di protesta. Fino all’inizio di quest’anno, re Abdallah di Giordania aveva tentato la strada dell’inclusione nelle istituzioni del movimento islamista. Lo scopo era quello di attuare una politica conciliante, mettendo però sotto gli occhi di tutti anche l’inadeguatezza politica dei partiti più radicali. L’esperimento è naufragato lo scorso aprile, quando la Fratellanza è stata bandita dalla Giordania dopo che un gruppo di 16 persone addestrate in Libano e affiliate agli ikhwan era stato scoperto prima di portare a termine una serie di attentati con missili e droni. Altrove, come in Egitto, l’ostilità contro la Fratellanza è invece storia nota dalle origini, sin dal colpo di stato che nel 2013 depose l’unico vero esperimento politico che portò un esponente della Fratellanza, Mohammed Morsi, al governo di un grande paese. Da allora, il presidente Abdel Fattah al Sisi è diventato il principale portavoce alla Casa Bianca della necessità di sanzionare gli islamisti. Così come in Tunisia, dove il presidente Kais Saied è in guerra aperta con Ennahda, il partito di riferimento dei Fratelli musulmani che, nel 2016, almeno nominalmente, aveva scollegato il proprio nome da quello della Fratellanza autodefinendosi “democratici musulmani”. Poco sensibile al rebranding, due anni fa Saied, in una delle sue purghe contro l’opposizione, ha ordinato l’arresto del loro leader, Rached Ghannouchi, che è stato condannato a 14 anni di reclusione con l’accusa di “cospirare contro la sicurezza nazionale” insieme ad altre decine di esponenti del partito. I paesi arabi che hanno promesso il loro sostegno al piano di pace americano a Gaza passano alla riscossione delle contropartite. Oltre a Giordania ed Egitto c’è il Golfo, dove Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita spingono da anni per sanzionare la Fratellanza. Lunedì, il consigliere di Trump per il medio oriente, Massad Boulos, è atterrato ad Abu Dhabi per incontrare il ministro degli Esteri, Abdullah bin Zayed. Si è parlato soprattutto del Sudan e della tregua umanitaria imposta unilateralmente dalle Forze di supporto rapido (Rsf), alleate degli Emirati. Il dossier sudanese però è strettamente legato a quello delle sanzioni ai Fratelli musulmani, perché il paese del Golfo fa pressioni da tempo affinché gli americani sanzionino anche il principale rivale delle Rsf, il generale Abdel Fattah al Burhan accusato di essere un uomo vicino alla Fratellanza. La mossa avrebbe conseguenze enormi perché indebolirebbe colui che finora è stato l’unico argine agli eccidi di massa perpetrati dalle Rsf in Darfur. Boulos – così come l’Amministrazione Trump in generale – ha dimostrato a più riprese di non essere insensibile alle pressioni degli Emirati. In un’intervista recente al quotidiano saudita Al Sharq al Awsat, ha detto che “i Fratelli musulmani sono la nostra linea rossa” e che i suoi sostenitori non torneranno al potere in Sudan. Probabilmente, neppure altrove.
L’Europa si sveglia sulla minaccia dei Fratelli musulmani
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di Giulio Meotti
L’Europa si sveglia sulla minaccia dei Fratelli musulmani
Un gruppo di lavoro presieduto dalla senatrice Jacqueline Eustache-Brinio ha appena realizzato un rapporto di 107 pagine su come fermare i Fratelli musulmani e che verrà sottoposto all’Eliseo. Chiede “il divieto di indossare il velo sotto ai sedici anni” negli spazi pubblici. Perché il velo è ora il “vessillo dell’apartheid sessuale”, strumento di controllo sociale e di “demarcazione territoriale”. Secondo la sociologa esperta della Fratellanza, Florence Bergeaud-Blackler, che ha scritto il rapporto, “le organizzazioni islamiste in Francia sono strutturate attorno a una piramide con 100-200 moschee, 280 associazioni satellite, 21 scuole e 114 scuole coraniche. I membri prestano un giuramento di fedeltà (bay’a) che li impegna a ‘combattere il jihad’”. Un “jihad istituzionale”. Si parla di “infiltrazione islamista basata su un sistematico doppio linguaggio e manipolazione delle libertà democratiche”. (Meotti segue a pagina tre) Lotta alla Fratellanza (segue dalla prima pagina) Secondo il documento francese, “interi territori stanno subendo una ghettizzazione con la creazione di società parallele che sfuggono alle norme repubblicane”. A maggio era uscito in Francia un rapporto dei servizi segreti sulle attività dei Fratelli musulmani (già banditi in Egitto, Arabia Saudita, Emirati arabi, Bahrein, Giordania), che denunciava una attività di proselitismo ormai fuori controllo. Il documento, consegnato al ministero dell’Interno, ha spinto Emmanuel Macron a convocare due Consigli di difesa e a stabilire l’estensione del congelamento dei beni finanziari – finora riservato ai casi di terrorismo – a ogni associazione sospettata di infiltrazione islamista, controlli sulle donazioni alle associazioni e più potere ai prefetti per revocare i sussidi. In Germania è stata appena messa al bando la ong “Muslim Interaktiv”, che ogni volta che è apparsa in pubblico negli ultimi anni ha suscitato scalpore, come quando i suoi membri hanno marciato ad Amburgo proclamando che un “Califfato” era “la soluzione”. Secondo l’Ufficio per la protezione della Costituzione, Muslim Interaktiv è una emanazione dei Fratelli musulmani. L’Austria finora è l’unico paese europeo ad aver messo al bando tutta l’organizzazione islamista che tra due anni celebrerà i cento anni dalla fondazione. Ora è l’America a scoprire che la piovra islamista è un pericolo. Prima il governatore del Texas, Greg Abbott, ha annunciato la classificazione della Fratellanza come “organizzazione terroristica”. Poi è stata la Casa Bianca ad avviare l’iter per metterne al bando alcuni rami. Il Qatar investe decine di miliardi di dollari nelle università per aiutare i Fratelli musulmani a indebolire gli Stati Uniti e “distruggere la democrazia”. Un importante istituto di ricerca, l’Institute for the Study of Global Antisemitism and Policy, avverte che il Qatar ha investito venti miliardi in college americani e altre istituzioni di alto livello nell’ambito del piano decennale della Fratellanza. Una “strategia lenta e multigenerazionale” che punta a inserirsi nei “gangli politici, legali, culturali e mediatici delle democrazie europee attraverso reti parallele, centri culturali, associazioni studentesche, ong e infrastrutture educative capaci di produrre consenso e modellare l’opinione pubblica”. Decisiva la mobilitazione nei campus, che dopo il 7 ottobre 2023 ha mostrato quanto fossero pronti a recepire le istanze di Hamas. Il tempo stringe, se ha ragione la filosofa e studiosa islamica francoalgerina Razika Adnani nel dire al Journal du dimanche di domenica scorsa che “i Fratelli musulmani stanno vincendo la battaglia politica”. In Italia, intanto, si continua a fischiettare, anche se i “Qatar Papers” dei giornalisti francesi Christian Chesnot e Georges Malbrunot ha dimostrato che il nostro è il paese dove l’emiro ha investito di più in islamismo negli ultimi anni.
Negli oliveti di Taybeh si raccoglie sotto scorta. E il villaggio si svuota
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di Luca Foschi
Negli oliveti di Taybeh si raccoglie sotto scorta. E il villaggio si svuota
L a statua del Cristo ad annunciare il villaggio, in mezzo al piccolo crocevia. La stazione della polizia, aperta e disabitata, e poi le strade vuote della domenica e della paura. Taybeh è l’ultimo paese interamente cristiano della Cisgiordania, arroccato a 900 metri a osservare le colline che discendono fino a Gerico e il deserto. Il 14 luglio le strade pullulavano di automobili, una minuta schiera di abitanti e fedeli seguiva i rappresentanti delle confessioni cristiane, arrivati da Gerusalemme a portare solidarietà e protezione. Il giorno prima i coloni israeliani avevano dato fuoco alle sterpaglie che sul limitare del villaggio circondano l’antichissimo cimitero, salvato solo grazie all’intervento tempestivo della popolazione. «Ogni giorno che passa appare sempre più chiaro che non esiste legge, la legge è il potere», aveva dichiarato durante la conferenza stampa il cardinale Pierbattista Pizzaballa, Patriarca latino di Gerusalemme, chiamato insieme al Patriarca ortodosso Teophilus III a riassumere il sentimento delle Chiese. Cinque giorni dopo sarebbe stato l’ambasciatore americano in Israele, Mike Huckabee, a condannare le continue vessazioni della «gioventù delle colline», le bande del sionismo messianico che imperversano in tutta la Cisgiordania con la passiva connivenza di esercito, polizia, sistema giudiziario e governo. Poi il silenzio mediatico, quattro mesi di angosciata normalità, e la settimana scorsa l’ultimo attacco. Una macchina data alle fiamme, la stazione di benzina devastata e depredata, le vetrine dei negozi sfondate. «Dopo le visite istituzionali si sono tranquillizzati un po’, poi tutto è ripreso come prima. Ogni giorno attraversano il villaggio con le loro automobili, nell’ultimo mese anche il centro, cosa che non avevano mai fatto. Vengono per provocare una reazione che sapientemente non arriva», racconta Sanad Sahelia, direttore della piattaforma mediatica Nabd el-Haya, i cui uffici sono ospitati nel grande plesso della chiesa del Santo Redentore. Un collaudato e rapido sistema di informazione allerta gli abitanti sul telefono. Le strade si svuotano, la polizia palestinese si chiude nella piccola stazione. L’Autorità palestinese qui come altrove è un pavido miraggio. Nell’ultimo mese quasi nessuno nei terreni circostanti ha potuto raccogliere le olive. Solo qualche agricoltore, scortato il venerdì da una staffetta di dieci delegazioni provenienti da altrettante ambasciate, è riuscito a rinnovare l’antico rito identitario, pur nella brevità simbolica della raccolta. Centinaia di migliaia di euro perduti. L’economia soffre, in particolare da quando dopo il 7 ottobre il governo israeliano ha imposto l’interruzione di tutti i contratti dei palestinesi. Un terzo dei lavoratori a Taybeh ha perso il posto. Ieri la conferma ufficiale è arrivata dall’Onu, l’economia dei Territori Palestinesi occupati è precipitata «nella peggiore recessione mai registrata». Il nuovo rapporto dell’Unactad, la Conferenza per il commercio e lo sviluppo, colloca quella palestinese fra le 10 peggiori crisi sperimentate nel mondo dal 1960. Il Pil è tornato ai livelli del 2010, il reddito pro capite a quelli 2003. A Ga2a è nell’abisso. Il calo cumulato dal 2023 è dell’87%. Ieri Hamas e la Jihad islamica hanno restituito uno dei tre corpi degli ostaggi ancora sepolti sotto le rovine della Striscia, dove la tregua regge nonostante gli oltre 330 palestinesi uccisi da Israele. In Cisgiordania l’assedio dei coloni, le ronde dell’esercito che entra, perquisisce e interroga senza ragione, gli asfissianti checkpoint aperti e chiusi secondo strategico capriccio, la miseria progressiva. Chi può parte, per non tornare. Nel 1967, prima che con la Guerra dei Sei Giorni Israele si appropriasse della Cisgiordania, i cristiani a Taybeh erano 8.000. Oggi sono 1.300. Dieci famiglie sono partite dal 7 ottobre a oggi, quasi il 5% della popolazione. Resistere significa battersi per restare, restare significa lavorare, sentirsi parte del vivo organismo comunitario. Da qui gli sforzi della chiesa del Santo Redentore e del parroco Bashar Fawadleh, sostenuti dal Patriarcato latino: 100 lavori temporanei, per sei o nove mesi, la costruzione di abitazioni condivise, l’acquisto di 15 appartamenti, la cura dell’accademia di musica, di ballo, della squadra di calcio e della stazione radio, il laboratorio di ceramica che dà lavoro a 10 ragazze e ha venduto 120.000 pezzi in tutto il mondo, i minimi ma caparbi festeggiamenti in programma per Natale. «Sono circa 38.000 i cristiani in Palestina. Se la situazione non migliora fra vent’anni non ne rimarrà nemmeno uno», afferma Sanad Sahelia. Taybeh per tutti i cristiani di Terra Santa, fioca, ostinata luce su ogni oppressione e solitudine di Palestina.
Pd, Avs e M5s con imam che tifa il 7 ottobre
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di Francesca Ronchin
Pd, Avs e M5s con imam che tifa il 7 ottobre
Centinaia in piazza e petizioni su Internet. Tutti al grido di «Free Mohamed Shahin», l’imam di Torino ormai noto per aver inneggiato al massacro del 7 ottobre 2023. «Né una violazione, né una violenza» aveva detto lo scorso ottobre durante una manifestazione pro Pal riferendosi all’attacco commesso da Hamas in Israele due anni fa. Non un atto terroristico, ma «una forma di resistenza giustificata da anni oppressione». Parole che hanno portato l’imam della moschea Omar Ibn Il Khattab, 46 anni, cittadino egiziano, dritto all’attenzione del ministero dell’Interno. E al centro di un decreto di espulsione «per motivi di sicurezza dello Stato e di prevenzione del terrorismo». E così ieri, alle 7.30 del mattino, è stato portato in questura dove gli sono stati notificati la revoca del permesso di soggiorno e un decreto di espulsione con rimpatrio immediato. Nelle prime ore della giornata, i suoi legali hanno denunciato «la sparizione» dell’uomo dicendo di aver perso ogni contatto con lui. In serata, poi, è emerso che l’ipotesi più probabile è che si trovi già in un Cpr in Sicilia, probabilmente a Caltanissetta. La notizia ha scatenato il tam tam del mondo pro Pal che si è radunato davanti alla prefettura per chiedere la liberazione di Shahin. Oltre al movimento Torino per Ga2a, il presidio ha visto anche la presenza dell’Anpi, della Chiesa valdese e della sinistra soprattutto torinese. Tra i presenti i consiglieri comunali del Pd Ludovica Cioria e Ahmed Abdullahi, Sara Diena per Avs insieme al consigliere regionale Alice Ravinale. E poi Valentina Sganga in quota M5s. Al centro della protesta il tema della libertà di espressione e quella che il presidio ha definito «una vera e propria criminalizzazione del dissenso». «La vicenda solleva interrogativi gravi e inquietanti sullo stato di diritto nel nostro Paese» ha dichiarato Marco Grimaldi deputato torinese di Avs. Gli fa eco la posizione di Sergio Velluto, presidente del concistoro della Chiesa valdese di Torino. «Se un’opinione di una persona deve avere conseguenze legali allora ci troviamo sul reato d’opinione». Rischio che, però, si può configurare, per forme di apologia, vilipendio, propaganda a supporto di associazioni sovversive. E Hamas, piaccia o meno, in Italia e nell’Ue è considerata un’organizzazione terroristica. Forse non a caso, Anpi, e soprattutto i legali dell’imam hanno preferito puntare sul fattore umanitario. «Shahin è un pacifista, vive in Italia da 21 anni. Segue progetti di integrazione e non ha alcun precedente. Se dovesse tornare in Egitto rischierebbe il carcere se non peggio: è un oppositore di Al Sisi», ha spiegato l’avvocato Fairus Ahmed Jama che ha disposto la richiesta di protezione internazionale. Dura la reazione di Silvia Sardone, vice segretario della Lega che ha accusato la sinistra di «difendere sempre le persone sbagliate». «È sconcertante», ha aggiunto, «che non si interroghi sul profilo estremistico di questo personaggio. Pd e compagni, pur di ottenere qualche voto nelle comunità musulmane, finiscono per sottomettersi».
La sinistra insorge. Protesta in prefettura per chiedere il rilascio del predicatore filo Hamas
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di Giulia Sorrentino
La sinistra insorge. Protesta in prefettura per chiedere il rilascio del predicatore filo Hamas
Ci mancava solo la solidarietà espressa nei confronti di un appartenente alla fratellanza musulmana. In questo caso, però, a scendere in piazza non sono le solite sigle extraparlamentari, ma anche esponenti dell’opposizione. Centinaia le persone riunitesi ieri in piazza Castello, davanti alla prefettura di Torino, per chiedere la liberazione di Mohamed Shahin, 46 anni, imam della moschea Omar Ibn Al Khattab di via Saluzzo, raggiunto da un decreto di espulsione con rimpatrio immediato in Egitto. Alla manifestazione erano presenti anche la consigliera comunale del Pd Ludovica Cioria e il suo collega Dem Ahmed Abdullahi, la consigliera regionale Avs Alice Ravinale, la consigliera comunale Avs Sara Diena e la consigliera comunale M5S Valentina Sganga. Non bastava la vicinanza al filo Hamas Mohammad Hannoun, ora si mobilitano persino per chi sostiene apertamente i terroristi, ed è stato riconosciuto come esponente della Fratellanza Musulmana. Si rendono conto i partiti in questione di quella che dovrebbe rappresentare una netta distinzione tra cause umanitarie e fiancheggiamento ad Hamas? Anche perché la solidarietà arriva proprio dagli estremisti, e tra loro c’è proprio H a n n o u n che, con Brahim Baya, ha lanciato una petizione per non farlo rimpatriare in Egitto. In piazza c’erano – Torino per Ga2a, un contenitore di altre realtà in cui confluiscono anche i centri sociali come Askatasuna, Osa Cambiare rotta, sindacati tra cui il Cobas, Potere al Popolo. Poi l’immancabile Davide Piccardo, che non solo fa un video in sostegno dell’amico dei terroristi ma, tramite il suo sito «La Luce», che sovente ha preso di mira Il Tempo, accusa il governo Meloni di aver«deportato» l’imam solo perché ha difeso Ga2a. Secondo questa equazione, allora, dovrebbero essere rimpatriati migliaia di palestinesi che sono scesi in piazza e che hanno manifestato per la “causa di Ga2a”. Mesi di silenzio dopo le nostre domande rivolte all’opposizione per i loro legami con Hannoun. Oggi diranno che non sapevano chi era Shahin? O ammetteranno di essere dalla parte di un amico dei terroristi? La peggior propaganda che si può fare è tentare di obnubilare la mente di chi in quella causa crede davvero, strumentalizzandola e usandola per meri scopi e calcoli elettorali. Qualcuno di loro deve spiegarci, perché si tratta di difesa della sicurezza nazionale, un bene supremo (e forse non è tale per chiunque), che cosa ci fanno con chi elogia un massacro, con chi fa parte di un’organizzazione che vuole la distruzione dello Stato di Israele. A insorgere è Silvia Sardone, vicesegretario della Lega:«La sinistra riesce incredibilmente a difendere sempre le persone sbagliate e, in questo caso, arriva a schierarsi dalla parte dell’imam di Torino. È francamente sconcertante che la sinistra non si interroghi sul profilo estremistico di questo personaggio. Del resto, nei cortei filo-Hamas che vediamo nelle piazze italiane, la sinistra marcia a braccetto con chi inneggia ai terroristi e sostiene posizioni islamiste. Noi della Lega siamo dalla parte della legalità, mentre Pd e compagni, pur di ottenere qualche voto nelle comunità musulmane, finiscono per sottomettersi anche a chi esprime posizioni anti-occidentali e antisemite». E l’europarlamentare Anna Maria Cisint: «Ora servono regole precise con le comunità Islamiche e le chiusure dei fantomatici centri islamici, vere e proprie moschee abusive dove non sappiamo chi e cosa viene predicato». Così come il senatore Roberto Rosso e Marco Fontana, rispettivamente segretari provinciale e cittadino di Forza Italia a Torino: «Da una parte c’è il Governo che fa rispettare le norme, dall’altra c’è il sindaco Lo Russo che continua a flirtare ambiguamente con gli ambienti anarchici, autonomi e pro Palestina legati ad Askatasuna. Ognuno sceglie da che parte stare: noi staremo sempre dalla parte della legalità e della sicurezza dei cittadini». A ribadire la posizione di FdI è Augusta Montaruli: «La domanda adesso sorge spontanea: quali aiuti ha avuto questo soggetto per i suoi proseliti d’ odio e violenza? Fiancheggiatori degli estremisti islamici non possono trovare spazio a Torino come nel resto d’Italia». Ci sarà un giudice a Berlino che chieda loro, almeno, il perché stiano a fianco di chi odia l’Italia e l’Occidente?
Imam di Torino espulso: «Minaccia per l`Italia»
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di Giulia Sorrentino
Imam di Torino espulso: «Minaccia per l`Italia»
Un primo grande risultato nel contrasto al fondamentalismo islamico: l’imam di Torino Mohamed Shahin, della moschea Omar Ibn Al Khattab di via Saluzzo, ha ricevuto il decreto di espulsione, firmato dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, per motivi di sicurezza nazionale. Ora si trova in un Cpr a Caltanissetta, ma ha comunque tentato l’ultima carta, facendo richiesta di asilo. Una decisione, quella del Viminale, che arriva dopo le frasi di Shahin dello scorso 9 ottobre durante una manifestazione ProPal, a sostegno dell’attacco del 7 ottobre di Hamas a Israele, ritenendolo un atto di resistenza dopo qulli che descriveva come anni di occupazione israeliana. Dopo mesi in cui denunciamo questi episodi, piazze in cui si inneggia alla violenza, arrivano le prime azioni concrete di allontanamento di soggetti che inneggiano al terrorismo. Anche perché non si tratta di un soggetto qualunque, bensì un membro di spicco della Fratellanza Musulmana che, con le sue frasi, ha generato una «grande ondata mediatica e indignazione». Ma, soprattutto, ciò che viene evidenziato dal questore della provincia di Torino risiede nel fatto che l’imam «servendosi del suo ruolo di rilievo in ambienti dell’Islam radicale, incompatibile con i principi democratici e con i valori etici che ispirano l’ordinamento italiano, è messaggero di un’ideologia fondamentalista e antisemita e si è reso responsabile di comportamenti che costituiscono una minaccia concreta, attuale e grave per la sicurezza dello Stato». Shahin ha più volte espresso la sua simpatia sui social per i volti di Hamas, tra cui l’ex capo deceduto, Ismail Haniyeh e per Muhammad Morsi, ex Presidente egiziano, simbolo della fratellanza, colui che disse «non dobbiamo mai dimenticare, fratelli, di nutrire i nostri figli e nipoti con l’odio per i sionisti e gli ebrei». E ancora «gli ebrei e i sionisti sono sanguisughe che attaccano i palestinesi, sono guerrafondai, discendono dalle scimmie e dai maiali», ritratto da una televisione mentre pregava «per la distruzione degli ebrei». Ecco che Shahin lo ricorda come un martire, come una persona da celebrare, come un uomo da ammirare. E come fanno i vari Brahim Baya, che subito gli ha espresso solidarietà, a dirsi espressione di un islam moderato se supportano fan o esponenti della Fratellanza Musulmana? Baya, colui che si è scagliato più volte contro Il Tempo, ex imam del capoluogo piemontese, e onnipresente nelle piazze ProPal, ha addirittura lanciato una petizione per lui: «Firma e condividi. Il governo italiano vuole consegnare un uomo innocente al regime egiziano perché ha difeso Ga2a. Fermate l’espulsione di Mohamed». Questo perché, con Abdel Fattah al-Sisi, musulmano di 62 anni, già capo del Consiglio supremo delle forze armate, eletto nel giugno del 2014 presidente dell’Egitto, ha cambiato le carte in tavola, combattendo ardentemente i terroristi: «L’ideologia dei fratelli Musulmani è pericolosa», aveva dichiarato, aggiungendo che «loro non hanno la minima tolleranza religiosa o politica. Invocano l’islam per accaparrarsi l’intero potere economico e politico. Un jihadista non è che un Fratello Musulmano all’ultimo stadio. Hanno nomi diversi, ma obbediscono tutti alla stessa ideologia mortifera. Vogliono distruggere non soltanto il mondo arabo ma il mondo intero». Un messaggio che deve arrivare forte e chiaro soprattutto a chi pensa di poter frequentare pericolosi fondamentalisti restando impunito o proteggendosi dietro la cittadinanza italiana. Troppe le piazze in cui piccoli e grandi Shahin hanno urlato simili nefandezze, ora lo Stato sta agendo con le espulsioni, perché la causa palestinese non può essere accompagnata dalla violenza scomposta che ci “regalano” ogni giorno contro gli ebrei e contro una democrazia che abbiamo conquistato a fatica.
Fatayer e quei 5000 voti. Non entra in Regione ma tra sure e Corani in Campania è allarme
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di Giulia Sorrentino
Fatayer e quei 5000 voti. Non entra in Regione ma tra sure e Corani in Campania è allarme
Souzan Fatayer, la seconda dei non eletti nella lista di Alleanza Verdi e Sinistra nella circoscrizione di Napoli, resta fuori dal Consiglio regionale della Campania con 5.094 voti. Sarebbe spontaneo focalizzarsi sulla non elezione, quando in realtà il numero di voti ottenuti, per una persona che non è certo una veterana della politica, sono tantissimi. E lo sono soprattutto nell’ottica in cui l’Islam si sta insediando e insinuando nell’agenda italiana. Prima la lista islamica a Monfalcone con a capo Bou Konate, poi la vicinanza di Mohammad Hannouna esponenti di Pd, M5S e Avs, infine «MuRo27», il gruppo di musulmani che ha scelto di influire sulle elezioni della Capitale. Ecco, quindi, che quelle 500 persone hanno sposato un’idea, un progetto, un nuovo Occidente che, senza un pronto intervento, ci vedrà sottomessi a regole che non sono certo quelle democratiche, bensì islamiche. Perché, come insegna la storia, l’islam politico si muove esattamente così: prima necessita di volti nazionali locali, li usa, si insedia in comuni e regioni per poi mirare al piano nazionale. Non c’è nulla di casuale,ma è unmodello replicato e replicabile di chi vuole anteporre la sharia e le sure coraniche all’ordinamento di ogni singolo Stato. È iniziata la loro rivoluzione, che parte dal basso, in modo silente e apparentemente dolce. Ora è l’Occidente che, invece di lamentarsi, dovrebbe prendere coscienza del rischio che stiamo correndo. E agire.
L’islamismo e i «fratelli» del silenzio
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di Tommaso Cerno
L’islamismo e i «fratelli» del silenzio
Che ci faceva la sinistra in piazza a fare il tifo per l’imam di Torino Mohamed Shahin espulso dall’Italia? Un fanatico che di religioso ha poco, che inneggia al 7 ottobre, legato alla Fratellanza Musulmana, associazione terroristica che in Europa ha la sua testa in Francia e i tentacoli ormai aperti sull’Italia. Quando Il Tempo ha cominciato la sua inchiesta denunciando legami diretti fra regime di Hamas e zone grigie della nostra politica, la risposta era stata il silenzio. Silenzio da parte del Pd, di M5S e Avs, i partiti che avevano partecipato a incontri pubblici ed eventi insieme a Mohammad Hannoun e ad altri esponenti pro Pal considerati a livello internazionale troppo vicini al regime. Ora al silenzio si sostituisce la mobilitazione. Perché il partito islamista non è un’invenzione de Il Tempo, i canali di finanziamento e di propaganda dal mondo islamico e dall’Europa non sono una suggestione giornalistica. Perché in questo Paese è in atto un disegno per favorire non l’integrazione ma l’islamizzazione di milioni di immigrati a scopo elettorale.
Il dem Fiano nel mirino dei Dem: «Nessun dialogo coi sionisti»
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di Enrico Paoli
Il dem Fiano nel mirino dei Dem: «Nessun dialogo coi sionisti»
Socrate sosteneva che «i bambini ora amano il lusso; hanno cattive maniere, disprezzo per l’autorità; mostrano mancanza di rispetto per gli anziani e amano chiacchierare invece di fare esercizio». E se grande il filosofo greco fosse un contemporaneo, all’elenco aggiungerebbe l’antisemitismo e la dogmatica contestazione nei confronti di Israele, non facendo l’esercizio di capire, di documentarsi per comprendere. Ecco, i Giovani democratici di Bergamo, ovvero il braccio giovanile del Pd, quei difetti li hanno proprio tutti, ma pure di più visto il tasso di antisemitismo mostrato in piazza e sui social, usati come una clava. A misurarne il livello è stato l’ex deputato dem Emanuele Fiano, contestato da un gruppo di pro-Pal, ma soprattutto dai Giovani democratici bergamaschi, in rotta di collisione con il partito, che non l’ha presa bene, e con il buonsenso, viste le posizioni dialoganti di Fiano, rispetto alla crisi israelo-palestinene. Il caso, non molto dissimile da quanto avvenuto all’università Ca’ Foscari, a Venezia, dove i giovani comunisti hanno impedito a Fiano di parlare, si è verificato l’altra sera a Bergamo, quando le forze dell’ordine hanno allontanato i pro-Pal dalla biblioteca Caversazzi, dove era in programma l’incontro “La pace è possibile?”, organizzato dall’associazione Italia-Israele, con ospite proprio lo stesso Fiano. Ad essere allontanati sono stati anche i membri del gruppo dei Giovani democratici, in tutto una decina. Il segretario provinciale della formazione politica dei dem, Lorenzo Lazzaris, ha spiegato di avere una «posizione netta» sul tema della pace fra israeliani e palestinesi e di ritenere «parte della comunicazione di Sinistra per Israele non trasparente: la sinistra non può dialogare con sionisti moderati». Sulla loro pagina Instagram i Giovani democratici (democratici si fa per dire…) sono ancora più espliciti: «Noi siamo e saremo sempre in lotta contro l’oppressore per una Palestina libera, per una pace giusta, per il coinvolgimento di tutti i popoli in un processo di liberazione dall’apartheid». Non solo. Per i giovani dem bergamaschi l’unico dialogo possibile è «con quella componente della società israeliana che oggi si oppone al genocidio». Quindi Fiano «non parla a nome nostro», «né come sinistra, né come Giovani democratici». Un cortocircuito, quello fra il Pd e la sua componente giovanile, mai visto. E, per questo, difficilmente comprensibile. «Secondo me i Giovani Emanuele F democratici che hanno manifestato a Bergamo espressamente contro il sottoscritto», dice Emanuele Fiano a Libero, «non conoscono le mie opinioni, non le hanno mai ascoltate o lette, e per questo ho dato il mio assenso ad una partecipazione all’assemblea del Pd di Bergamo a cui sono stato invitato. Lì potrà, chi vuole, ascoltare le mie opinioni. Ritengo molto grave manifestare contro un membro del proprio partito», sottolinea, «perché significa considerare il dissenso su qualcosa come un ostacolo non risolvibile; e invece noi ci chiamiamo Partito democratico non a caso e consideriamo il dissenso il sale della democrazia. Bisogna ascoltare le opinioni con cui eventualmente si dissente, e prima di combattere le idee bisognerebbe conoscerle». Anche gli esponenti locali, e non solo però, hanno preso le distanze dai propri giovani, a partire dalla sindaca di Bergamo, Elena Carnevali, che ha ricevuto Fiano in Municipio, esprimendo «piena solidarietà nei confronti di una persona di cui ho sempre apprezzato la serietà, il rigore e l’impegno per la convivenza democratica. È giusto dissentire dalle posizioni politiche, ma non è compatibile trasformare il dissenso in attacco personale». A prendere le distanze anche altri esponenti dem di Bergamo, come l’europarlamentare ed ex sindaco, Giorgio Gori, i consiglieri regionali lombardi Jacopo Scandella e Davide Casati e il presidente della Provincia Pasquale Gandolfi. «Si può dissentire dalle sue posizioni, ma non è accettabile che la sua battaglia per “Due popoli e due Stati”, possa essere messa all’indice». La solidarietà a Fiano, almeno in privato, è arrivata da tutti i livelli del partito. Duro anche il commento del coordinatore regionale dei giovani di Forza Italia, Andrea Ninzoli. «A questo punto il Pd ha un problema politico evidente: sta con chi, come Fiano e Sinistra per Israele, lavora per la difficile convivenza di due poo (Ansa) poli, oppure con chi riduce il Medio Oriente a un derby ideologico fra “antisionisti” e “colonialisti”?». Un grosso problema, ancorché serio…
Il corteo rosso per l’imam filo-Hamas
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di Massimo Sanvito
Il corteo rosso per l’imam filo-Hamas
Non c’è nulla da fare: la sinistra, quando si tratta di scegliere, opta sempre per la parte sbagliata. È un grande classico. E infatti indovinate un po’ da quale parte di campo si sono schierati dopo l’espulsione dell’imam di Torino, uno che riguardo agli attentati terroristici del 7 ottobre 2023 aveva spiegato che «io personalmente sono d’accordo con quello che è successo il 7 ottobre» perché «non è una violazione, non è una violenza ma una reazione ad anni di oppressione» e aveva pure definito Hamas «un movimento di resistenza legittimo»? Ovviamente da quella di Mohamed Shahin, 47enne guida religiosa della moschea “Omar Ibn Al Khattab” di via Saluzzo, in Italia da 21 anni. Il decreto di espulsione «per motivi di sicurezza e di prevenzione del terrorismo» recapitato dal Viminale, per i progressisti, è una vergogna. Peggio: un attacco allo stato di diritto. Ieri mattina, il coordinamento “Torino per Ga2a”, gli stessi che agitano le piazze pro-Pal tra slogan anti-Israele e scontri con la polizia, ha pure convocato un sit-in sotto la Prefettura al grido di “Mohamed libero subito”. Presenti esponenti locali del campo largo e l’Anpi. Andiamo con ordine. Lunedì mattina la Digos ha prelevato Shahin a casa sua, dove vive con moglie e due figli, e lo ha IL COMMENTO portato in un Centro di permanenza per il rimpatrio (parrebbe quello di Caltanissetta) spiegandogli che doveva lasciare immediatamente l’Italia per rientare in Egitto. Gli è stato quindi revocato il permesso di soggiorno. La parole al miele per i terroristi islamici e pure il blocco della Torino-Caselle in occasione di uno dei tanti violenti cortei del sabato hanno convinto il Viminale ad agire. L’avvocato Fairus Ahmed Jama, però, ha subito chiesto asilo politico per frenare le pratiche. «Così abbiamo ancora del tempo. Due settimane se chiedono il procedimento veloce», ha spiegato a Repubblica. Il giudice, in ogni caso,avrebbe convalidato il rimpatrio. Per la cronaca: l’imam aveva già chiesto la cittadinanza italiana ma gli era stata negata (il ricorso è ancora pendente). «Se lui va in Egitto, sicuramente sarà torturato. Non sappiamo se sarà anche ucciso. Ed è abbastanza bizzarro che il Paese di Giulio Regeni, dove vive Patrick Zaki, non si renda conto che l’Egitto è quel posto lì. In questo momento è vietato mandare una persona come lui in Egitto, sapendo che sarà torturato», attacca il legale di Shahin, Gianluca Vitale. “Torino per Ga2a” aggiunge: «L’Egitto è un paese in cui non può tornare, dove il regime dittatoriale di al-Sisi – da lui ripetutamente denunciato per corruzione e per il suo esplicito sostegno allo Stato colonialista di Israele – lo esporrebbe a rischio concreto di arresto, tortura e detenzione a vita». È tutta colpa della politica. «Mohamed è stato preso di mira anche perché imam di una moschea di Torino. Ancora una volta, la propaganda islamofoba diventa strumento per zittire chi alza la voce», rincarano la dose i pro-Pal. Ed poi ecco la sinistra in grande spolvero. Alice Ravinale, capogruppo di Avs in Consiglio regionale in Piemonte, e Marco Grimaldi, vicecapogruppo di Avs alla Camera: «È evidente che ci troviamo di fronte a un uso politico del diritto, dove la libertà di espressione – anche quando controversa – viene trattata come un reato, e il dissenso come una minaccia. Questa è un’intimidazione, che non ha nulla a che vedere con la sicurezza nazionale». Gli esponenti rossoverdi chiedono «l’immediata sospensione del provvedimento di espulsione». Anche il Pd, per voce del senatore Andrea Giorgis, protesta: «Una dichiarazione pubblica, senza dubbio inaccettabile, seppur poi ritrattata, è sufficiente per giustificare l’espulsione di una persona incensurata?». Esulta, invece, tutto il centrodestra. A sollevare il caso era stata il vicecapogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera, Augusta Montaruli, con un’interrogazione parlamentare: «Ho chiesto se il sedicente imam di via Saluzzo avesse i requisiti per rimanere in Italia, portando all’attenzione del Viminale condotte a mio giudizio incompatibili con la permanenza in Italia. La risposta è arrivata con la sua espulsione. A fare polemica sono i soliti che si schierano contro la sicurezza». Annamaria Cisint, europarlamentare della Lega, spiega: «Il messaggio arriva forte e chiaro: ora servono regole precise con le comunità islamiche e le chiusure dei fantomatici centri islamici. È necessario un registro dei luoghi di culto e degli imam». La vicesegretaria del Carroccio, Silvia Sardone, si scaglia contro la sinistra, spiegando come sia «francamente sconcertante che non si interroghi sul profilo estremistico di questo personaggio». Roberto Rosso e Marco Fontana, rispettivamente senatore e segretario cittadino di Forza Italia, attaccano la giunta rossa di Torino: «Dopo questa espulsione, torniamo a lanciare un appello sulla realizzazione del più grande centro islamico con moschea nel quartiere Aurora. La cacciata dell’imam deve suonare per tutti come un campanello d’allarme».
Fuoco amico su Fiano, accusato dai dem. I Giovani: «Non parli a nome del Pd»
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di Alberto Giannoni
Fuoco amico su Fiano, accusato dai dem. I Giovani: «Non parli a nome del Pd»
Un altro schiaffo da sinistra al mondo ebraico. E stavolta arriva direttamente dal Pd, anzi dal suo «settore giovanile», i Giovani Democratici che lunedì sera, a Bergamo, hanno contestato Emanuele Fiano (foto), mostrando l’intenzione di porre lui e la sua area, di fatto, ai margini del partito. Il loro intervento intima: «La sinistra non può dialogare con i “sionisti moderati”, deve dialogare con gli antifascisti e gli antisionisti». Certo, non erano incoraggianti i precedenti: all’università di Venezia tre settimane fa e poi a Milano a un convegno dedicato a Yitzhak Rabin. Ma in quelle circostanze erano stati i gruppettari a censurare Fiano. Stavolta erano componenti del suo partito. Surreale, eppure è così. L’ex deputato dem, già presidente della Comunità ebraica di Milano, figlio di uno dei maggiori testimoni della Shoah, viene contestato da suoi compagni, al grido di «Non parla a nome nostro, né come sinistra né come Giovani democratici, e crediamo neanche come Pd». Surreale come la scena che si è vista lunedì sera a Bergamo, dove la locale associazione Italia-Israele di Matteo Oriani aveva invitato e Fiano e Luciano Belli Paci (figlio di Liliana Segre), dirigenti e fondatori di “Sinistra per Israele – due popoli due Stati”) come relatori a un convegno: «La pace è possibile?». Sala gremita, fuori spiegamento di forze dell’ordine per tenere a distanza i facinorosi e la loro protesta annunciata. «Avevano anche diffuso una locandina con le nostre tre fotografie – racconta Belli Paci – mancava solo la scritta Wanted». «Durante tutta la serata – dice al Giornale – non ho potuto fare a meno di pensare allo sconforto del mio amico Lele, quando aveva saputo che a quei fanatici intenzionati a impedirgli di parlare si erano uniti i Giovani democratici di Bergamo, i quali hanno redatto un comunicato dichiarando che le posizioni di Fiano non devono avere cittadinanza nel Pd. Per fortuna quasi tutti i massimi esponenti del Pd bergamaschi (sindaca, Gori, consiglieri regionali ecc) hanno manifestato immediatamente la propria solidarietà a Lele». «La presenza di sacche di intolleranza e di estremismo – osserva Belli Paci – dovrebbe però preoccupare anche il Pd nazionale. Se non si decidono a mettere alcuni paletti ben chiari la situazione non potrà che degenerare ulteriormente». In effetti, l’ex sindaco Giorgo Gori, l’attuale prima cittadina Elena Carnevali e molti altri hanno manifestato solidarietà a Fiano. Lo hanno fatto anche la vicepresidente dell’Europarlamento Pina Picierno e Piero Fassino, leader storico della «Sinistra per Israele». E il consigliere regionale Pietro Bussolati, che ha «orgogliosamente in tasca la tessera di sinistra per Israele» e dice: «A questo punto urge un chiarimento nel mio partito». «Urlare slogan è facile – osserva Oriani – molto più difficile è ascoltare e affrontare la complessità. Alle menti dei Gd avrebbe giovato più ascoltare Fiano». Ma i Giovani democratici bergamaschi insistono. E hanno dalla loro la segreteria regionale Giovani. E i vertici del partito, sia lombardi che nazionali, sembrano non voler prendere posizione, non pubblica almeno. E il «bubbone» si aggrava.
La sinistra difende l’imam espulso
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di Francesco Giubilei
La sinistra difende l’imam espulso
«Io personalmente sono d’accordo con quello che è successo il 7 ottobre… non è una violazione, non è una violenza». Lo scorso 9 ottobre Mohamed Shahin, imam della moschea di via Saluzzo a Torino, pronunciava queste parole di fronte a un centinaio di persone in piazza Castello. a pagina 14 «Io personalmente sono d’accordo con quello che è successo il 7 ottobre. Noi non siamo qui per essere quella violenza, ma quello che è successo il 7 ottobre 2023 non è una violazione, non è una violenza». Lo scorso 9 ottobre Mohamed Shahin, imam della moschea di via Saluzzo a Torino, pronunciava queste parole di fronte a un centinaio di persone riunite in piazza Castello in un evento organizzato dal coordinamento «Torino per Ga2a». Un mese e mezzo dopo è arrivato nei suoi confronti un decreto di espulsione per motivi di sicurezza firmato dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e l’imam è stato condotto prima al Centro di Permanenza per il rimpatrio di Torino e dovrebbe trovarsi in quello di Caltanissetta. La misura prevede la revoca del permesso di soggiorno e il rimpatrio immediato in Egitto, il suo paese di origine. L’espulsione di Shahin, residente in Italia da ventun anni, è motivata dalle posizioni estremiste assunte dall’imam nel discorso pronunciato in piazza a Torino, dove non solo ha affermato di essere d’accordo con quanto accaduto il 7 ottobre ma ha definito Hamas «un movimento di resistenza legittima». Non appena si è diffusa la notizia dell’espulsione, la sinistra si è affrettata a prendere la difesa dell’imam, testimoniando la saldatura tra l’islam radicale, i movimento pro Pal, i collettivi e la sinistra estrema. Non a caso ieri è stato organizzata una mobilitazione dal movimento «Torino per Ga2a» fuori dalla prefettura di Torino con lo slogan «non ci piegheremo alla repressione di questo governo islamofobo e razzista» a cui hanno partecipato la consigliera comunale del Pd Ludovica Cioria e il suo collega Dem Ahmed Abdullahi, la consigliera regionale Avs Alice Ravinale, la consigliera comunale Avs Sara Diena e la consigliera comunale M5s Valentina Sganga. In piazza non sono mancati slogan contro il governo e cori d’odio contro Israele. Il deputato di Avs Marco Grimaldi, che ha presentato anche un’interrogazione parlamentare, si spinge oltre: «Chiediamo l’immediata sospensione del provvedimento di espulsione, il rispetto della procedura di asilo e un chiarimento urgente da parte del ministero dell’Interno». La presa di posizione della sinistra ha suscitato la risposta del centrodestra che, con la vice segretaria della Lega Silvia Sardone, afferma: «La sinistra riesce incredibilmente a difendere sempre le persone sbagliate e, in questo caso, arriva a schierarsi dalla parte dell’imam di Torino, Mohamed Shahin, per il quale è stata chiesta l’espulsione per motivi di sicurezza nazionale con rimpatrio immediato in Egitto». Come spiega al Giornale la parlamentare torinese di Fratelli d’Italia Augusta Montaruli «chi oggi ancora difende il sedicente imam si schiera contro i cittadini. Ora il mio lavoro sarà andare a verificare se il soggetto e la sua galassia hanno ricevuto finanziamenti con cui effettuare il proselitismo dell’odio». Per il senatore Roberto Rosso di Forza Italia invece: Da una parte c’è il Governo che fa rispettare le norme, dall’altra c’è il sindaco Lo Russo che continua a flirtare ambiguamente con gli ambienti anarchici, autonomi e pro Palestina legati ad Askatasuna”. Una lettura opposta a quella degli attivisti pro Pal per cui «Mohamed è stato preso di mira non solo per il suo impegno politico ma anche perché Imam di una moschea di Torino. Ancora una volta, la propaganda islamofoba diventa strumento per zittire chi alza la voce e rifiuta di abbassare la testa». In realtà non c’è nessun accanimento o un’inesistente islamofobia ma la constatazione che il linguaggio di odio e violento dell’imam è inconciliabile con le nostre leggi e la Costituzione e, oltre al profilo giuridico, con i valori occidentali.
Consegnato un altro corpo, tensione tra Israele, Hamas e Jihad islamica. Beirut e Gaza in lutto
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di Ettore Di Bartolomeo
Consegnato un altro corpo, tensione tra Israele, Hamas e Jihad islamica. Beirut e Gaza in lutto
Il dossier degli ostaggi ritorna al centro della crisi in Medio Oriente. La Jihad islamica ha annunciato di aver ritrovato nella zona di Nuseirat, nella parte centrale della Striscia, il corpo di un ostaggio ucciso, restituito ieri alle 16 ora locale. Le Forze di difesa israeliane hanno in seguito confermato che la Croce Rossa aveva ricevuto da Hamas una bara con i resti di un ostaggio e che i mezzi si stavano dirigendo verso il punto concordato per la consegna. Le procedure però avanzano lentamente e restano incerte. Tuttavia Israele ha ribadito che il gruppo è in grave ritardo nella restituzione delle salme previste dall’accordo di cessate il fuoco. In una nota molto dura l’ufficio del primo ministro ha parlato di ulteriore violazione chiedendo l’immediato trasferimento dei tre corpi ancora trattenuti. Né Hamas né Jihad islamica hanno fornito dettagli sul trasferimento verso Israele dei resti annunciati nelle scorse ventiquattro ore. Intanto, sul campo, mentre la Ga2a Humanitarian Foundation ha sospeso le proprie operazioni per motivi di sicurezza, l’IdF ha aperto il fuoco a Bani Suheila, a est di Khan Younis, uccidendo almeno una persona secondo fonti mediche locali. In questo quadro, la Croce Rossa è stata costretta a muoversi tra bombardamenti, allagamenti e interruzioni delle attività umanitarie. Le forti piogge hanno trasformato in pozzanghere decine di tende per sfollati nella zona di Al Mawasi a Khan Younis peggiorando una situazione già estrema. CROLLO ECONOMICO NEI TERRITORI PALESTINESI La situazione appare sempre più disperata. Un nuovo rapporto dell’Unctad diffuso ieri fotografa il quadro economico più grave mai registrato nei Territori palestinesi. La Cisgiordania attraversa la recessione più severa della sua storia recente, mentre Ga2a è precipitata in una “povertà multidimensionale”, ovvero non ha accesso a vari elementi fondamentali necessari per vivere dignitosamente. Dopo due anni di operazioni militari e restrizioni la crisi è tra le dieci peggiori al mondo dal 1960. Alla fine del 2024 il Pil palestinese è tornato ai livelli del 2010 e quello pro capite addirittura al 2003. L’Onu chiede un piano di ripresa globale con interventi immediati della comunità internazionale. LIBANO IN LUTTO E NELLE MIRE DEI RAID ISRAELIANI In parallelo il Libano continua a pagare un prezzo altissimo. L’Alto commissariato Onu per i diritti umani ha denunciato ieri l’uccisione di almeno centoventisette civili libanesi in attacchi israeliani successivi al cessate il fuoco entrato in vigore quasi un anno fa. Il portavoce Thameen Al Kheetan ha chiesto un’indagine indipendente segnalando il rischio concreto di un ampia escalation. Beirut intanto ha assistito ai funerali imponenti di Haytham Tabtabai, il comandante militare di Hezbollah ucciso domenica in un raid israeliano sulla capitale che ha provocato cinque morti e ventotto feriti. Il presidente libanese Michel Aoun ha dichiarato che il mondo deve fermare lo Stato israeliano e ha accusato Tel Aviv di cercare deliberatamente un allargamento del conflitto. AMNESTY ALLA GERMANIA: NO FORNITURE DI ARMI Sul fronte diplomatico si è aperto un nuovo fronte polemico. Amnesty International ha chiesto alla Germania di ripristinare la sospensione dell’export di armamenti verso Israele definendo irresponsabile la decisione di Berlino di valutare caso per caso le forniture. Secondo l’organizzazione il nuovo orientamento invia a Israele il segnale che potrà continuare a violare il diritto internazionale senza timore di conseguenze. La Germania è il secondo maggiore fornitore di armi dopo gli Stati Uniti con licenze per oltre quattrocentoottantacinque milioni di euro dal sette ot
tobre duemilaventitre al dodici maggio duemilaventicinque.
Gaza, le Ong: per i profughi l’inverno più terribile. In Egitto i colloqui sulla fase 2
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di Rosalba Reggio
Gaza, le Ong: per i profughi l’inverno più terribile. In Egitto i colloqui sulla fase 2
La fase 2 dell’accordo di pace mediato dall’amministrazione Trump su Gaza è stato oggetto di discussione delle delegazioni di Egitto, Qatar e Turchia, ieri al Cairo. I Paesi, mediatori insieme agli Stati Uniti del cessate il fuoco nella Striscia, si sono confrontati su come collaborare con il governo americano per garantire il successo dell’attuazione della seconda fase del piano. Ma nei territori il cessate il fuoco mostra ancora tutta la sua fragilità. Ieri, fa sapere l’ospedale Nasser, un palestinese è stato ucciso dall’esercito israeliano a Basni Suheila, a est di Khan Younis e cinque miliziani usciti dai tunnel nei pressi di Rafah, ha dichiarato l’Idf, sono stati uccisi dalle truppe della Brigata Nahal durante i controlli della zona. Anche il processo di restituzione delle salme degli ostaggi non è ancora terminato. Ieri i militari delle Forze di difesa israeliane hanno ricevuto i resti di una persona. Se l’identità dell’ostaggio venisse confermata, i corpi ancora in mano ad Hamas sarebbero due. Restano drammatiche le condizioni di vita dei ga2awi. L’economia dei territori palestinesi occupati è precipitata «nella peggiore recessione mai registrata» hanno affermato le Nazioni Unite, spiegando che due anni di operazioni militari e restrizioni hanno vanificato decenni di progressi nello sviluppo e aggravato la fragilità fiscale e sociale. Ma l’allarme arriva anche dalle Ong. A causa delle violenti piogge che stanno colpendo Ga2a, la situazione degli sfollati viene definita «catastrofica» da Amjad Al-Shawa, responsabile della rete di organizzazioni non governative nella Striscia. Gli abitanti dell’enclave, ha spiegato, stanno affrontando l’inverno più difficile di sempre: le loro tende già fatiscenti si sono allagate, mancano materassi e coperte e nei campi gli israeliani non lasciano arrivare gli aiuti necessari. Le necessità sono enormi perché, aggiunge Al-Shawa, le tende entrate nei territori coprono solo il 10% del fabbisogno. Se da un lato diversi Paesi allentano l’allerta viaggi in Israele dopo il cessate il fuoco, non mancano iniziative politiche dalla popolazione civile. Ieri la Commissione europea ha ritenuto ammissibile una iniziativa dei cittadini europei che chiede la sospensione dell’accordo di associazione Ue-Israele «alla luce della violazione dei diritti umani». I promotori avranno 6 mesi per raccogliere un milione di firme, necessarie perché la loro richiesta venga analizzata nel merito dalla Commissione. Ma il governo Netanyahu affronta tensioni anche in patria. Dopo l’approvazione della legge che consente la pena di morte per chi uccide gli israeliani, l’associazione nazionale dei medici ha dichiarato che non accetterà di essere coinvolta nelle esecuzioni. «Le nostre conoscenze – ha affermato Alberto Olchovsky, rappresentante dell’associazione – non devono essere utilizzate per scopi che non promuovano la salute e il benessere». Critiche arrivano anche da ex alti funzionari della difesa e della giustizia che hanno dichiarato che «la proposta danneggerà gravemente la sicurezza di Israele e dei suoi cittadini e potrebbe mettere in pericolo ebrei e israeliani in tutto il mondo».
L’Onu: “Gaza è inabitabile un abisso creato dall’uomo”
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di Gabriella Colarusso
L’Onu: “Gaza è inabitabile un abisso creato dall’uomo”
Dopo giorni di forti piogge, a Ga2a molte tende non ci sono più. Padri e bambini scavano nel fango a Deir el Balah, a Khan Yunis, cercando di liberare i teloni intrappolati e ricostruirsi un nuovo rifugio, mentre il poco che avevano è andato perduto. Per i quasi due milioni di sfollati palestinesi, sopravvissuti a oltre due anni di guerra e a continui esodi tra il nord e il sud dell’enclave, l’inverno è una nuova catastrofe. Le organizzazioni umanitarie hanno distribuito più di 3.600 tende, 129mila teloni e 87mila coperte dall’inizio del mese, ma è ancora una goccia nel mare dei bisogni, che basta a stento a coprire il 10% delle necessità, dice Amjad Al-Shawa, responsabile della rete di ong nella Striscia. Per affrontare il freddo servono rifugi, come case o prefabbricati mobili, che finora non sono arrivati. La devastazione è tale che «la sopravvivenza stessa di Ga2a è in gioco», avverte l’Unctad, l’agenzia Onu che si occupa di sostenere i Paesi in via di sviluppo, in un rapporto pubblicato ieri. La guerra «ha eroso tutti i pilastri della sopravvivenza» umana, dalle scuole alle panetterie agli ospedali, facendo «sprofondare il territorio palestinese in un abisso creato dall’uomo». Le conclusioni dell’Onu sono drammatiche: «Data la distruzione incessante e sistematica che ha subito, ci sono seri dubbi sulla capacità di Ga2a di ricostruirsi come spazio vitale e come società». La ricostruzione costerà almeno 70 miliardi, stimano le Nazioni Unite, ma l’economia della Striscia ha subito danni tali che ci vorranno «diversi decenni prima che Ga2a recuperi la qualità della vita precedente all’ottobre 2023». Tra il 2023 e il 2024, l’economia della Striscia si è contratta dell’87% mentre «la violenza, l’espansione accelerata degli insediamenti e le restrizioni alla mobilità dei lavoratori» hanno «decimato l’economia» in Cisgiordania. Il Pil palestinese è tornato «al livello del 2010». Un quadro desolante, che si accompagna alle difficoltà politiche di portare avanti la fase due del piano Trump, che prevede il disarmo di Hamas e il ritiro graduale dell’esercito israeliano. La forza di stabilizzazione internazionale che dovrebbe accompagnare questo percorso stenta a prendere forma, perché anche i paesi disponibili a farne parte come l’Azerbaijan hanno chiarito che non invieranno soldati se il mandato sarà quello di combattere contro Hamas. L’Egitto, che avrebbe dovuto organizzare una conferenza sulla ricostruzione a novembre, l’ha rimandata sine die. Ieri al Cairo si sono incontrati i capi delle intelligence turca ed egiziana e il premier del Qatar, i Paesi mediatori, ma la discussione, secondo fonti D di Ankara, è stata incentrata sulle violazioni del cessate il fuoco da parte di Israele – i morti a Ga2a dall’inizio della tregua sono più di 300. Anche dagli stessi americani non arrivano segnali incoraggianti. Secondo il New York Times, l’amministrazione Trump sta spingendo per costruire rifugi temporanei nella zona gialla occupata da Israele – c’è anche già il nome “Comunità Alternative Sicure” – dove i palestinesi dovrebbero trasferirsi lasciando l’area controllata da Hamas , attratti dalla prospettiva di maggiore sicurezza e alloggi meno precari in cui vivere. Ma sul lungo periodo potrebbe significare una Ga2a divisa in due, con l’Est occupato da Israele.