Rassegna stampa del 28 novembre 2025
La rassegna di oggi è dominata da una lettura fortemente sbilanciata del conflitto mediorientale, con un’enfasi quasi esclusiva sulle responsabilità israeliane e una scarsa attenzione al contesto strategico e alle dinamiche interne palestinesi. Gran parte della stampa insiste sulla paralisi diplomatica, sulla crisi umanitaria e su una rappresentazione rigidamente binaria del conflitto, mentre solo poche analisi provano a mantenere un approccio più razionale e geopolitico.
Repubblica, il Manifesto e l’Unità insistono sulla narrativa dell’assedio: Gaza come teatro di un collasso umanitario totale, la Cisgiordania come territorio sottoposto a operazioni di repressione sistematica, fino alle accuse più estreme di torture e omicidi nelle carceri israeliane. Si tratta di un impianto che amplifica il racconto palestinese e in diversi casi omette qualsiasi riferimento al ruolo delle organizzazioni armate o alle condizioni operative che Israele affronta lungo i fronti di Gaza, Libano e Cisgiordania.
Domani offre invece la lettura più complessa, concentrandosi sullo stallo diplomatico: inquadrando Gaza, il Nord e il contesto regionale dentro un’unica dinamica di “prigionia reciproca”, l’autore sostiene che l’unico modo per sbloccare il quadro sia un’iniziativa israeliana che riapra il terreno politico, in particolare con i Paesi sunniti. È l’unico contributo che cerca di collocare la crisi dentro una visione strategica regionale.
Sul fronte italiano, alcune testate rilanciano la retorica internazionalista emergente dalle iniziative filo-palestinesi globali: l’intervista ad Avila (Global Sumud Flotilla) presenta la guerra come un nodo della più ampia lotta contro il complesso militare-industriale occidentale, con un’enfasi marcata sulla delegittimazione del governo italiano e delle politiche NATO.
Nel complesso, la selezione stampa del giorno mostra una forte polarizzazione: prevale la denuncia e la narrazione vittimistica, mentre soltanto pochi contributi — in particolare Domani e il Riformista — offrono un’analisi fondata sulle dinamiche geopolitiche e sulle responsabilità multiple dello stallo.
Gruppi armati in Siria insieme agli Houthi «stanno valutando l’invasione del Golan»
L’articolo de Il Riformista merita il semaforo verde per il suo focus sulla sicurezza strategica di Israele, offrendo una prospettiva cruciale per comprendere la logica che guida l’IDF. Concentrarsi su un “dossier del Generale dell’IDF” e sui raid mirati contro la minaccia di Hezbollah è essenziale per contrastare la narrazione della violenza indiscriminata che domina molti media. Evidenziando l’obiettivo di “mettere fuori Hezbollah”, un proxy iraniano che rappresenta la principale minaccia al confine nord, il pezzo riporta la discussione sul piano del diritto di Israele all’autodifesa e sulla necessità di neutralizzare organizzazioni terroristiche transfrontaliere. In un panorama mediatico che spesso ignora o minimizza le motivazioni di sicurezza israeliane, questa analisi riporta il dibattito su un terreno informato, strategico e non meramente emotivo. Un esempio di giornalismo che spiega la guerra, anziché limitarsi a denunciarne gli effetti.
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di Aldo Torchiaro
Gruppi armati in Siria insieme agli Houthi «stanno valutando l’invasione del Golan»
L’aereo israeliano sgancia una prima, poi una seconda bomba. Trema la terra, in Libano: ci troviamo a una manciata di chilometri. Quello che succede oltre confine lo apprendiamo dalla radio dell’esercito che una gentile soldatessa traduce per noi. Il mezzo militare con il quale ci arrampichiamo ad Har Adir si ferma. La salita è scoscesa e il terreno, brullo: neanche il fuoristrada può inerpicarsi a pieno carico. Dunque si scende e si prosegue a piedi. Siamo sulla collina da cui si guarda a sinistra al Libano mentre a destra si tocca la Siria. Israele è notorio per l’alta tecnologia, ma qui bastano i binocoli. Perché i miliziani di Hezbollah si vedono a occhio nudo, vestiti di nero tra la vegetazione che si fa montuosa. Le incursioni armate dei proxy iraniani sono frequenti. E non ci sono solo loro. Anche Hamas ha una presenza nella zona. Poca roba, ma ci sono. Se il piano di invasione e carneficina dei kibbutz in origine portava il marchio di fabbrica di Hezbollah, non è escluso che averglielo copiato per realizzare il L’ 7 ottobre – sul versante Sud – sia stato possibile per Hamas, data la coesistenza con il «partito di Dio». Hezbollah deve dimostrare di non essere troppo da meno rispetto ai concorrenti sunniti di Hamas, ma in un anno e mezzo, dal colpo dei cercapersone al raid di sei giorni fa, l’organizzazione sciita è decimata. E il confine con il Libano presidiato. Israele mantiene cinque postazioni in territorio libanese. I militari dell’IDF tengono a precisare che sono avamposti di osservazione. Non si conquista e non si annette niente. Ma il pericolo rimane alto. «Massima allerta». Lo dimostrano i raid di ieri sui villaggi di Jarmaq e Mahmoudiyeh. La partita è aperta verso Hezbollah e gli altri proxy, anche in Siria. In questo fazzoletto di terra, il triangolo Israele-Libano-Siria è come il triangolo d’emergenza, che ci segnala un rumors che da fonti di intelligence arriva fino a noi: gruppi armati in Siria, con il supporto operativo di miliziani del movimento sciita yemenita filo-Iran Houthi «stanno valutando l’invasione delle alture del Golan». Ecco perché Israel Katz, ministro della Difesa israeliano, ha autorizzato il «preventive strike» a un anno esatto dalla firma della tregua in Libano, a due giorni dall’arrivo del Pontefice a Beirut e a una settimana dal raid costato la vita al capo di stato maggiore di Hezbollah, Haytam Ali Tabatabai. Katz, ieri alla Knesset, è andato oltre dicendo che Israele «non è sulla buona strada» per un accordo di sicurezza o normalizzazione con Damasco, aggiungendo che Tel Aviv si sta preparando a scenari in cui milizie siriane poco inclini ad ascoltare le direttive del presidente siriano Ahmed al Sharaa possano sferrare attacchi contro le comunità israeliane o nuovamente contro gruppi drusi in Siria. Il ministro della Difesa ha quindi affermato che gli Houthi sono attualmente una «tra le forze operative presenti in Siria» e starebbero valutando un’invasione via terra delle alture del Golan. Dalla caduta del regime di Bashar al Assad lo scorso dicembre, le Forze di difesa d’Israele hanno occupato nove postazioni nel sud della Siria, inclusi due avamposti sul crinale siriano del monte Hermon. Le Forze armate di Tel Aviv sono tornate ad operare sul fronte Nord. Al compiersi degli ultimi bombardamenti vediamo alzarsi una alta colonna di fumo, vicina al confine. Speriamo non vada in fumo anche l’accordo per Gaza.
La ricostruzione. Gli Usa vogliono partire da Rafah
Pezzo interessante ma incompleto. Antoniucci mostra come Washington voglia avviare la ricostruzione partendo da Rafah, creando un “modello” di futura amministrazione, ma presenta il piano in modo parziale e poco contestualizzato. Le cifre sulle vittime e le presunte violazioni del cessate il fuoco sono riportate senza contrappunto, mentre il ruolo dell’IDF e i vincoli di sicurezza restano sullo sfondo. Il risultato è un quadro sbilanciato, che suggerisce un disegno israelo-americano unilaterale senza spiegarne davvero le ragioni operative.
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di Riccardo Antoniucci
La ricostruzione. Gli Usa vogliono partire da Rafah
La fase due in discussione oggi a Genova. Si guarda verso Rafah. È da lì che gli americani vogliono cominciare a ricostruire, è lì che l’esercito israeliano non ha smesso di portare operazioni militari anche dopo la firma del cessate il fuoco con Hamas, l’11 ottobre scorso. La città all’estremo sud della Striscia, la seconda per dimensioni e contigua al valico con l’Egitto ora sbarrato, è stata occupata a maggio 2024, svuotata e rasa al suolo in un’ostinata ricerca, da parte delle forze israeliane, di bonificarla da tunnel e infrastrutture terroristiche. OGGI RAFAH è “zona verde”, cioè cade al di qua della linea gialla che divide Ga2a a metà a partire dai bordi, e ricade totalmente sotto la zona amministrata da Israele, e svuotata dagli abitanti palestinesi. Ma Rafah è anche zona militare attiva, perché lì sono asserragliati gli ultimi miliziani (sparuti, sembra una ventina) di una brigata irriducibile di Hamas locale. L’Idf comunica quasi quotidianamente ai media israeliani i risultati delle sue attività contro questo gruppo, mentre non parla delle demolizioni e delle operazioni di costruzione che sta portando avanti nella zona. La settimana scorsa ha ucciso 11 “terroristi” e catturati sei, l’altro ieri ne ha uccisi due “che uscivano dai tunnel”. La sorte degli altri è diventata un tema da discutere al tavolo delle trattative sul cessate il fuoco, quelle sulla “seconda fase”, prevista dai venti punti di Trump ma di cui si è cominciato a parlare solo martedì, al Cairo. Hamas ha chiesto ai mediatori arabi di Egitto, Turchia e Qatar di negoziare con gli israeliani un salvacondotto per i miliziani di Rafah. C’è però molto altro da discutere prima. Anche gli Stati Uniti di Donald Trump guardano a Rafah, perché è lì che vorrebbero far partire la “ricostruzione della Nuova Gaza”, creare un “modello” per il resto della Striscia. È in quest’area, del resto, che per meno di sei mesi ha operato la Gaza Humanitarian Foundation. Le indiscrezioni sui piani americani sono state diffuse ieri dalla rete israeliana Channel 12, per precisare che il governo di Benjamin Netanyahu è molto cauto sulla prospettiva. Il New York Times, e ieri anche altri media arabi e Al Jazeera, hanno pubblicato informazioni analoghe, basandosi su fonti del Dipartimento di Stato Usa. Washington continua a fare pressione per passare alla ricostruzione e lasciarsi la guerra alle spalle. Tale è la spinta che, con Hamas che resta attiva nella Striscia e il nodo del disarmo irrisolto, gli Usa accetterebbero di ricostruire solo nella metà di Gaza, quella sotto il controllo israeliano, e dove non vivono più gazawi. Dal punto di vista del governo israeliano, niente è ancora stabilito. Devono tornare i corpi di altri due ostaggi (che la Jihad sta cercando a Jabalia) e vanno chiariti mandato e composizione della forza di stabilizzazione internazionale prevista dal piano Trump. Nessuno sa ancora bene dire di cosa si tratti. L’Idf intanto sta rimuovendo detriti e macerie, sigillando tunnel e costruendo nuove condotte di acqua ed elettricità. Si prevede, assicurano fonti militari, di costruire anche delle tendopoli. Sarebbero queste le “Alternative safe communities” (Asc) su cui ragiona il Dipartimento di Stato Usa. Nei prossimi giorni Netanyahu dovrebbe tenere una serie di riunioni con i suoi ministri. Non sarà escluso un ragionamento su un’eventuale ripresa dei combattimenti, nel caso il negoziato naufraghi, e ha già chiesto all’esercito piani operativi. Al di là della linea gialla, intanto, nella parte della Striscia tra Khan Yunis e Gaza City dove sono ammassati i 2 milioni circa di gazawi, gli aiuti umanitari sono ancora troppo scarsi, (dicono le ong e l’Onu) e piove a dirotto e l’acqua allaga e distrugge le tende degli sfollati di Al Mawasi. Quella di Abdullah Hassan e della sua famiglia di cinque persone era già stata allagata dopo i temporali di due settimane fa, ora è completamente distrutta: “Ci siamo spostati da mia suocera, in un campo vicino. Non c’è un posto dove sedersi”. E ai margini della linea gialla continuano gli incidenti e l’Idf denuncia numerosi tentativi di aggressione, che finiscono in raid e sparatorie. Violazioni del cessate il fuoco, per i palestinesi. Dall’11 ottobre sono state uccise almeno 342 persone.
Palestinesi torturati e uccisi nelle carceri di Netanyahu
Il titolo più propagandistico della giornata. L’articolo — per come riportato — formula accuse estreme come fatti certi, senza indicare fonti verificate né offrire un minimo contraddittorio. La personalizzazione dell’accusa su Netanyahu e la rappresentazione di Israele come apparato criminale ignorano completamente il contesto della guerra contro Hamas e la dimensione terroristica del conflitto. Una narrazione ideologica, costruita per demonizzare più che per informare, e totalmente priva di criteri minimi di rigore giornalistico.
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di Umberto De Giovannangeli
Palestinesi torturati e uccisi nelle carceri di Netanyahu
Seviziati, violentati, uccisi. Così si vive e si muore nelle prigioni dell’unica democrazia in Medio Oriente: Almeno 98 palestinesi sono morti nelle carceri israeliane o sotto custodia militare israeliana dal 7 ottobre 2023, secondo un rapporto dell’Ong israeliana Physicians for Human Rights Israel (PHRI). L’organizzazione israeliana, una delle prime nel Paese ad accusare il governo di Benjamin Netanyahu di aver commesso un genocidio nella Striscia di Ga2a, ha documentato la morte di 94 palestinesi tra ottobre e agosto scorso (46 in carcere e 52 in custodia militare). A queste morti – 68 provenienti dalla Striscia di Ga2a e 26 dalla Cisgiordania occupata o da cittadini israeliani – se ne aggiungono altre quattro registrate dopo la conclusione del rapporto. «I risultati iniziali dell’autopsia pubblicati dalle famiglie delle vittime, insieme alle testimonianze degli avvocati che hanno visitato le carceri e alle informazioni mediche ottenute in alcuni casi, indicano un modello sistematico di violenza grave», afferma l’organizzazione. Tra i casi riscontrati ci sono lesioni alla testa, emorragie interne e costole rotte, e altri casi, afferma il rapporto, «rivelano gravi negligenze mediche, come estrema malnutrizione o ri?uto di cure salvavita». Un gruppo di Ong israeliane per i diritti umani ha denunciato alle Nazioni Unite l’uso della tortura da parte dello Stato di Israele come strumento di «violenza di stato istituzionalizzata» contro i detenuti palestinesi nei territori occupati e all’interno dello stesso territorio israeliano, una situazione che è peggiorata dopo l’attacco terroristico di Hamas dell’ottobre 2023. Le testimonianze documentate dagli avvocati e dai ricercatori sul campo del Palestinian Centre for Human Rights (PCHR) contengono a loro volta racconti strazianti relativi a casi di stupro perpetrati dalle Forze di Occupazione Israeliane (IOF) contro civili palestinesi, comprese donne, arrestati in diverse aree della Striscia di Ga2a negli ultimi due anni. Tra questi casi c’è N.A., una donna e madre palestinese di 42 anni, arrestata mentre attraversava un posto di blocco israeliano allestito nel nord di Ga2a nel novembre 2024. Nella sua dichiarazione al personale del PCHR, N.A. ha raccontato molteplici forme di tortura e violenza sessuale, tra cui essere stata stuprata quattro volte da soldati israeliani, ripetutamente sottoposta a insulti osceni, spogliata e ?lmata nuda, folgorata e picchiata sul corpo. Ha detto all’avvocato del PCHR: “All’alba sentii i soldati urlare, dicendo che le preghiere del mattino erano vietate, e credo fosse il quarto giorno dopo il mio arresto a Ga2a. I soldati mi hanno spostato in un posto che non conoscevo perché avevo gli occhi bendati, e mi hanno ordinato di togliermi i vestiti. L’ho fatto. Mi hanno messo su un tavolo di metallo, hanno premuto il petto e la testa contro il tavolo, mi hanno ammanettato le mani alla fine del letto e mi hanno tirato le gambe con forza. Ho sentito un pene penetrare il mio ano e un uomo che mi violentava. Ho iniziato a urlare, e mi hanno picchiato sulla schiena e sulla testa mentre ero bendata. Ho sentito l’uomo che mi stava violentando eiaculare dentro il mio ano. Continuavo a urlare, continuavano a picchiarmi, e sentivo una telecamera—quindi credo che mi stessero ?lmando. Lo stupro è durato circa 10 minuti. Dopo di che, mi hanno lasciato per un’ora nella stessa posizione, con le mani ammanettate al letto con manette di metallo, la faccia sul letto, i piedi a terra, e completamente nuda. Di nuovo, dopo un’ora, sono stata violentata completamente nella stessa posizione, con penetrazione nella vagina, e sono stata picchiata mentre urlavo. C’erano diversi soldati. Li ho sentiti ridere e ho sentito il rumore degli scatti della macchina fotogra?ca. Questo stupro è stato molto rapido e non c’è stata alcuna eiaculazione. Durante lo stupro mi hanno picchiata con le mani sulla testa e sulla schiena. Non riesco a descrivere cosa ho provato. Desideravo la morte in ogni momento. Dopo che mi hanno violentata, sono rimasta sola nella stessa stanza, con le mani ancora ammanettate al letto e senza vestiti per molte ore. Sentivo i soldati fuori parlare in ebraico e ridere. Più tardi, sono stata violentata di nuovo. Ho urlato, ma mi picchiavano ogni volta che cercavo di resistere. Dopo più di un’ora, non so l’ora, un soldato mascherato è entrato, mi ha tolto la benda, ha sollevato la mascherina. Aveva la pelle bianca ed era alto. Mi ha chiesto se parlavo inglese. Ho detto di no. Ha detto di essere russo e mi ha ordinato di masturbargli il pene. Ho ri?utato, e lui mi ha colpito in faccia dopo avermi violentata. Quel giorno sono stata violentata due volte. Sono rimasta nuda tutto il giorno nella stanza dove ho passato tre giorni. Il primo giorno sono stata violentata due volte; il secondo giorno sono stata violentata due volte; il terzo giorno sono rimasta senza vestiti mentre mi guardavano attraverso la fessura della porta e mi ?lmavano. Un soldato ha detto che avrebbe pubblicato le mie foto sui social media. Mentre ero nella stanza, è iniziato il ciclo; poi mi hanno detto di vestirmi e mi hanno trasferita in un’altra stanza” In un altro episodio, A.A., un uomo e padre palestinese di 35 anni, è stato arrestato mentre si trovava all’ospedale Al-Shifa a Ga2a City nel marzo 2024. Ha raccontato al ricercatore sul campo del PCHR delle brutali torture subite durante i 19 mesi di detenzione, inclusi denudamenti forzati, insulti osceni, minacce di stupro contro di sé e la sua famiglia, culminate nello stupro subito da un cane addestrato all’interno del campo militare di Sde Teiman. Ha dichiarato: “Sono stato spostato in una sezione che non conoscevo all’interno di Sde Teiman. Durante le prime settimane lì, tra ripetuti atti di repressione, fui portato con un gruppo di detenuti in modo degradante in un luogo lontano dalle telecamere—un passaggio tra sezioni. Siamo stati completamente spogliati. I soldati portavano cani che si arrampicavano su di noi e mi urinavano addosso. Poi uno dei cani mi ha violentato—l’ha fatto apposta, sapendo esattamente cosa stava facendo, e ha inserito il pene nel mio ano, mentre i soldati continuavano a picchiarci, torturarci e a spruzzarci spray al peperoncino in faccia. L’aggressione del cane durò circa tre minuti. La tortura complessiva circa tre ore. A causa delle violente percosse, tutti noi abbiamo riportato ferite sul corpo. Ho subito un grave crollo psicologico e una profonda umiliazione. Ho perso il controllo perché non avrei mai potuto immaginare di vivere una cosa simile. Successivamente, un medico mi ha cucito una ferita alla testa causata dalla tortura—sette punti senza anestesia. Ho anche avuto lividi, fratture agli arti e una frattura alle costole.” T.Q., un uomo e padre palestinese di 41 anni, è stato arrestato mentre era sfollato all’ospedale Kamal Adwan nel dicembre 2023. È stato sottoposto a torture sessuali per 22 mesi in detenzione israeliana, inclusi insulti osceni, minacce di portare la moglie nel luogo di detenzione per violentarla e stupri con un oggetto di legno. Nella sua testimonianza a un ricercatore del PCHR riguardo all’episodio di stupro, ha dichiarato: “Uno dei soldati mi ha violentato inserendo violentemente un bastone di legno nel mio ano. Dopo circa un minuto l’ha tolto e poi l’ha inserito di nuovo con più forza mentre urlavo forte. Dopo un altro minuto l’ha tolto e mi ha costretto ad aprire la
bocca e a mettere il bastone in bocca per leccarlo. Per pura angoscia ho perso conoscenza per minuti, ?nché una uf?ciale donna non è arrivata e li ha costretti a smettere di picchiarmi. Mi ha sciolto le mani, mi ha dato una tuta bianca da indossare e mi ha portato un bicchiere d’acqua che ho bevuto. Sentivo il sangue scorrere dall’ano e chiesi di andare in bagno. Mi ha dato dei fazzoletti e sono andato in un water di plastica lì. Mi hanno tolto la benda; quando mi sono asciugato l’ano c’era sangue. Dopo aver ?nito e dopo che il sanguinamento era cessato, ho rimesso la tuta bianca. Appena sono uscito, mi hanno bendato di nuovo e mi hanno legato le mani dietro la schiena con delle fascette di plastica. Sono stato poi trasferito in una stanza dove sono stato tenuto con diversi detenuti per circa otto ore, durante le quali i soldati tornavano periodicamente per picchiarci e insultarci brutalmente.” Tra le persone tornate in libertà intervistate da Amnesty International ci sono anche cinque ex detenute rimaste senza contatti col mondo esterno per oltre 50 giorni. Inizialmente, sono state trattenute nel centro di detenzione militare per sole donne di Anatot, situato in un insediamento illegale nei pressi di Gerusalemme, nella Cisgiordania occupata. In seguito, sono state portate nella prigione femminile di Damon, nel nord d’Israele, gestita dal Servizio israeliano delle prigioni. Nessuna di loro è stata informata circa le basi legali dell’arresto o portata di fronte a un giudice. Hanno denunciato che durante i trasferimenti venivano picchiate. Una di loro, arrestata il 6 dicembre 2023 nella sua abitazione nella Striscia di Ga2a, ha raccontato di essere stata separata dai suoi due ?gli, di quattro anni e nove mesi, e detenuta inizialmente insieme a centinaia di uomini. I soldati israeliani le dicevano che faceva parte di Hamas, la picchiavano e la obbligavano a essere fotografata senza il velo. La donna ha anche descritto il tormento della ?nta esecuzione del marito: “Il terzo giorno di detenzione ci hanno gettato in una fossa e hanno iniziato a riempirla di sabbia. Un soldato ha sparato due colpi in aria e mi ha detto che avevano ucciso mio marito. Sono scoppiata a piangere e l’ho supplicato di uccidere anche me, per porre ?ne a quell’incubo”. Questa donna e le altre ex detenute intervistate da Amnesty International sono state scaricate nei pressi del valico di con?ne di Kerem Shalom / Karem Abu Salem e hanno dovuto camminare per oltre 30 minuti prima di raggiungere un centro di raccolta del Comitato internazionale della Croce Rossa per gli ex detenuti. La maggior parte di loro non è più tornata in possesso degli effetti personali come denaro, gioielli e telefonini.
Monito di Italia, Germania, Francia e Gb «Israele fermi le violenze dei coloni»
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di Redazione
Monito di Italia, Germania, Francia e Gb «Israele fermi le violenze dei coloni»
Il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, ha espresso una ferma condanna delle violenze dei coloni in Cisgiordania, insieme con i colleghi di Francia, Germania e Gran Bretagna. «Le attività destabilizzanti rischiano di compromettere il successo del Piano in 20 Punti per Gaza e le prospettive di una pace e sicurezza nel lungo termine», dichiarano i quattro ministri in una nota congiunta. «Il numero di attacchi ha raggiunto nuovi picchi: secondo l’Ocha, nel mese di ottobre si sono registrati 264 episodi, il numero più alto di aggressioni da parte di coloni in un singolo mese da quando le Nazioni Unite hanno iniziato a monitorare tali incidenti nel 2006. Questi attacchi devono cessare», hanno avvertito. Gli attacchi «seminano terrore tra i civili, danneggiano gli sforzi di pace in corso e compromettono la stabile sicurezza dello stesso Stato di Israele», hanno insistito. «Noi, ministri di Francia, Germania, Italia e Regno Unito, chiediamo al governo di Israele di ottemperare ai propri obblighi ai sensi del diritto internazionale e a proteggere la popolazione palestinese dei territori occupati», prosegue la nota sottoscritta da Tajani. «La condanna della violenza espressa dal Presidente Herzog, dal Primo Ministro Netanyahu e da altre figure politiche e militari di alto livello deve tradursi in azione. Esortiamo quindi il governo di Israele a perseguire i responsabili di questi crimini e a prevenire ulteriori episodi di violenza affrontando le cause profonde di questo fenomeno», hanno proseguito. «Accogliamo con favore la chiara opposizione del Presidente Trump all’annessione e ribadiamo la nostra contrarietà a qualsiasi forma di annessione – parziale, totale o de facto – e alle politiche di insediamento che violano il diritto internazionale», infine «ribadiamo che non esiste alternativa a una soluzione negoziata a due Stati», conclude la nota.
«La sinistra filo-islamista è una quinta colonna contro l’Occidente. Così l’Europa è finita»
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di Francesco Subiaco
«La sinistra filo-islamista è una quinta colonna contro l’Occidente. Così l’Europa è finita»
Il filosofo francese denuncia il nuovo antisemitismo woke e fa una previsione: «La cultura giudaico-cristiana scomparirà»
«La Francia e l’Europa sono finite. La demografia parla; è solo una questione di tempo» dice Michel Onfray tra i più autorevoli e apocalittici filosofi francesi. Pensatore post-nietzschiano figlio della lezione di Albert Camus e della sinistra libertaria, nei suoi scritti Onfray ha denunciato il nuovo antisemitismo woke, il personalismo macroniano, le derive nichiliste di un occidente che rinuncia alla propria storia. Come valuta la cosiddetta crisi della Quinta Repubblica francese? «Non bisogna parlare di crisi della Repubblica, ma della deriva personalista ed autoreferenziale del Capo dello Stato. Quando Emmanuel Macron perde un’elezione, afferma, infatti, di averla vinta e si comporta come se l’avesse vinta. Lo scioglimento dell’Assemblea Nazionale ha prodotto un podio chiaro: un partito che ha vinto, il Rn con più di 10 milioni di voti. Un secondo, il Nuovo Fronte Popolare, con poco più di 7 milioni di voti. Un terzo, il cosiddetto blocco centrale, che in realtà è marginale. È in questo blocco minoritario che il Presidente ha scelto i suoi tre Primi ministri in meno di un anno: Barnier (2 milioni di voti), François Bayrou (meno del 5% al primo turno…). Si è trattata di una scelta illiberale e autocratica. Se esiste una crisi, quindi, non è quella delle istituzioni né della Quinta Repubblica, ma una crisi morale: quella del Capo dello Stato che interpreta a suo vantaggio le regole della Repubblica. Lecornu è un terzo esponente minoritario che applica una parte della politica del Partito Socialista, che alle ultime presidenziali ha raccolto l’1,7% dei voti. È il macronismo che sta soffocando le istituzioni della Quinta Repubblica come un serpente costrittore. Non il contrario». Che cosa pensa dell’attuale centrismo macroniano? «Il macronismo è, in realtà, solo il nome mocando mentaneo a s s u n t o di tutto dall’ideologia maastrimembri chtiana che ti» ha avuto prima per leader Mitterrand, Chirac, Sarkozy, Hollande e dunque Macron. Ma non finirà con lui. Il nuovo candidato del sistema maastrichtiano si chiama Raphaël Glucksmann: il servizio pubblico francese lavora per lui. Tutto sarà fatto – e lo dico chiaramente: tutto – affinché Marine Le Pen non sia eletta, né lei né chiunque appartenga al suo partito. Perfino Mélenchon, il candidato della islamo-sinistra che lavora solo per sé stesso e possiede un ego smisurato, potrebbe servire al sistema. Condivide infatti con il padronato e i maastrichtiani l’ideologia di un mondo senza frontiere e creolizzato». Ne «L’autre collaboration» descrive il ruolo che gli intellettuali di sinistra hanno avuto nello sviluppo di un clima antisemita nella storia. «Esattamente. Hanno ripreso la fiaccola dell’antisemitismo, accusando paradossalmente i loro avversari di antisemitismo fascista o nazista mentre creavano una nuova fase dell’antisemitismo: quella dell’antisionismo, che cristallizza un odio bellicoso che assimila Occidente, bianchi, Stati Uniti, capitalismo, denaro, civiltà. Così la Palestina, un concetto costruito ideologicamente durante la Guerra fredda dall’Urss per combattere gli Stati Uniti in Medio Oriente, viene utilizzata come strumento che permette ai nostalgici del comunismo sovietico di proseguire la loro lotta sotto le bandiere del palestinismo. Non a caso Putin ha chiaramente preso posizione a favore di Hamas e non ha condannato in modo netto il pogrom del 7 ottobre». E i giovani? «La gioventù è logorata da anni di lavaggio del cer
vello nelle scuole, nei licei, nelle università, nella maggior parte dei media, e così manifesta per le strade con bandiere palestinesi accanto a vecchi comunisti, vecchi stalinisti, vecchi maoisti, vecchi trotskysti, vecchi uomini di sinistra convertiti ai meriti della causa LGBTQ+, che celebra l’utero in affitto e il “commercio di bambini”». Una saldatura tra cultura woke e islamismo politico… «Sì. È proprio ciò che sta accadendo. Una convergenza delle loro lotte alimenta una quinta colonna che sarà disponibile il giorno in cui il Paese crollerà sotto i colpi sferrati dai narcotrafficanti, dagli estremisti, dagli islamisti, il tutto sostenuto da una gioventù indottrinata. È il progetto rivoluzionario di Bakunin, che voleva una rivoluzione guidata dal sotto-proletariato tanto detestato da Marx. Un’ipotetica elezione di Marine Le Pen potrebbe generare, in modo reattivo, questo passaggio all’atto rivoluzionario. Mélenchon conta su questo…». Pensa che la classe intellettuale woke e la sinistra politica rifiutino le radici dell’Occidente, in particolare il suo patrimonio giudaico-cristiano? «Certamente. Sto leggendo un libro – di cui non darò né il titolo, né il sottotitolo, né il nome dell’autrice che si presenta come storica la cui tesi è che la cultura giudaico-cristiana sia un’impostura. Ciò è paragonabile a coloro che sostengono che la Terra sia piatta. Io, per parte mia, sto scrivendo una summa, il cui primo volume è appena uscito con il titolo “Déambulation dans les ruines”, per mostrare cosa sia questa civiltà, cosa la definisca, come si costituisca, come abbia brillato in tutto il pianeta. E come purtroppo si stia anche sgretolando e come scomparirà. Ho previsto diversi volumi, almeno quattro, per dimostrare che il giudeo-cristianesimo, ben lungi dall’essere un’impostura, è semplicemente il nome di una civiltà che, in senso hegeliano, ha rivelato al mondo la sua verità».
Arriva il tandem ProPal Albanese e Thunberg. Le paladine dello sciopero che paralizza l’Italia
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di Francesca Musacchio
Arriva il tandem ProPal Albanese e Thunberg. Le paladine dello sciopero che paralizza l’Italia
Le paladine dello sciopero che paralizza l’Italia. In piazza contro Manovra, guerra, riarmo e pro-Palestina. Oggi manifestazioni da nord a sud, domani corteo a Roma. Protestano sindacati e antagonisti. Centinaia di agenti ••• La due giorni di piazza che si apre oggi ha due volti simbolici: Francesca Albanese e Greta Thunberg, le “star” annunciate dello sciopero generale e della manifestazione nazionale per la Palestina di domani. L’arrivo della relatrice Onu sui Territori occupati e dell’attivista climatica più nota al mondo, oggi a Genova e domani a Roma, ha già acceso il clima, insieme al sostegno del fondatore dei Pink Floyd Roger Waters che ha inviato un video ai portuali del capoluogo ligure. Un segnale del peso politico e mediatico che accompagna una mobilitazione “a rischio elevato”, soprattutto dopo il precedente di Bologna. Due giorni durante i quali sigle sindacali, movimenti antagonisti e studenti puntano ad una protesta di massa contro la manovra, la guerra, il riarmo e a favore della Palestina. Lo sciopero generale indetto da Cobas e sostenuto dall’Usb mette oggi in piazza decine di appuntamenti in tutta Italia. A Roma il presidio principale è fissato alle 11 a Montecitorio, dove Usb sarà davanti alla Camera dei Deputati per presentare la «manovra dal basso». Alle 9.30, invece, da Piazza dell’Indipendenza partirà un corteo che arriverà fino a Piazza Barberini. Domani, invece, la capitale ospiterà il manifestazione nazionale per la Palestina, con partenza alle 14 da Porta San Paolo e arrivo a San Giovanni. È previsto l’arrivo di decine di pullman e la Questura ha predisposto un dispositivo di sicurezza che vedrà impegnati centinaia di uomini delle Forze di polizia per tutto il fine settimana, che si concluderà con la partita di calcio Roma-Napoli prevista per domenica. La protesta di oggi è contro quella che gli organizzatori definiscono «la finanziaria di guerra del Governo Meloni». La partecipazione di figure “globali”, però, ha già generato tensioni. A Roma, davanti alla stazione Termini, è comparso un murale dell’artista aleXsandro Palombo dove Thunberg e Albanese sono ritratte in uniforme color kaki, kefiah al collo e casco Onu (per la Albanese), abbracciate alle spalle dalla sagoma di un miliziano di Hamas. L’opera, intitolata «Human Shields», che richiama la pratica di Hamas di utilizzare civili come scudi umani, rilancia il dibattito sul ruolo dell’attivismo occidentale nei conflitti e il rischio di strumentalizzazione. La giornata di oggi sarà caratterizzata da piazze attive che coprono l’intero Paese, ma domani l’epicentro sarà Roma dove il dispositivo di sicurezza messo in campo dalla Questura, prevede centinaia di agenti, unità mobili nei punti chiave, percorsi separati per evitare incroci con ambasciate e obiettivi sensibili. L’obiettivo è evitare che ‘frange minute’ legate a centri sociali, anarchici e movimenti antagonisti in generale, inquinino il diritto a manifestare. Al corteo nazionale pro Palestina, oltre a Thunberg e Albanese, parteciperanno attivisti della Global Sumud Flotilla, Greenpeace, associazioni della campagna Stop Rearm Europe e realtà palestinesi. Prima del corteo è previsto un evento all’Università Roma Tre con esponenti internazionali del movimento per Ga2a. Tutti i percorsi confluiranno nel concentramento di Porta San Paolo, con partenza alle 14. Il precedente di Bologna, dove nei giorni scorsi durante gli scontri in occasione della partita di Basket Virtus–Maccabi Tel Aviv un gruppo di manifestanti ha lanciato bombe carta con chiodi all’interno, aumenta il rischio di presenza di gruppi pronti a mettere in campo ‘azioni estemporanee’, magari con le stesse modalità. Per questo i controlli riguarderanno non solo gli accessi al corteo, ma anche stazioni, snodi della mobilità e aree esposte. L’attenzione sarà massima sui tratti sensibili del percorso verso San Giovanni e sugli incroci con sedi istituzionali e diplomatiche.
«In Palestina da piccola vedevo ulivi poi solo muri, check point e soldati»
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di Silvia Neonato
«In Palestina da piccola vedevo ulivi poi solo muri, check point e soldati»
La scrittrice domenica a Camogli: «La soluzione dei due Stati? Impossibile se non finirà il sionismo» Alae Al Said L’INTERVISTA Silvia Neonato A lae Al Said ha genitori palestinesi ma è nata in Italia, dove il padre era venuto a studiare medicina. È laureata in Scienze internazionali, vive a Seveso, collabora con L’Espresso, è sposata con un farmacista siriano e cresce i suoi tre figli, di cui l’ultima ha pochi mesi. È molto legata al suo Paese, ne ha già indagato la storia nel suo primo libro, “Sabun” (2019). Ora torna in libreria con un romanzo avvincente, “Il ragazzo con la kefiah arancione” (Ponte alle Grazie), in cui racconta l’amicizia tra due giovani, Loai e Ahmad, che inizia nel 1961 e attraversa la guerra del 1967 quando Israele, dopo le minacce del leader egiziano Nasser, attacca Palestina, Egitto, Giordania e Siria, infliggendo in sei giorni una dolorosa sconfitta alle popolazioni arabe. Per i due ragazzi è la fine della speranza di poter vivere in un Paese libero, è fare i conti con la morte e la distruzione, con l’emigrazione forzata verso altre terre, come era già accaduto nel 1948. Ma il libro continua fino al 1994 e ha non un solo finale, ma due finali veramente sorprendenti che ci aiutano a comprendere la capacità di resistenza di un popolo che nessuno ha piegato. Leggendo il suo romanzo si avverte una relazione molto forte con la sua gente, le tradizioni, i paesaggi della Cisgiordania da cui la sua famiglia proviene. Va spesso in Palestina? «Abbastanza, l’ultima volta ci sono stata nel 2023. I nostri genitori a noi figli non raccontavano molto delle violenze a cui erano sottoposti i palestinesi, credo per non turbarci troppo. Ma la loro nostalgia era grande, spesso tornava il ricordo del sapore dell’olio di Tulkarem, la cittadina di mia madre o degli amici di Nablus e siamo sempre andati in Cisgiordania dai nostri parenti. Io mi sono resa conto della violenza quando ho visto uccidere, tra le braccia di suo papà, Mohammed al Durra, il 30 settembre 2000, durante la Seconda Intifada nella Striscia di Ga2a. Era un ragazzino come me e il filmato, che poi ha fatto il giro del mondo, è passato in tv su al jazeera. Ho chiesto a mio padre perché gli israeliani sparavano su due persone disarmate dietro a un muretto. Da bambina, quando scendevo in Palestina vedevo solo gli ulivi, la casa dei miei nonni, i parenti. Da allora in poi sono cresciuta e ho notato i muri, i check point, i soldati israeliani». Vorrebbe vivere in Cisgiordania? «In Italia sto bene, mi sento libera, i miei figli crescono sereni, è difficile risponderle. A parte la situazione militare, temo anche di trovare condizioni culturali molto diverse da quelle in cui sono cresciuta. Però una delle mie sorelle è tornata a vivere a Al Khalil (diventata Hebron con l’occupazione) e dice che non si trova male. Certo è circondata da un muro, si sente in prigione e uno dei suoi figli è voluto tornare in Italia e studia qui. Diciamo che non è una cosa che escludo a priori». Il romanzo si svolge appunto ad Al Khalil, che lei dunque conosce bene. La famiglia di Loai è benestante, sua madre Randa, di nascosto dal marito, confeziona abiti tradizionali palestinesi, ma non può venderli perché lavorare fuori casa non le è concesso. «Randa vive negli anni Sessanta, oggi molte cose sono cambiate, scuole e università sono piene di studentesse. Infatti nel mio romanzo, Halima, la nuora di Randa, è docente di matematica e non vuole rinunciare al proprio lavoro dopo le nozze. In ogni caso bisogna ricordare che i palestinesi vivono in un contesto coloniale e quindi anche l’ambiente domestico diventa politico. Intendo dire che per una donna fare figli è una ribellione alla politica di sterminio degli israeliani». In entrambi i suoi libri il conflitto tra voi e gli israeliani è sempre presente. «Impossibile prescinderne, soprattutto dal 1967 in poi. Mio cugino è stato imprigionato, gli hanno rotto le ginocchia e ne parlava con noi durante il pranzo in famiglia: la violenza, i muri, le leggi diverse riservate ai palestinesi, l’apartheid fanno parte della vita quotidiana». È ancora possibile l’idea dei due Stati? «No. Sarebbe la Palestina uno stato sovrano? Potrebbe avere il suo esercito, uno spazio aereo, la proprietà delle risorse? Il piano dei due Stati è stato ideato in un momento pacifico e comunque non prevedeva tutto questo. Ai palestinesi prima bisogna ridare libertà e giustizia, poi si potrà parlare di pace. Il sionismo prevede invece che qualcuno si senta superiore a un altro. Non è tollerabile. Lo Stato di Israele non può continuare a occupare grande parte della Palestina, non intendo dire che gli israeliani vanno deportati, ma allo stesso modo in cui in Sudafrica l’apartheid è finito, in Palestina deve finire il sionismo. Per secoli, prima del sionismo, ebrei, musulmani e cristiani hanno convissuto in pace».
Deputati Pd bloccati in Cisgiordania La Farnesina: «Ora sono al sicuro»
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di Redazione
Deputati Pd bloccati in Cisgiordania La Farnesina: «Ora sono al sicuro»
Van della delegazione con Orlando, Boldrini e Berruto coinvolto in un blitz antiterrorismo Deputati Pd bloccati in Cisgiordania La Farnesina: «Ora sono al sicuro» Una delegazione di sei parlamentari del Partito democratico è rimasta bloccata per alcune ore in Cisgiordania, mentre rientrava a Gerusalemme da Gerico, a causa di un blocco stradale effettuato dalle forze di sicurezza israeliane durante un’operazione antiterrorismo. Lo riferisce la Farnesina in una nota. Si tratta degli onorevoli Laura Boldrini, ex presidente della Camera dei deputati, Mauro Berruto, Ouidad Bakkali, Sara Ferrari, Valentina Ghio e Andrea Orlando, ex ministro. La delegazione ha udito delle esplosioni e ha abbandonato il van su cui viaggiava per riparare in una casa di un cittadino palestinese. Sono stati momenti molto concitati. Su richiesta del ministro degli Esteri, Antonio Tajani, l’ambasciata d’Italia ha allertato il servizio di sicurezza israeliano Shin Bet e il comando militare Cogat per la messa in sicurezza della delegazione. I parlamentari sono quindi stati recuperati con due automobili blindate dal console generale a Gerusalemme con la sua scorta e un ufficiale israeliano del Cogat. Dopo qualche ora dall’inizio della disavventura, la delegazione è riuscita a far rientro nel suo albergo di Gerusalemme e stamattina dovrebbe ripartire per l’Italia dall’aeroporto di Tel Aviv. A precisarlo è la stessa nota della Farnesina. La delegazione è guidata da Boldrini che ieri ha incontrato a Ramallah il premier palestinese Mohammad Mustafa. Secondo l’agenzia di stampa palestinese Wafa, il premier dell’Anp ha illustrato ai parlamentari Pd gli sforzi in corso per consolidare il cessate il fuoco nell’enclave palestinese. Mustafa ha sottolineato che «Ga2a e Cisgiordania, Gerusalemme compresa, ricadono sotto la giurisdizione dello Stato di Palestina, con un’unica autorità, un unico governo, una sola legge e una sola forza armata».
lntervista – Il vescovo Bizzeti «Prevost non tacerà Alzerà la voce per Gaza e il Libano»
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di Giovanni Panettieri
lntervista – Il vescovo Bizzeti «Prevost non tacerà Alzerà la voce per Gaza e il Libano»
Nove anni in Anatolia. D’accordo le celebrazioni per i 1700 dal Concilio di Nicea, l’impegno ecumenico e a favore del dialogo interreligioso, ma la trasferta del Papa in Turchia e Libano «ha riflessi anche politici» ed è occasione «per denunciare il dramma di Gaza e l’invasione arbitraria del Libano da parte di Israele». Ancor più nella consapevolezza del «ruolo diplomatico assunto da Ankara con cui la Santa Sede ha una sostanziale consonanza di vedute sul Medio Oriente», spiega il vescovo Paolo Bizzeti, dal 2015 al 2024 vicario apostolico in Anatolia. Prevost rilancerà il piano Trump per Ga2a? «La posizione del Papa sulla Palestina, a favore della soluzione a due Stati, è chiara già da prima della piattaforma Usa». La Turchia è una sponda credibile? «C’è l’impegno comune per far sì che il cessate il fuoco permanga e si favorisca una soluzione pacifica sotto l’egida dell’Onu, nel rispetto della legge internazionale. Quindi non la legge del più forte». Ricordare Nicea significa fare memoria di una cristianità unita. Come sanare lo scisma degli ortodossi che contestano la potestà universale del Papa? «Serve un’unità non nell’uniformità, ma nella diversità. E il primato del vescovo di Roma nella carità è qualcosa di cui si discuteva già nei primi secoli della Chiesa». Nicea affermò la natura divina e umana di Gesù, oggi c’è confusione? «Sì, non si può scindere Gesù storico da Cristo».
La figlia di un fondatore di Hamas diventa cristiana
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di Dario Mazzocchi
La figlia di un fondatore di Hamas diventa cristiana
LA CONVERSIONE COMINCIATA CON UNA FRASE LETTA SU UN SITO WEB: «AMA I TUOI NEMICI» La figlia di un fondatore di Hamas diventa cristiana Nata e cresciuta in Qatar, Juman al-Qawasmi è pure ex moglie di un leader del gruppo terroristico: «Ora sono libera» ¦ Educata all’odio verso ebrei e cristiani, da eliminare perché così le era stato insegnato dalla famiglia di origine, il clan Qawasmi che, nel mondo palestinese, è legato a doppio filo con Hamas. Poi la conversione alla fede cristiana e il suo racconto sono ora una forte e drammatica testimonianza di ciò che rappresenta l’organizzazione terroristica con base nella Striscia di Gaza. Juman Al Qawasmi è una giovane donna palestinese, figlia di Muhammed, uno dei fondatori di Hamas, per tredici anni, dal 2002 al 2015, moglie di Muhammad Kawasmi, noto anche come Abu Jaffar, uno dei leader del movimento politico estremista. È cresciuta in Qatar – luogo di rifugio per molti dei capi di Hamas – e gli insegnamenti ricevuti fin da piccola erano chiari: «Eravamo soliti maledire tutti i cristiani e gli ebrei», racconta ora a CBN News, una delle principali emittenti televisive cristiane. «Pensavamo di doverli uccidere perché questo è ciò che dice il Corano. Sì, lo so, è folle, ma noi credevamo nell’islam in quel modo: che avremmo dovuto uccidere tutti gli ebrei e che persino Gesù sarebbe tornato a combattere con noi, avrebbe spezzato la croce e ucciso il maiale, e che gli alberi e le rocce avrebbero chiamato i musulmani dicendo: “Oh musulmano, c’è un ebreo dietro di me, vieni e uccidilo”. Quindi è una follia». Nel 2002 raggiunge Ga2a, dove rimane per dieci anni, mentre Hamas consolida il suo potere rendendosi colpevole di violenze nei confronti degli stessi palestinesi che non aderivano al movimento: «Dicevano di voler portare uguaglianza e giustizia: nulla di ciò che promettevano si è avverato. Nel 2006 ho persino votato per loro e oggi me ne vergogno». Non le è permesso avanzare domande e richieste sull’islam: ciò che le veniva detto andava seguito alla lettera, finché nel 2014 qualcosa cambia. In fuga con la famiglia dopo che l’esercito israeliano aveva messo in guardia la popolazione ga2awa per un imminente bombardamento, invoca Dio: «Se esisti, voglio conoscerti. Salvami». Poi un sogno rivelatore, in cui Juman si ritrova con la madre, morta anni prima, sotto un cielo luminoso: la luna si avvicinò ed ecco apparire il volto di Gesù. «Mi parlò in arabo, dicendo che Lui era Yeshua: “Tu sei mia figlia, non temere”», prosegue nel suo racconto a CBN News. Un’emozione travolgente: «Non avevo mai conosciuto cristiani e non avevo mai sentito il nome Yeshua. Ma mi suonava così bello e, per la prima volta nella mia vita, ho sentito pace. Mi sono sentita amata, davvero amata». Una curiosità che si trasforma presto in ricerca, reperendo informazioni sulla figura di Gesù da un sito di cristiani copti egiziani: «Il primo versetto che ho letto diceva: “Amate i vostri nemici”. Rimasi scioccata: nel Corano si parla di uccidere i propri nemici, non di amarli. Ho capito che questo Dio era diverso». Diversa da allora è la sua vita: rompe i rapporti con la famiglia, inizia a guardare agli infedeli con occhi diversi, a dialogare con loro e, passo dopo passo, diventa lei stessa cristiana. L’intervista è anche un atto d’accusa senza compromessi verso Hamas, che sfrutta i fondi destinati a Gaza per costruire tunnel sotterranei invece che i rifugi destinati ai civili, con i bambini spesso usati come scudi umani: «Hamas non difende Gaza, Hamas è il nemico di Gaza», sottolinea Juman. «Insegna ai bambini a odiare, a combattere, riempie le loro teste di violenza. Ma la verità non può nascere dall’odio». E lei lo sa molto bene.
La maschera gridò «Palestina libera» No al licenziamento
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di Redazione
La maschera gridò «Palestina libera» No al licenziamento
PER LA SCALA DI MILANO Era illegittimo il licenziamento della maschera del Teatro alla Scala a cui era stato stracciato il contratto per aver urlato «Palestina libera» all’ingresso in sala della presidente del Consiglio Giorgia Meloni lo scorso 4 maggio. Lo ha deciso il tribunale del Lavoro, che ha definito l’allontanamento della dipendente «un licenziamento politico». Il Teatro dovrà risarcire la ex dipendente pagando tutte le mensilità a lei dovute dallo scorso maggio fino alla scadenza naturale del contratto a termine e rimborsarle anche le spese di lite. A comunicare l’esito positivo della causa il sindacato Cub, che aveva denunciato i vertici dello storico teatro milanese. Secondo la Scala, la dipendente aveva tradito la fiducia dei datori di lavoro disobbedendo a chiari ordini di servizio durante il concerto a inviti organizzato dall’Asian development Bank, nel cui board siede il ministro delle finanze israeliano Bezalel Smotrich
Incarico gratis è intrecci con Israele
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di Redazione
Incarico gratis è intrecci con Israele
Le norme italiane obbligano Matteo Renzi a non accettare compensi per sedere nel cda di Enlivex Therapeutics, società israeliana di terapie biotech che si è convertita in cripto. Il Fatto ha svelato la nuova carica dell’ex presidente del Consiglio il 25 novembre e che nella società delle criptovalute Rain Treasury, acquisita da Enlivex, compare come senior strategy advisor Ofer Malka, imprenditore israeliano già dirigente del ministero dei Trasporti di Tel Aviv, il cui nome compare 104 volte in un’informativa che la Guardia di Finanza inviò al Parlamento nel 2022, quando il Copasir voleva capire se gli incarichi privati di Matteo Renzi avessero rilevanza per la sicurezza nazionale. Malka era socio di Marco Carrai, amico di Renzi, nella società di cybersicurezza Cys4
Hezbollah sfrutta la quiete per riorganizzarsi. Il prossimo bersaglio dell’Idf sarà Qassem?
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di Paolo Crucianelli
Hezbollah sfrutta la quiete per riorganizzarsi. Il prossimo bersaglio dell’Idf sarà Qassem?
C hi immagina Hezbollah pronto a sventolare bandiera bianca dopo l’eliminazione del suo capo di stato maggiore, Haytham Ali Tabatabai, non conosce davvero l’organizzazione. Il desiderio di vendetta c’è, eccome. Ma il bisogno di quiete – un elemento strategico centrale, quasi dottrinale – è oggi più forte. Ed è esattamente questo bisogno a guidare le sue scelte, molto più della retorica incendiaria che arriva dai suoi portavoce. Ufficialmente, la guerra in Libano è finita da un anno. In pratica, non si è fermata nemmeno per un giorno. Non solo perché l’Idf mantiene ancora il controllo di cinque “tasche” di territorio, ma perché l’attività militare israeliana nel sud del Libano è stata pressoché quotidiana. Il cessate il fuoco è diventato un congelamento, non una soluzione: un dopoguerra solo sulla carta, mentre sul terreno la guerra continua con forme diverse. Hezbollah non ha mai agito “di pancia”. Possiede una cultura strategica che unisce pragmatismo militare, ideologia religiosa e soprattutto una concezione quasi fatalista del tempo. Esiste un proverbio arabo che sintetizza bene questa filosofia: “La pazienza è la chiave della vittoria”. È un approccio simile alla strategia cinese del logoramento lento. Una hudna – una tregua temporanea – non è resa, ma un modo per rimandare la battaglia vera a un momento più favorevole. Hezbollah lo ha sempre fatto: accetta compromessi, anche dolorosi, quando servono a preparare il terreno a uno scontro più grande. È la ragione per cui l’organizzazione ha assorbito, senza reagire, l’eliminazione di centinaia di quadri e comandanti, la distruzione delle sue linee di comando, la perdita dell’intera leadership militare e politica, incluso il leader supremo Hassan Nasrallah. E anche l’eliminazione del suo “capo di stato maggiore” ad interim di qualche giorno fa è stata, per ora, incassata senza ritorsioni. La volontà di colpire Israele esiste, ma la necessità di tempo per ricostruirsi è più forte. A guidare questa linea prudente è Naim Qassem, l’attuale segretario generale sostenuto direttamente dall’Iran. Figura considerata “grigia” e poco carismatica, negli ultimi mesi si è rivelato sorprendentemente efficace nel tenere insieme un’organizzazione decimata ma non schiacciata.Qassem opera tra Beirut e Teheran, coordinando la priorità numero uno del movimento: ricostruire le sue capacità belliche. Ed è qui che entra in scena Israele. Gerusalemme non ha intenzione di consentire alcuna ricostruzione. La nuova dottrina è chiara: Hezbollah deve essere reso incapace di reagire. Ed è una dottrina applicata con coerenza matematica. Negli ultimi 12 mesi, dall’inizio della tregua, secondo i dati militari, sono stati condotti 669 raid aerei in territorio libanese, 350 eliminazioni mirate, ed Hezbollah ha dovuto spostare la propria infrastruttura dal cuore storico del sud (unità Nizar e Aziz) più a nord, nell’area dell’unità Badr. Uno dei due fattori che oggi permettono a Israele di mantenere questa pressione altissima è il sostegno politico e operativo degli Stati Uniti. Non solo nel campo diplomatico, ma anche in quello operativo: la recentissima eliminazione di Tabatabai è stata coordinata con Washington. Il secondo fattore – e l’incognita più grande – riguarda l’esercito libanese (LAF). Teoricamente, secondo la Risoluzione Onu 1701, dovrebbe disarmare Hezbollah, controllare il sud del Paese e impedire qualsiasi presenza militare non statale vicino al confine. Ma il Libano resta uno Stato debole, infiltrato politicamente e militarmente da Hezbollah. Nonostante i notevoli sforzi messi in atto dal governo, i suoi apparati di sicurezza sono ostacolati da divisioni settarie, e una parte rilevante della catena di comando è sotto l’influenza diretta o indiretta del movimento sciita. Eppure, nella società libanese – soprattutto tra i cristiani, i sunniti, i drusi, e gli sciiti non ideologizzati e legati ai centri urbani – cresce la volontà di liberarsi dall’ingombro soffocante della “milizia-Stato”. Un desiderio reale, ma molto difficile da tradurre in pratica. La logica della dottrina israeliana rende un’ipotesi quasi inevitabile: il prossimo bersaglio sarà Naim Qassem, il vero cervello operativo del movimento oggi. È l’ultimo leader rimasto con autorità politica e religiosa. E anche se si nasconde negli angoli più protetti del sud di Beirut, la storia recente insegna che nessun rifugio è davvero sicuro. Finché il Libano non sarà in grado di esercitare davvero la propria sovranità, resterà schiacciato tra l’incudine e il martello. E finché Hezbollah consumerà il proprio tempo nella logica della hudna, la guerra non sarà mai davvero finita.
Senza scudi umani, Hamas continua a perdere pezzi
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di Iuri Maria Prado
Senza scudi umani, Hamas continua a perdere pezzi
I video e le immagini dei miliziani palestinesi che escono dai tunnel per essere eliminati o catturati dalle forze di difesa israeliane raccontano la guerra di Ga2a meglio di ogni verbosa descrizione. Intrappolati oltre la “linea gialla” – cioè l’orlo orientale della Striscia, presidiato dall’esercito dello Stato ebraico – quei terroristi senza più cibo né acqua, abbandonati dalle dirigenze in rotta, non possono più contare sulla vera protezione di cui hanno usufruito per due anni. Che non era quella rete di tane sotterranee, ma il sovrastante formicaio di civili adoperato da quei macellai come rinnovabile materiale da guarnigione. Per i dieci, i trenta, i cinquanta civili uccisi in una operazione che l’esercito conduceva contro i combattenti di Hamas, questi ne avevano dieci, trenta, cinquanta volte tanti da usare come altri sacchi di sabbia. L’uso dei civili come arma di guerra ha rappresentato il crimine più plateale e più impunito durante il conflitto di Ga2a. Nella propaganda proHamas in cui per due anni si sono esercitati i mezzi di informazione occidentali quella pratica era minimizzata, quando andava bene, e più spesso semplicemente negata. Ma anche per quelli che invece la riconoscevano essa restava una specie di ininfluente dettaglio, un elemento tra i tanti in quella guerra con troppe cose da tenere in considerazione, con troppi errori, con troppi orrori. Non era un dettaglio. L’uso dei civili era la scommessa sanguinaria e l’agognata polizza assicurativa degli ideatori del 7 ottobre: indurre Israele a reagire ponendo come condizione, e come giro di boa della vittoria, la distruzione di Ga2a. Con i civili funzionalmente adibiti a massa passiva dell’esperimento. I tunnel da cui, impolverati e con le labbra seccate dalla sete, fuoriescono ora quei miliziani rappresentavano una specie di terza parte – e non la più efficace – di un dispositivo di guerra ben altrimenti organizzato e ben più potente: quello dell’esercito di civili messo insieme da Hamas per proteggersi. Ga2a trasformata in una specie di cyborg, con quelle budella di cemento e condutture ricavate in una scocca ricoperta di inesauribile materia vivente, appunto i civili di Ga2a adoperati da quei macellai come un confortevole mantello. Alcuni di loro, estratti da quei buchi, dichiarano che Hamas li ha abbandonati lasciandoli senza più nulla da mangiare e da bere. Ma è la mancanza di un’altra risorsa primaria ciò che li ha portati alla morte o alla cattura: non avevano più quella coltre di carne innocente a proteggerli.
Intervista – Il Generale dell’Idf: «Raid mirati in Libano, fuori Hezbollah»
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di Aldo Torchiaro
Intervista – Il Generale dell’Idf: «Raid mirati in Libano, fuori Hezbollah»
L’ufficiale senior dell’esercito israeliano è di casa, sul confine libanese. Ci chiede di mantenere l’anonimato: Hezbollah ha messo una taglia, sulla sua testa. Dai suoi ordini sono dipese molte tra le operazioni di maggior successo effettuate da Israele in Libano. Ci dice che cosa ci attende, in questo tratto incantevole e al contempo complicatissimo del Medio Oriente. Partiamo dalla storia di questo confine, per contestualizzare meglio la situazione attuale? «Dal Libano ci sono state continue infiltrazioni di terroristi. Nel 1982, i palestinesi tentarono di uccidere il nostro ambasciatore nel Regno Unito, scatenando quella che chiamiamo la Prima Guerra del Libano. Nel luglio del 1982, ero un soldato nel mezzo del mio corso da ufficiale, e siamo entrati in Libano. Dovevamo fermarci a 40 km dal confine, ma alla fine siamo arrivati fino alla strada che collega Beirut e Damasco, l’abbiamo tagliata e occupato Beirut. Abbiamo costretto i palestinesi, che stavano qui con Yasser Arafat, ad andarsene». Come è evoluto il conflitto con Hezbollah? «Hezbollah è nato come un piccolo gruppo terrorista, ma nel tempo è diventato sempre più grande e forte, combattendo contro di noi con attacchi, bombe e azioni guerrigliere. Fino al 2000, quando il nostro primo ministro Ehud Barak ha deciso che era abbastanza, e Israele si è ritirato, tornando alla Linea Blu. Tuttavia, Hezbollah non aveva come obiettivo la pace, ma continuò a combattere. Nel 2006, Hezbollah ha preso due veicoli con una pattuglia di sei soldati israeliani, uccidendone alcuni e sequestrando altri. Questo ha portato alla Seconda Guerra del Libano, che è durata circa un mese e mezzo, principalmente combattendo dal cielo e con l’artiglieria. Alla fine, siamo avanzati di 5-10 km per ripulire l’area da Hezbollah». E a quel punto sono intervenute le Nazioni Unite… «Dopo la Seconda Guerra del Libano, l’Onu ha adottato la risoluzione 1701, che prevedeva il dispiegamento di 15-20 battaglioni di forze internazionali per impedire a Hezbollah di avvicinarsi al confine. Ma purtroppo, non ha funzionato. Hezbollah è entrato sempre di più nel sud del Libano, prima con i civili, poi con i soldati e le loro posizioni, fino a raggiungere il nostro confine». Cosa ha portato al conflitto del 2023? «Un anno prima, il nuovo comandante del Comando Nord ci aveva detto che, durante il suo mandato, avremmo affrontato una guerra contro Hezbollah. Non era una questione di se, ma di quando. Così, ci siamo preparati per la guerra che sapevamo sarebbe arrivata. Hezbollah aveva creato una forza speciale chiamata Radwan, ben equipaggiata e addestrata, con l’intento di invadere Israele al momento opportuno. Avevamo informazioni precise sui loro piani e ci siamo preparati per rispondere». Qual è stata la risposta israeliana quando la guerra è iniziata? «Quando la guerra è iniziata, siamo stati pronti. Abbiamo rapidamente mobilitato circa 60.000 soldati lungo il confine, impedendo a Hezbollah di sorprenderci. Nonostante l’intelligence fosse pronta, l’attacco di Hamas il 7 ottobre ha sorpreso tutti, ma ci ha anche dato l’opportunità di reagire rapidamente». Cosa è successo durante il conflitto e come sono stati affrontati i danni collaterali? «Durante la guerra, abbiamo cercato di minimizzare i danni collaterali. Abbiamo usato armi di precisione per colpire solo Hezbollah, evitando danni civili. Abbiamo attuato un sistema che permetteva alle persone innocenti di evacuare tramite messaggi e avvisi, cercando di ridurre al minimo le vi tti me civi l i . No n os ta n te qualche errore, siamo riusciti a eliminare gran parte della leadership di Hezbollah, eliminando più di 250 figure chiave anche grazie alla brillante operazione dei cercapersone, ideata da una giovane e geniale donna della nostra intelligence». Che cosa significa la vittoria in questa guerra e quale sarà il futuro? «Se Hezbollah fosse rimosso dal Libano, saremmo pronti a fare la pace. Non vogliamo invadere o occupare il Libano, vogliamo solo che questa area diventi tranquilla. Il problema resta Hezbollah e la sua continua minaccia: la pace è possibile, se Hezbollah esce di scena». Cosa pensa della relazione con l’Iran? «L’Iran è una minaccia crescente. Hanno inventato Hezbollah e Hamas e continuano ad alimentare i loro proxy con un impressionante arsenale di missili. La nostra risposta è stata precisa, ma anche diretta: se Iran e Hezbollah continuano a minacciare Israele, siamo pronti a difenderci. Abbiamo dimostrato la nostra capacità di rispondere, come con l’attacco mirato alla leadership di Hezbollah e le operazioni contro gli iraniani». Vedo bombardamenti da qui, in questo momento. Come vede la situazione? «La situazione al confine è molto fragile. Hezbollah continua a minacciare, ma siamo preparati. Se riuscissimo a rimuoverli dal Libano, potremmo raggiungere un accordo di pace molto rapidamente. Tuttavia, la situazione rimane tesa, e il nostro impegno per la sicurezza di Israele non è mai stato così forte».
Tregua Israele-Hamas in stallo. Netanyahu non tratta più su Gaza
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di Davide Manlio Ruffolo
Tregua Israele-Hamas in stallo. Netanyahu non tratta più su Gaza
I negoziati al Cairo sulla seconda fase della tregua a Ga2a restano termi al palo. Fonti arabe coinvolte nelle discussioni, citate da Haaret?, parlano di un clima di sfiducia e di un’impasse che difficilmente si sblocchcrà senza una pressione diretta degli Stati Uniti su [sraele. Come appare evidente, ¡ð gioco non ci sono solo le distanze tra le delegazioni: secondo gli stessi mediatori, ne Israele ne Hamas sembrano pronti a portare a termine i passi necessari per blindare la tregua. Da un lato. Tei Aviv non appare incline ad accettare un ritiro più ampio delle proprie forze armate prima delle elezioni previste il prossimo anno; dall’ai ITO, Hamas non intende consegnare le armi senza garanzie chiare sul ritiro e sulla gestione del “giorno dopo” Proprio per questo i governi del Cairo, di Doha e di Ankara stanno moltiplicando incontri ñ tentativi di mediazione, ma lo stallo politico rallenta anche le già difficili operazioni umanitarie sul terreno. Le macerie vengono rimosse con lentezza e migliaia di dispersi restano sotto gli edifici crollati. mentre le piogge degli ultimi giorni hanno allagato numerosi accampamenti. Senza un accordo sui nodi centrali — governance. ritiro e disarmo — la seconda fase del cessate il resta un oriz’/onte lontanò. APERTURA INATTESA In questo quadro a dir poco desolante, emerge un segnale inatteso dal primo ministro di Israele, Benjamin Netanyahu. Secondo un’inchiesta di Channel 12, Tel Aviv avrebbe l’atto recapitare ad Hamas una proposta che permetterebbe l’uscita di decine di miliziani intrappolati nei tunnel a est della linea gialla. Difficile capire cosa preveda esattamente questa proposta anche se, stando a quanto riportano diversi media. Tè! Aviv starebbe offerendo la “libera’/ione” dei miliziani intrappolati in cambio della loro resa incondizionata, del loro trasferimento nelle carceri larga scala” nel nord della regione, in coordinamento con lo Shin Bet e la Guardia di frontiera per “colpire alcuni terroristi”. un blitz sontuoso che, secondo l’agenzia palestinese Wafa, ha portato all’arresto di oltre cento persone e al ferimento di 25 civili, in gran parte nella città di Tarnmoun. Davanti a questa ennesima operazione che di fatto viola il cessate il fuoco, la rispos ta dei gruppi armati non si e fatta attendere. Hamas e Jihad islamica, all’unisono, hanno condannato l’operazione, definendola rispettivamente “un’aggressione sistematica” e la prova della volontà israeliana di consolidare il controllo sulla Cisgiordania. Un nuovo capitolo di tensione m un contesto già fragile.
Esecuzioni, assedi e demolizioni. Amnesty: «Il genocidio è ancora in corso»
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di Chiara Cruciati
Esecuzioni, assedi e demolizioni. Amnesty: «Il genocidio è ancora in corso»
Due palestinesi escono da un garage con le mani alzate. I soldati li fanno inginocchiare a terra. Pochi istanti dopo aprono il fuoco. Muntaser Abdullah, 26 anni, e Yusuf Asa’sa, 37, sono stati giustiziati sul posto. È successo ieri a Jenin, catturato in un video girato da un’abitazione vicina. Tel Aviv fa sapere di aver aperto un’inchiesta; l’esperienza e la matematica dicono che quei militari hanno una probabilità di essere puniti pari a meno dell’1%. Una moschea data alle fiamme nel villaggio palestinese di Biddiya, città sotto assedio (Tulkarem, Tubas, Jenin), migliaia di sfollati e decine di arrestati, cento ulivi sradicati a Kafr Malik e raid aerei: la giornata di ieri in Cisgiordania è specchio fedele delle politiche ufficiali e ufficiose con cui (da due anni con maggiore intensità) Israele avanza metro per metro nel territorio occupato. Un mix di azioni affidate ai due bracci esecutivi, l’esercito e il movimento dei coloni, e che ieri il ministro della difesa Israel Katz diceva necessarie a impedire un’escalation in Cisgiordania. Lo stesso ministro che due giorni fa definiva gli attacchi dei coloni «disturbo dell’ordine pubblico», non atti di terrorismo quali sono. CON I PALESTINESI terrorizzati e abbandonati alle aggressioni feroci dei coloni, il governo non prende misure perché la simbiosi è ormai totale e la strategia unica. Lo si vede da 48 ore nel nord della Cisgiordania dove, con l’etichetta di «operazione anti-terrorismo», l’esercito ha posto sotto assedio le città di Tubas e Tulkarem per poi allargarsi ieri, di nuovo, a quella di Jenin. Le scuole sono chiuse, le serrande dei negozi abbassate, nessun movimento è autorizzato pena il pestaggio: ieri almeno dieci palestinesi sono stati ricoverati per le pesanti percosse subite a Tubas. Mentre i soldati occupano abitazioni anche nei villaggi circostanti e le tramutano in centri di interrogatorio e Tel Aviv ordina il dispiegamento di altre truppe, ad avanzare sono i bulldozer. Nel mirino edifici nei campi profughi di Jenin e Tulkarem, già svuotati mesi fa dai loro abitanti: «Un’opera di re-ingegneria della topografia dei campi rifugiati», l’ha chiamata ieri Roland Friedrich, direttore dell’Unrwa in Cisgiordania, mentre l’agenzia dell’Onu ricapitolava i numeri. Ventitré edifici demoliti a Jenin solo questa settimana, che seguono ai 200 ordini di demolizione eseguiti tra marzo e giugno di quest’anno. Nella città simbolo della resistenza armata, l’esercito ha sparato, ucciso un uomo e ferito gravemente due bambini di 14 anni, per poi impedire per ore alle ambulanze di soccorrerli. Ora sono ricoverati in ospedale, entrambi gambizzati. Ieri è giunta la reazione di Italia, Francia, Germania e Regno unito che, lontanissimi dall’assumere alcuna misura, hanno condannato «il massiccio incremento della violenza dei coloni» e chiesto «stabilità in Cisgiordania…Attività di destabilizzazione rischiano di minare il successo del piano in 20 punti per Ga2a». Chissà che tipo di stabilità ha in mente l’Europa, di fronte alla strategia chiarissima (perché ampiamente rivendicata) di pulizia etnica dei palestinesi, in Cisgiordania e a Ga2a, e di negazione strutturale del diritto ad autodeterminarsi. Una negazione a cui i paesi europei hanno dato il via libera votandolo quel piano, in Consiglio di Sicurezza. AMNESTY INTERNATIONAL, al contrario, torna a dare un nome alle cose: il genocidio è in corso, non è mai cessato e prosegue oggi con identici mezzi. Con i raid (ieri nuovi bombardamenti a Rafah), la demolizione di case (a Khan Younis, in particolare) e il blocco degli aiuti ai valichi che, ha denunciato ieri la protezione civile di Ga2a, tengono fuori anche il carburante costringendo a dimezzare le operazioni di recupero di dispersi e feriti e di rimozione delle macerie. Oltre 500 le violazioni della tregua in sette settimane, scrive Amnesty, 347 palestinesi uccisi e 890 feriti, oltre al mancato ritiro dell’esercito: «A oggi non ci sono indicazioni che Israele stia prendendo misure per invertire l’impatto mortifero dei suoi crimini e non ci sono prove che il suo intento sia cambiato…imporre deliberatamente condizioni calcolate per distruggere fisicamente i palestinesi a Ga2a», ha detto la segretaria dell’associazione, Agnes Callamard.
Il Libano tra una tregua falsa e la guerra vera
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di Michele Giorgio
Il Libano tra una tregua falsa e la guerra vera
«Il conto è due milioni e 200mila lire libanesi, se vuole può pagare con 24 dollari», dice un giovane alla cassa del supermercato Makhazen di Hamra. Basta osservare la svalutazione eccezionale subita negli ultimi anni dalla lira libanese nei confronti del dollaro – prima della crisi del 2019 un dollaro valeva 1.500 lire – per comprendere la gravità della crisi economica e finanziaria che strangola il Libano. Il carovita è il nemico numero uno e svolgere più di un lavoro è la regola che detta il ritmo in gran parte delle famiglie. Qui ad Hamra, quartiere centrale di Beirut, popolare ma non povero, il fermento è quello di sempre: automobili e persone affollano strade e marciapiedi e negozi di ogni tipo vendono di tutto e di più. I CAFFÈ, nonostante tutto, sono abbastanza pieni. Però sono aumentati chi, uomini e donne, con molta discrezione ti chiede qualche biglietto da mille per mangiare. La guerra bussa di nuovo alle porte del Libano a un anno esatto dall’inizio della tregua tra Israele e Hezbollah, anche se il cessate il fuoco non è mai stato rispettato da Tel Aviv che ha ucciso centinaia di libanesi, molti dei quali combattenti o affiliati a Hezbollah: domenica scorsa è stato colpito il comandante militare del movimento sciita, Haytham Ali Tabatabai. All’uscita del supermercato scambiamo qualche parola con chi ha appena fatto degli acquisti. Nessuno si sbilancia troppo, parlare con gli stranieri, con persone che non si conoscono, non è saggio in un paese che si è scoperto incredibilmente esposto alle attività dell’intelligence di Israele, oltre a essere spaccato tra i sostenitori e oppositori del fronte della Resistenza capeggiato dal movimento sciita Hezbollah. «UNA NUOVA guerra sarebbe un disastro», ci dice un signore sulla cinquantina che ha comprato dei detersivi. «Questo paese sta andando in rovina, i soldi non bastano mai. La ripresa della guerra aggraverebbe soltanto i problemi», aggiunge esortando a mezza bocca anche «le parti libanesi», cioè Hezbollah, a rispettare la tregua. Le difficili condizioni del Libano frenano la risposta del movimento sciita all’assassinio di Tabatabai: offrirebbe a Israele il pretesto per lanciare la sua offensiva. Tuttavia, non si può escluderla del tutto: secondo alcune voci, la base più militante del gruppo sciita non approva la linea prudente adottata dal segretario generale Naim Qassem, che ha preso il posto del leader storico Hassan Nasrallah ucciso da Israele il 27 settembre dello scorso anno. Fuori dal supermercato ci rivolgiamo a un giovane che, dopo qualche esitazione, si dichiara convinto che Israele non tornerà a bombardare il Libano del sud e la periferia meridionale di Beirut perché «tra qualche giorno inizia la visita di papa Leone e (Netanyahu) non arriverà al punto di colpire con il pontefice presente nel paese». Israele probabilmente si asterrà dal rilanciare la guerra nei giorni del viaggio del papa in Turchia e Libano. TUTTAVIA, IL MINISTRO della difesa Israel Katz, l’altro giorno ha dato una sorta di ultimatum al premier Nawaf Salam e al capo dello Stato Joseph Aoun (entrambi filo-occidentali): se entro la fine dell’anno il governo libanese non avrà disarmato Hezbollah, Tel Aviv riprenderà la sua offensiva aerea e di terra. Gli americani, secondo i media dello Stato ebraico, avrebbero spiegato all’esecutivo libanese che la minaccia israeliana va presa sul serio. In ogni caso Tel Aviv non è rimasta a guardare da quando un anno fa è scattata ufficialmente la tregua, ci ricorda il giornalista Hussein Ayoub. «Israele – spiega – tra incursioni e attacchi aerei, fuoco di artiglieria, demolizioni di edifici, sparatorie contro civili, ha violato costantemente la tregua. Il Libano ha denunciato queste violazioni e ha presentato numerose denunce all’Onu senza successo. E non dimentichiamo che migliaia di famiglie sfollate non sono tornate alle loro case (nel Libano del sud) perché Israele le ha distrutte o i loro villaggi sono cumuli di macerie». SECONDO IL CENTRO di ricerche Acled, l’esercito israeliano ha violato il cessate il fuoco 2.449 volte tra il 27 novembre 2024 e il 14 novembre 2025. I villaggi lungo la Linea Blu sono di gran lunga i più colpiti. Aita al-Shaab è stato l’obiettivo principale con 50 attacchi aerei, seguito da Kfar Kila (45), quindi Naqoura e Yaroun (32). 343 persone (inclusi 136 civili) sono state uccise – tra cui 20 palestinesi di cui 13 adolescenti nel campo profughi palestinese di Ein El Hilwe lo scorso 18 novembre – e quasi l’intera area di confine ora funge da zona cuscinetto. Israele inoltre continua a fortificare le sue postazioni all’interno dei cinque villaggi libanesi che occupa nonostante gli accordi di tregua. Quindi ha costruito un muro nel distretto di Bint Jbeil, tra Aitaroun e Maroun al-Ras, a sud della Linea Blu di confine, e un altro a sud-est di Yaroun. Cosa farà Hezbollah di fronte alla minaccia israeliana di rilanciare la guerra, rinuncerà alle armi? Hussein Ayoub, pur considerando che Hezbollah non ha più le capacità militari che possedeva prima del 7 ottobre 2023 e che non riceve più ingenti finanziamenti dall’Iran e armi attraverso la Siria, non crede che accetterà un suo disarmo completo: «L’operazione di disarmo di Hezbollah spetta all’esercito e al momento non si capisce se ciò avverrà». Ma il governo Netanyahu può davvero, attraverso la guerra, disarmare Hezbollah? «Israele – aggiunge Ayyoub – ha distrutto tutta Ga2a e alla fine non è stato in grado di liberare gli ostaggi, se non tramite un accordo e dei negoziati. La fine della guerra a Ga2a vede Hamas ancora presente e altrettanto avverrebbe in Libano dopo i bombardamenti israeliani contro Hezbollah». OMAR È UNO dei tanti libanesi di Hamra, e con ogni probabilità dell’intera Beirut e di tutto il paese, che fa gli scongiuri contro la guerra. Aveva trovato nell’affitto breve del suo appartamento ai turisti la soluzione per aggirare la crisi economica e la svalutazione della lira. «Per un certo periodo è andata bene, poi prima il Covid e dopo la guerra hanno interrotto l’arrivo dei turisti occidentali e arabi. E ora faccio fatica ad andare avanti. Noi non la vogliano una nuova guerra».
Israele preverrà gli attacchi
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di Roberto Motta
Israele preverrà gli attacchi
In un’operazione mirata che sottolinea «l’impegno incrollabile di Israele nella difesa dei propri cittadini», le Forze di Difesa Israeliane (Idf) hanno confermato l’eliminazione di Haytham Ali Tabataba’i, capo di stato maggiore de facto di Hezbollah e uno dei principali artefici delle operazioni militari del gruppo terL’ul roristico, in un ata far tacco aereo nella ha periferia meridionale di Beirut dodell menica. L’attacla F co, il primo del suo genere nella spec capitale libanese trans dalla metà del e h 2025, rappresenta un colpo decisido vo alla struttura di di comando di Hezbollah e rappresenta un chiaro messaggio: Israele non permetterà alla milizia sostenuta dall’Iran di ricostruire il suo arsenale o di minacciare le comunità del nord. L’operazione, nome in codice “Venerdì Nero”, è stata eseguita con precisione chirurgica dall’Aeronautica Militare israeliana nel quartiere densamente popolato di Dahiyeh, in particolare nel quartiere di Haret Hreik. Secondo le autorità sanitarie libanesi, l’attacco ha provocato cinque morti e oltre 20 feriti, tra cui Tabataba’i e diversi altri agenti di Hezbollah. La stessa Hezbollah ha successivamente confermato la perdita, elogiando il comandante veterano come un «grande comandante jihadista» che aveva «dedicato la sua vita alla resistenza». Pur essendo tragico per gli spettatori innocenti, i funzionari israeliani hanno sottolineato che l’azione guidata dall’intelligence ha ridotto al minimo il rischio per i civili, neutralizzando al contempo un obiettivo di alto valore, direttamente responsabile di anni di aggressione contro Israele. Tabataba’i, entrato a far parte di Hezbollah negli anni ’80, ha scalato i ranghi fino a diventare una delle figure più influenti dell’organizzazione. Ha comandato la Forza d’élite Radwan, un’unità specializzata in incursioni e attacchi transfrontalieri in territorio israeliano, e ha supervisionato le operaI zioni di Hezbollah in Siria, dove ha facilitato il trasferimento di armamenti avanzati dall’Iran. Il suo ruolo si estendeva alla pianificazione strategica, rendendolo un fondamentale «centro di conoscenza e potere» all’interno della leadership del gruppo. L’intelligence israeliana lo aveva seguito per anni, considerandolo determinante nell’accumulo di missili e razzi di Hezbollah che hanno terrorizzato i civili israeliani lungo il confine settentrionale. Il primo ministro Benjamin Netanyahu, rivolgendosi alla nazione dal suo ufficio a Gerusalemme, ha salutato l’operazione come un passo fondamentale per salvaguardare la sicurezza di Israele. «Poche ore fa, le Forze di Difesa Israeliane hanno eliminato Ali Tabataba’i, il Capo di Stato Maggiore dell’organizzazione terroristica di Hezbollah», ha dichiarato Netanyahu. «Tabataba’i è un assassino di massa. Le sue mani sono sporche del sangue di molti israeliani e americani. Ha guidato gli sforzi di rafforzamento e di armamento dell’organizzazione terroritrato stica, e questo ni ’80, attacco interntare rompe quella ti pericolosa trandato iettoria». L’ufnità ficio del primo ministro ha acchi inoltre ossereliano, vato che Netaioni nyahu ha autorizzato la misento sione «su racran comandazione del Ministro della Difesa e del Capo di Stato Maggiore delle Idf», definendola coerente con gli accordi di cessate il fuoco raggiunti tra Israele e Libano un anno prima. I portavoce delle Idf hanno ribadito questa determinazione, sottolineando il più ampio imperativo strategico. In una dichiarazione ufficiale, le Idf hanno descritto l’operazione nei dettagli: «Oggi le Idf hanno colpito nell’area di Beirut, guidate dall’intelligence militare e utilizzando l’aeronautica militare, ed hanno eliminato il terrorista Haytham Ali Tabataba’i, Capo di Stato Maggiore de facto di Hezbollah». L’esercito ha descritto Tabataba’i come un «veterano e agente operativo centrale nell’organizzazione terroristica», che aveva ricoperto ruoli di alto livell
o, tra cui comandante della Forza d’élite Radwan e capo delle operazioni in Siria. «Durante la guerra, Tabataba’i è stato nominato a capo della divisione operativa di Hezbollah, responsabile del consolidamento del quadro situazionale dell’organizzazione e del rafforzamento delle forze», ha aggiunto l’Idf. «Alla fine del 2024, dopo l’uccisione di gran parte della leadership di Hezbollah, ha ricoperto di fatto il ruolo di funzionario responsabile della gestione dei combattimenti contro Israele». Sottolineando ulteriormente il costante impegno per la sicurezza, l’Idf ha dichiarato: «L’Idf agirà contro i tentativi di riabilitare e riarmare l’organizzazione terroristica Hezbollah e agirà con forza per rimuovere qualsiasi minaccia per i cittadini dello Stato di Israele. Continuiamo a impegnarci a rispettare gli accordi stipulati tra lo Stato di Israele e il Libano». Il Capo di Stato Maggiore dell’Idf, tenente generale Eyal Zamir, ha rafforzato questa posizione, affermando che «potremmo essere costretti a tornare a combattere in arene in cui abbiamo già operato; ci stiamo preparando per questo». Ha sottolineato gli sforzi persistenti di Tabataba’i, aggiungendo: «Tabataba’i ha lavorato costantemente per ricostruire l’organizzazione e prepararsi per la prossima campagna, e [le Idf] non permetterà che si sviluppino minacce». «Continuerò a guidare le Idf alla luce della verità, con responsabilità e dedizione alla missione», ha affermato Zamir, sottolineando l’approccio disciplinato dell’esercito in un contesto di potenziali escalation. Anche il Ministro della Difesa Israel Katz ha elogiato le forze coinvolte.
I palestinesi che non si arrendono fuggendo dai tunnel saranno sicuramente eliminati
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di Roberto Motta
I palestinesi che non si arrendono fuggendo dai tunnel saranno sicuramente eliminati
In una recente operazione, le Forze di Difesa Israeliane (Idf) hanno annunciato di aver ucciso quattro terroristi di Gaza e di averne catturati altri due, emersi dai tunnel sotterranei a Rafah orientale, un settore della Gaza meridionale sotto il controllo dell’Idf dove si ritiene che decine di combattenti di Hamas siano rimasti intrappolati sottoterra.Stamattina presto, le truppe che monitorano le immagini di sorveglianza Operazioni I hanno rilevato sei militanti emergere dalla rete di tunnel. L’Aeronautica Militare Israeliana ha successivamente condotto un attacco aereo di precisione sul gruppo. Soldati della Brigata Nahal sono stati quindi schierati sul posto per perlustrare l’area. Secondo l’Idf, le truppe Nahal hanno trovato un militante ucciso nell’attacco aereo all’interno di un edificio vicino, insieme ad altri tre combattenti armati. I soldati hanno attaccato ed eliminato i tre uomini armati. Altri due terroristi di Gaza all’interno dell’edificio si sono arresi e sono stati arrestati. La scorsa settimana, le Idf affermano di aver ucciso più di 20 terroristi e di averne arrestati altri otto che avevano tentato di fuggire dal sistema di tunnel di Rafah. Le Idf hanno dichiarato che continueranno le operazione a Gaza City per neutralizzare o catturare tutti i combattenti rimasti sul lato controllato da Israele della Linea Gialla, la linea di demarcazione stabilita dall’accordo di cessate il fuoco di ottobre che divide Gaza.
Lettera aperta a Marco Travaglio: perché lei sta con l’invasore?
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di Michele Magno
Lettera aperta a Marco Travaglio: perché lei sta con l’invasore?
Gentile Travaglio, all’inizio del Novecento l’avanguardia futurista italiana esaltava il varietà perché meraviglioso ed eccentrico, antintellettuale e popolare, capace di coinvolgere il pubblico in modo attivo e di suscitare il suo apprezzamento con urla e Mo schiamazzi. d «Creiamo la scena», scriveva Enrico Prampolini nel Bi 1915. Inventiamo c cioè uno spettacolo che non deve dipenL dere dal significato delle parole ma dalla ca libera e sfrenata immaginazione dell’autore; che non deve quindi imitare la c realtà ma stupire, divertire, emozionare e abbindolare gli spettatori con la rapidità e il sensazionalismo del suo messaggio. Il «teatro della sorpresa», come recita il titolo di un manifesto firmato da Filippo Tommaso Marinetti e Francesco Cangiulli sei anni dopo, doveva insomma gettare alle ortiche ogni scoria élitaria e diventare «alogiG co, irreale». Artificio, comicità, circo, imprevedibilità, testi scarni e improbabili personaggi erano i canoni e i valori della drammaturgia futurista. Ebbene, mi creda: io l’ammiro. L’ammiro perché, a mio avviso, lei ha riportato agli antichi fasti un movimento culturale e politico che ha influenzato non poco l’esperienza fascista. I suoi editoriali sul Fatto, le sue comparsate televisive e i suoi soliloqui sul palcoscenico sono ormai spettacoli cult. Il genere: burlesque giornalistico. I prezzi: modici. Parafrasando Gigi Proietti, sono spettacoli in cui tutto è finto e niente è vero. E in cui, come sosteneva proprio Marinetti, la parola «libertà» deve essere abolita. Infatti, da lei non viene mai menzionaàa ta quando a. racconta la nali travolgente di avanzata di Mosca nel a Donbas. Una h’io marcia inie ziata nel . 2022 con l’occupazion ne di territori dai quali l’esercito rusrso so, dopo aver come messo stragi indescrivibili (you remember Bucha e Ma’è riupol?), si è dovuto ritirare. Per riconquistarne, dopo oltre tre anni di devastazione dell’Ucraina, solo un misero un per cento. Gentile Travaglio, non sono uno studioso di geopolitica. Perciò non ho certezze. Diversamente da lei, non so come andrà a finire questa maledetta guerra. Molto dipenderà dalle scelte finali del «compagno di merende» Marco Travaglio di Putin che risiede nella Casa Bianca. In questo senso, anch’io come lei, ma per ragioni forse opposte, non sono ottimista. La sproporzione delle forze in campo, grazie anche al «soccorso rosso» militare nordcoreano e strategico di Pechino, è innegabile. Il rischio che la carneficina continui quindi c’è. Anch’io come lei, beniteso, tifo affinché sia fermata. Auspicabilmente senza una resa incondizionata dell’aggredito. Mi permetta in proposito di osservare tuttavia, che il suo «spirito umanitario» non si è invece manifestato nel conflitto israelopalestinese. Dove, di fronte a una analoga sproporzione delle forze in campo, non l’ho mai sentita chiedere ad Hamas (l’aggressore) di deporre le armi per arginare il «genocidio» dei ga2awi. Gentile Travaglio, si narra che Indro Montanelli -considerato suo maestro- abbia detto di lei: «È un Grande Inquisitore, da far impallidire Vyšinskij, il bieco strumento delle purghe di Stalin […]. Non uccide nessuno. Col coltello. Usa un’arma molto più raffinata e non perseguibile penalmente: l’archivio». Lei, che in compenso vanta una discreta collezione di condanne civili per diffamazione, non crede che sia giunta l’ora di aggiornare il suo archivio? Magari sostituendo le veline del Cremlino con buoni testi di storia, per fare qualche esempio, sul Memorandum di Budapest (1994), sui «fatti di Euromaidan» (2013-2014) e sugli accordi di Minsk (2014-2015)? Le assicuro che la mia stima nei suoi confronti salirebbe vertiginosamente. Grazie per l’attenzione, anche se so che non ci sarà. —End text— Author: MICHELE MAGNO Heading: Highlight: Diversamente da lei, caro Travaglio, non so come andrà a finire questa maledetta guerra. Molto dipenderà dalle scelte finali del «compagno di merende» di Putin che risiede nella Casa Bianca. In questo senso, anch’io come lei, ma per ragioni forse opposte, non sono ottimista. La sproporzione delle forze in campo, grazie anche al «soccorso rosso» militare nordcoreano e strategico di Pechino, è innegabile. Il rischio che la carneficina continui quindi c’è.
Tutti in Israele
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di Giulio Meotti
Tutti in Israele
L’esercito israeliano ha ospitato cento alti rappresentanti militari provenienti da venti paesi in un programma della durata di cinque giorni, durante il quale hanno ripercorso gli insegnamenti tratti dagli ultimi due anni di guerra a Ga2a su più fronti. Hanno partecipato ufficiali e comandanti di Stati Uniti, Canada, Germania, Finlandia, Francia, India, Grecia, Cipro, Repubblica ceca, Ungheria, Polonia, Austria, Estonia, Giappone, Marocco, Romania, Serbia e Slovacchia. Per imparare “l’uso militare dei dati e dell’intelligenza artificiale, di droni e dell’artiglieria per proteggere le truppe in avanzata”. Alcuni paesi avevano contestato le operazioni militari contro Hamas a Ga2a, ma non sembrano avere remore ad andare a lezione dagli stessi israeliani che hanno condannato. Per dirlo con l’Economist di questa settimana, “Israele sarà anche poco popolare, ma le sue armi lo sono molto”. Intanto il ministero della Difesa della Romania ha concluso un accordo da quattrocento milioni di dollari con l’azienda israeliana Elbit per lo sviluppo di sette sistemi Watchkeeper X, utilizzati per rilevare le operazioni russe in prossimità delle zone di confine della Ue. I droni israeliani saranno consegnati tra pochi mesi, volano a un’altitudine di mille metri e rilevano qualsiasi bersaglio entro un raggio di duecento chilometri. Sempre la Elbit stringeva un mega accordo con la Kayo, l’industria albanese controllata dallo stato, volto a promuovere lo sviluppo dell’industria militare in Albania. La Grecia sta invece per acquistare da Israele sistemi antiaerei e di artiglieria per un valore di 3,5 miliardi di euro. I due paesi sono impegnati in trattative per un sistema antiaereo e antidrone multistrato, denominato “scudo d’Achille”. Per la prima volta dall’invasione russa dell’Ucraina nel 2022, un alto funzionario ucraino arriva questa settimana in Israele a capo di una delegazione volta a promuovere la cooperazione militare fra i due paesi. Si tratta del vice premier Taras Kachka. E nei giorni scorsi anche l’ex cancelliera Angela Merkel era in Israele: ha ricevuto un dottorato onorario al Weizmann, dove ha elogiato il rapporto di Israele con la scienza, e ha visitato i kibbutz del pogrom di Hamas. E il mese prossimo arriva a Gerusalemme il cancelliere Friedrich Merz, che ha appena tolto l’embargo militare a Israele e sta facendo incetta di tecnologia militare dello stato ebraico. Oltre all’enorme accordo per l’acquisto del sistema di difesa missilistica Arrow 3 da Israel Aerospace Industries, la Germania ha acquistato da Israele anche missili anticarro Spike. Sotto la superficie, tuttavia, è in corso un’altra lunga serie di trattative tra il governo tedesco e le aziende di difesa israeliane per l’acquisizione di sistemi aggiuntivi su larga scala. La Germania vuole avere il più grande esercito convenzionale d’Europa. La Bundeswehr conta attualmente 182 mila soldati e vuole arrivare a 260 mila unità nei prossimi dieci anni. Leonardo e Iron Dome L’italiana Leonardo, che lavora molto con Israele, sta per svelare il “Michelangelo Dome”. Un nuovo tipo di tecnologia di difesa aerea progettata per facilitare la creazione di scudi missilistici a cupola, mentre i paesi europei si affrettano a rafforzare la loro protezione militare contro la Russia. Un sistema basato sull’intelligenza artificiale in grado di collegare diverse apparecchiature e piattaforme per proteggere i paesi dalle minacce aeree copiato dall’Iron Dome di Israele. Questa settimana un gruppo di associazioni italiane ha fatto causa a Leonardo e allo stato italiano per i loro rapporti militari e di sicurezza con Gerusalemme. Sotto le cui mura, come sanno le persone serie che dopo la fine della guerra a Ga2a accorrono nello stato ebraico, si difende l’occidente.
Il Papa ad Ankara vola alto e ricorda il ruolo dei cristiani in Turchia, Erdogan punta su Gaza e si presenta come uomo di pace (curdi addio)
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di Matteo Matzuzzi
Il Papa ad Ankara vola alto e ricorda il ruolo dei cristiani in Turchia, Erdogan punta su Gaza e si presenta come uomo di pace (curdi addio)
Un giorno del Ringraziamento particolare, quello del primo Papa americano della storia. Niente tavola imbandita con tacchino ripieno in mezzo, ma un bicchiere d’acqua posato su un tavolino come unico conforto dinanzi all’interminabile discorso pronunciato da Recep Tayyip Erdogan in una bella sala del palazzo presidenziale di Ankara. Era il primo giorno del viaggio internazionale che dopo la Turchia porterà Papa Leone XIV in Libano. Nel suo intervento, Erdogan ha ripercorso i rapporti tra il suo paese e la Sede apostolica (cordialmente evitando le frizioni con Benedetto XVI e, soprattutto, con Francesco, quando richiamò in patria il proprio ambasciatore), arrivando a toccare i temi della più stretta attualità geopolitica: le guerre in corso e, tra queste, i “bombardamenti che continuano” di Israele contro “chiese, ospedali e tutti i luoghi di culto”. Il leader turco ha citato espressamente l’attacco della scorsa estate contro il complesso della Sacra famiglia a Ga2a e si è detto ben felice che “l’illustre ospite”, come del resto “i suoi predecessori”, la pensino come lui sul tema, e cioè che servono due stati secondo i confini del 1967. Uomo di pace, s’è implicitamente definito, anche quando s’è fatto poeta: “Non vale la pena sporcare il mondo nemmeno con una goccia di sangue”(chissà cosa ne penseranno i curdi). Più alto il discorso di Leone, nel senso che non è entrato in questioni specifiche. Si è augurato che la Turchia “possa essere un fattore di stabilità e di avvicinamento fra i popoli, al servizio di una pace giusta e duratura”, ha sottolineato che “oggi più che mai c’è bisogno di personalità che favoriscano il dialogo e lo pratichino con ferma volontà e paziente tenacia. Dopo la stagione della costruzione delle grandi organizzazioni internazionali, seguita alle tragedie delle due guerre mondiali, stiamo attraversando una fase fortemente conflittuale a livello globale, in cui prevalgono strategie di potere economico e militare, alimentando quella che Papa Francesco chiamava ‘Terza guerra mondiale a pezzi’. Non bisogna cedere in alcun modo a questa deriva! Ne va del futuro dell’umanità”. Ma non ha parlato né della crisi israelo-palestinese né del conflitto russoucraino, pure citato da Erdogan come esempio della forza mediatrice di Ankara (l’accordo sul grano da lui mediato). Quel che invece Prevost ha detto all’inizio del suo intervento, quasi en passant, è rilevante e meno scontato (meno scontato perché detto subito, ad Ankara): “Desidero assicurare che all’unità del vostro paese intendono contribuire positivamente anche i cristiani, che sono e si sentono parte dell’identità turca, tanto apprezzata da san Giovanni XXIII, da voi ricordato come il ‘Papa turco’per la profonda amicizia che lo legò sempre al vostro popolo”. Non è una frase messa lì per caso, perché il problema dell’identità delle minoranze cristiane nella Turchia sempre più nazionalista è assai avvertito: all’inizio del Novecento i cristiani nel decadente impero ottomano erano quattro milioni, oggi in Asia minore sono centomila. Dal 1923 è stato possibile edificare solo una chiesa in tutto il paese. Mostrarsi un buon padre della patria anche per i cristiani fa gioco a Erdogan. Almeno fino a domenica, quando Leone partirà per Beirut.
Tocca a Israele sbloccare lo stallo in Medio Oriente
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di Davide Assael
Tocca a Israele sbloccare lo stallo in Medio Oriente
C’è un dibattito midrashico a commento del celebre episodio delle aperture delle acque del Mar Rosso. I chachamim, i saggi della tradizione di Israele, discutono su chi sia stato a entrare in acqua per primo, fidandosi che le acque si sarebbero ritirate. La scelta ricade su Nachshon ben Aminadav, per cui solo è detto che entra nelle acque, mentre per gli altri, che «camminarono sull’asciutto». Questo non perché Nachshon abbia posato il piede sull’acqua, ma perché solo lui corse quel rischio. Gli altri. avendo avuto lui come esempio, erano certi di camminare sulla sabbiaNon trovo immagine migliore a commento del tanto atteso incontro fra Donald Trump e Mohammed bin Salman. Il meeting ha infatti ribadito lo stallo in cui si trova oggi l’architettura. del nuovo Medio Oriente che dovrebbe plasmarsi attorno all’asse israelo-sunnita ribadito dai venti punti del piano con cui si è raggiunto un fragile cessate il fuoco a Ga2a. Bin Salman ha manifestato la volontà saudita di aderire agli Accordi di Abramo, che contano la recentissima adesione del Ka2aidstan (operazione importante anche m ottica di contenimento cinese), ma solo dopo che Israele avrà dato prova di perseguire davvero l’idea della formazione di un’entità politica palestinese, almeno uscendo da Ga2a- Israele, però, procederà al ritiro solo dopo il disarmo e la resa definitiva di Hamas, che chiede, a sua volta, che Israele prima esca dalla Striscia- Stesso stallo sul fronte Nord. Il governo libanese è seriamente intenzionato a procedere ad una storica normalizzazione diplomatica con lo Stato ebraico, ma Israele deve porre fine ai raid nel sud del paese. L’idf smetterà nel momento m cui Hezbollah sarà disarmato. Si smettono i raid per disarmare Hezbollah o si disarma Hezbollah per far cessare i raid? Stessa cosa in Siria: Al sharaa, anche lui reduce da una storica prima visita a Washington di un presidente siriano dalla nasata del paese, vorrebbe portare il proprio Stato definitivamente in area occidentale, anche passando per gli Accordi di Abramo, ma Israele deve ritirarsi dalle pianure del Golan, annesse nel 1981, senza che questo passaggio sia mai stato riconosciuto dalla comunità internazionale. È nota la valenza strategica del Golan, a cui lo Stato ebraico non rinuncerà certo facilmente. La traiettoria diplomatica vorrebbe ripiegare, cosi, su un comunque importantissimo accordo di coopera zione militare, che riesumi quello siglato nel 1974, ma Israele dovrebbe retrocedere almeno nei confini precedenti alla caduta di ASsad, quando l’idf si era insediato nella parte sìrìana del Golan, intaccando un equilibrio, che, bene o male, reggeva dal 1967. Lo farà quando Damasco reprimerà le milizie fuori controllo che minacciano il confine. Al Sharaa procederà quando Israele sgombererà il campo. Cisgiordania? Uguale: qualunque sia il leader, e al netto della nuova strategia espansionistica del tutto fallimentare [i dati demografia relativi alla popolazione ebraica nella west Bank parlano da sé) delle punte più estreme del sionismo religioso, Israele non si ritirerà finché le roccaforti terroristiche a Tulkarem. Jenin e altre parti dei territori palestinesi non saranno represse. Insomma, ovunque si butti l’occhio la domanda è sempre la stessa: chi inizia per primo? Ed è qui che entra in scena il nostro Nachshon ben Ammadav, che ha avuto ü coraggio, perché tanto ce ne vuole, di compiere il pri- mo passo. Un motivo in più perché da qui si sostenga un cambio di leadership politica appoggiando chi, come il federatore della sinistra Yair Golan ha più volte affermato di voler fare, si assuma l’incarico di affrontare la domanda rimossa dei confini dello Stato. Un vero tabù dal rifiuto palestinese del piano 01mert del 2008 ed il precedente di Barate: neL 2000. In mezzo, la terribile seconda intifada che avrebbe minacciato la tenuta di qualunque società, un primo passo israeliano, certo fàcile dirlo da qui, offrirebbe, forse, ai governi arabi la possibilità di impegnarsi nella Striscia aggirando l’avversione delle pro prie opinioni pubbliche verso Tei Aviv, da sempre carburante per la propaganda fondamentalista intemaDeve essere chiaro a tutti: non esiste piano â. Ad oggi, questo è l’unico asse che possa garantire una stabilità per il Medio Orienta Gli accordi sauditi-paldstani sono importanti, ma si infrangono sullo scoglio di interessi contrastanti. Basta vedere gli strettissimi rapporti commerciali fra Riad e Nuova Delhi. Piaccia o no, le alleanze si costruiscono su nemici comuni e nel caso dell’asse israelo-sunnita il nemico è chiarissimo: la Repubblica islamica.
Il processo a Eichmann e la controversa banalità del male
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di Anna Foa
Il processo a Eichmann e la controversa banalità del male
Dall’aprile al dicembre 1961 si tenne a Gerusalemme un processo di grande risonanza, quello ad Adolf Eichmann, terminato con la sua condanna a morte e seguito oltre che dagli israeliani, in particolare dai sopravvissuti alla Shoah, da decine di giornalisti da tutto il mondo. Fra loro, Hannah Arendt, che seguì il processo per “The New Yorker”, con una serie di articoli da cui trasse nel 1963 un volume, Eichmann in Jerusalem: a Report on the Banality of Evil, che suscitò molte discussioni e polemiche sia in Israele e negli Stati Uniti che in Europa. Lo sguardo che Arendt gettava sul processo era infatti uno sguardo molto critico, non perché ne negasse la necessità o la legittimità, ma per il modo in cui era stato condotto. Ma soprattutto, a sollevare le critiche erano due punti fondamentali della sua interpretazione. Il primo era la sua valutazione molto severa sul ruolo dei Consigli ebraici nei ghetti, che avrebbe a suo dire facilitato la deportazione degli ebrei collaborando sostanzialmente con i nazisti. Era un tema in quei primi anni dalla nascita dello Stato assai sentito in Israele, dove ancora i sopravvissuti rischiavano di incontrare nelle strade delle città israeliane i membri della polizia ebraica che nei ghetti li avevano arrestati e spediti in deportazione. Nel 1950 il Parlamento aveva votato una legge contro i collaborazionisti, che prevedeva la pena di morte, pena comunque abolita nella legge israeliana nel 1954. Ma definire il ruolo dei Consigli ebraici era comunque un discorso difficile, in cui sottile era il confine tra il collaborazionismo e il tentativo dei Consigli di salvare almeno una piccola parte di ebrei dalla deportazione immediata. Per Arendt, in passi che ci ricordano i suoi scritti dei primi anni americani, quando la giovane filosofa era ancora una convinta sionista e mentre in Europa i treni portavano ancora gli ebrei nei campi di sterminio, l’azione dei consigli ebraici dei ghetti era stata decisamente una forma di collaborazionismo. L’altro argomento di critica e dibattito, quello forse più noto, è quello della valutazione da lei data di Adolf Eichmann. Molti, in particolare fra i politici del giovane Stato di Israele, lo definivano un mostro, il diavolo in persona. Così lo aveva definito un giudice durante un processo contro un esponente laburista, Kastner, accusato di collaborazionismo per le sue trattative con Eichmann: Kastner aveva, disse, dato la sua anima al diavolo. O Eichmann era invece, come scrive Hannah Arendt, un burocrate dello sterminio, un uomo incapace di pensare e distinguere il bene dal male.
Intervista a Thiago Avila – Gaza, la fase 2 è nel fango: aiuti italiani a parole
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di Alessandro Mantovani
Intervista a Thiago Avila – Gaza, la fase 2 è nel fango: aiuti italiani a parole
Thiago Avila, leader della Flotilla parla di “un movimento rivoluzionario” globale, non un partito, “non ne abbiamo neanche discusso”, dice Thiago Avila, l’attivista brasiliano che è stato il frontman della Global Sumud Flotilla intercettata la notte del 2 ottobre a meno di cento miglia da Gaza. Già si prepara la prossima, “Gaza è ancora sotto assedio – ricorda – e può andare peggio”. L’ultima volta che l’abbiamo visto eravamo a decine in un gabbione del carcere israeliano di Keziot, neanche fossimo allo zoo, poco dopo lo show del ministro Itamar Ben-Gvir, poi ci hanno mandati nelle celle. Avila è a Genova, oggi con Greta Thunberg, Francesca Albanese, l’ex ministro greco Yanis Varoufakis e molti altri, parteciperà alle manifestazioni per lo sciopero dell’Unione sindacale di base (Usb) “contro la finanziaria di guerra” del governo Meloni, domani sarà a Roma per la Giornata internazionale di solidarietà con i palestinesi. Perché proprio in Italia? Crediamo che i lavoratori in tutto il mondo debbano mobilitarsi per la Palestina e per i diritti di tutti i lavoratori in tutti i Paesi. È un onore essere qui in Italia e siamo molto molto grati ai lavoratori italiani per il sostegno dimostrato alla Palestina e alla nostra Flotilla con le grandi manifestazioni di ‘blocchiamo tutto’ (detto in italiano, ndr) quando la Flotilla è stata attaccata e anche prima. I portuali italiani hanno svolto un ruolo fondamentale per la Palestina nel diffondere fra i portuali nel Mediterraneo e in tutto il mondo la consapevolezza che è in corso un genocidio e che i porti europei sono usati per il trasporto di armi, bombe e droni impiegati poi per uccidere palestinesi e anche bambini in Cisgiordania, a Gaza, contro la popolazione libanese o nei Paesi vicini. Siamo qui per manifestare la nostra gratitudine ai lavoratori italiani che hanno fatto un lavoro fantastico, l’Italia ha mostrato la strada ma è una giornata di mobilitazione mondiale, anche in Brasile. In Italia le manifestazioni per la Flotilla sono state più importanti che altrove, perché? Credo ci sia qualcosa negli italiani: capacità organizzativa, sindacati e organizzazioni sociali forti. Gli italiani sono anche molto coraggiosi nel momento in cui bisogna sfidare un governo di estrema destra, con radici fasciste e tratti autoritari, ultracapitalisti e populisti, che dev’essere sconfitto. Non si fa certo infilandosi in una buca aspettando che passi, ma con la mobilitazione, spingendolo a rispettare la volontà popolare. È un governo amico di Benjamin Netanyahu, un alleato strategico e complice di Israele e degli Usa, parte del sistema imperialistico globale, ma ha dovuto riconoscere l’esistenza della Flotilla fino a inviare una nave militare per accompagnarla. Solo con la mobilitazione si possono battere le violazioni dei diritti, non so bene perché, ma gli italiani l’hanno fatto meglio che in altri Paesi. Può davvero emergere un nuovo movimento globale a partire dalla solidarietà a Ga2a? È la sfida di questa generazione, se saremo capaci, si vedrà. Ma dobbiamo fare del nostro meglio, se non avremo un movimento internazionale di massa non riusciremo a battere il complesso militare industriale, le pretese della Nato e le brame imperiali degli Stati Uniti. Dobbiamo fare tutto il possibile per costruire un mondo di pace e giustizia sociale, solo un movimento rivoluzionario può farlo. Questo dobbiamo fare. Pensate anche a un partito politico internazionale con Greta Thunberg, non so Francesca Albanese o magari con Varoufakis, che il suo partito in Grecia ce l’ha? Non abbiamo discussioni su questo, non abbiamo realmente toccato l’argomento. Credo che abbiamo bisogno di un grande movimento sociale, siamo lontanissimi dal discutere d’altro. È in preparazione una nuova Flotilla per Gaza, forse per la primavera prossima. Quante barche pensate di portare lì davanti? Quali lezioni avete tratto dalla Global Sumud? Pubblicheremo a giorni i dettagli della nuova missione. Quello che posso dire oggi è che la situazione a Gaza e in Palestina è ancora lontana dall’essere risolta, vediamo ancora genocidio e pulizia etnica, apartheid e colonialismo, razzismo e suprematismo dietro il sionismo. Dobbiamo mettere fine a tutto questo, le flottiglie sono ancora necessarie, Gaza è ancora sotto assedio da 18 anni e il piano di Donald Trump non ha cambiato tutto questo, crediamo possa andare perfino peggio. Quindi dobbiamo continuare a mobilitarci, sappiamo che la nostra responsabilità è anche più grande adesso, dobbiamo essere ancora più forti, abbiamo bisogno di tutti e dobbiamo arrivare lì.
Gaza sotto le bombe e le inondazioni “Questa pace è uguale alla guerra”
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di Majd Al-assar
Gaza sotto le bombe e le inondazioni “Questa pace è uguale alla guerra”
Il dolore e la morte arrivano dal cielo. La tregua non ha portato sollievo. Le piogge inondano le fragili tende. I caccia israeliani continuano a colpire, a uccidere e ferire decine di persone, spazzando via intere famiglie di sfollati nel gremito campo di Nuseirat. L’ultimo attacco è arrivato martedì, a meno di due mesi dall’annuncio di un’iniziativa di pace mediata dagli Stati Uniti e presentata dal presidente Donald Trump come l’inizio «della fine della guerra a Gaza». Da allora, però, i residenti dicono che la realtà “post-bellica” è di gran lunga diversa dalle promesse fatte in televisione. L’esercito israeliano ha lanciato decine di operazioni aeree lungo la Striscia, definendole reazioni mirate nei confronti di presunte “violazioni” degli accordi da parte di Hamas: ritardo nella consegna dei corpi degli ostaggi, sospette attività di militanti. Gli attacchi di sabato scorso sono tra gli incidenti più letali finora. A Gaza City testimoni riferiscono che uno dei primi bombardamenti di sabato pomeriggio ha preso di mira un’auto di civili nella parte occidentale della città, uccidendo i tre passeggeri a bordo. Dopo non molto, i bombardamenti si sono spostati nella parte centrale. Nel campo profughi di Nuseirat, un’area densamente popolata nel mezzo della Striscia di Gaza, i residenti ricordano almeno tre ondate diverse di bombardamenti. Una ha colpito la casa della famiglia Abu Amouna, uccidendo tre persone. Un’altra, più devastante, ha colpito un agglomerato di case di membri della famiglia Abu Shawish. Intorno alle 16,15, un missile aria-terra ha colpito la casa di Ghaleb Abu Shawish, situata in un piccolo agglomerato di edifici adiacente al campo. Ghaleb, sua moglie e i loro tre bambini sono rimasti uccisi sotto il bombardamento. Soltanto Tala, dieci anni, è sopravvissuta. La bimba, che ora vive con la nonna, non riesce a comprendere la portata dell’accaduto. «Papà, mamma, i miei fratelli e le mie sorelle sono morti. Sono rimasta sola. Non ho fatto in tempo a salutarli. Mi hanno detto che dei loro corpi non restava granché», ha detto. «A chi dovrei dire addio per primo?». Le abitazioni della famiglia Abu Shawish sono addossate le une alle altre e tra di esse non c’è spazio, l’esplosione non si è limitata alla casa di Ghaleb. L’onda d’urto e i crolli si sono immediatamente estesi alla casa adiacente di Rami Abu Shawish, suo parente. Al momento dell’esplosione, in casa c’era tutta la famiglia di Rami. Quando la polvere si è posata, la casa è crollata loro addosso. La moglie di Rami, Sahar, e le loro figlie Habiba e Teema sono rimaste uccise insieme ai due figli maschi, Yousef e Mohammad. Rami stesso è stato estratto dalle macerie, vivo ma gravemente ferito, ed è stato trasferito nel reparto di terapia intensiva dell’Al-Aqsa Hospital nella vicina Deir al-Balah. Dei cinque figli di Rami, è sopravvissuta soltanto una ragazza, Batoul, 19 anni, studentessa. È ferita ma, quando i soccorritori l’hanno raggiunta, era cosciente. L’hanno trasferita subito nel reparto di chirurgia d’urgenza, dopo averle fatto salutare tutta la sua famiglia nell’obitorio dell’ospedale. «Da chi devo iniziare a dire addio per primo? Non lo so», ha gridato. I medici dicono che le sue condizioni adesso sono stabili, ma l’impatto psicologico dell’accaduto molto probabilmente durerà più a lungo delle cicatrici delle sue ferite. Più avanti, lungo il corridoio, nello stesso ospedale Saeed Riyad Saeed, 18 anni, è ricoverato in terapia intensiva. Anche lui è una vittima del bombardamento sul quartiere Abu Shawish. Quando il missile è esploso, le pareti della casa di famiglia – facente parte del medesimo piccolo agglomerato, densamente popolato – sono crollate schiacciandogli una gamba e ferendolo alla schiena. In un primo tempo, Saeed è stato trasportato al Nasser Hospitale di Jhan Yunis, per poi essere trasferito due volte avanti e indietro tra Nasser e Al-Aqsa, mentre i medici cercavano di stabilizzarlo. Alla fine, i medici hanno dovuto sottoporre il padre Riyad a una scelta impossibile. «Il dottore mi ha presentato due opzioni» ha detto Riyad, fuori dall’unità di terapia intensiva con un modulo di consenso in mano. «Mi ha chiesto se preferissi salvare la gamba di mio figlio o la sua vita». Riyad ha firmato il modulo, autorizzando così l’amputazione della gamba del figlio nella speranza di salvargli la vita. Poco prima dell’operazione, però, nuovi esami hanno accertato la presenza di schegge conficcate nella schiena, pericolosamente vicino agli organi vitali. «Mio figlio è in condizioni critiche», racconta Riyad: «Ogni volta che lo visitano gli trovano qualcosa d’altro. Che colpe aveva? Era seduto in casa, non stava facendo niente di male». Il bombardamento ha colpito anche i visitatori, non soltanto i residenti. Kamilia Abu Shawish, 50 anni, ha perso suo figlio Salam di 30 nel medesimo attacco: quel pomeriggio era uscito per andare a trovare parenti a casa di Rami a Nuseirat e pare che quando è caduto il missile fosse sulla soglia di casa. Lo hanno trasportato di corsa in ospedale, dove ne hanno dichiarato la morte. Lascia un bambino di un anno. Per Kamilia con questa tragedia si ripete un incubo iniziato poco tempo fa.«Proprio il giorno prima che morisse, abbiamo celebrato l’anniversario della morte di suo fratello. Io non ho ancora elaborato il lutto della perdita del mio primo figlio, e oggi devo già seppellire il secondo». Le sue parole riflettono quello che a Nuseirat provano in tanti: le parole del “piano di pace” e del “cessate il fuoco a fasi” hanno fatto ben poco per cambiare la quotidianità dei civili. Per la popolazione di Gaza, il dibattito su chi abbia infranto per primo gli accordi passa in secondo piano rispetto alle sue conseguenze. L’attenzione dell’opinione pubblica internazionale si focalizza sui negoziati diplomatici e i calcoli politici – a Washington, Tel Aviv, nelle capitali europee mentre le famiglie a Nuseirat dicono di sentirsi abbandonate in una realtà “post-bellica” che di fatto assomiglia moltissimo a una guerra. Per Tala, accoccolata nelle braccia della nonna, le parole del cessate il fuoco e del piano di pace significano poco. Ha soltanto una domanda che ripete a bassa voce in continuazione: «Perché mi hanno lasciata sola?».
Cisgiordania, coloni incendiano una moschea Palestinesi uccisi, indagine dell’Idf
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di Rosalba Reggio
Cisgiordania, coloni incendiano una moschea Palestinesi uccisi, indagine dell’Idf
Non c’è pace in Cisgiordania. Dopo l’inizio della grande operazione “antiterrorismo” di Israele a nord dei territori occupati, un video pubblicato dal canale arabo Al Ghad Tv, diventato virale e commentato da Haaretz, mette in moto una indagine dell’Idf. Le immagini riprendono due palestinesi a braccia alzate che si arrendono alle forze israeliane, che avrebbero poi fatto fuoco uccidendoli. Se esercito e polizia hanno fatto sapere di indagare sull’episodio, il ministro per la Sicurezza nazionale israeliano Ben Gvir ha manifestato pieno sostegno ai militari che – ha dichiarato – hanno fatto quello che ci si aspetta da loro, cioè hanno sparato perché «i terroristi devono morire». Anche i coloni tornano a colpire con violenza in Cisgiordania. Uomini mascherati sono entrati ieri nella moschea di Al-Falah, a nord del villaggio di Biddya, vicino a Kafr Qasem, imbrattandola e dandole fuoco. Immediata la presa di posizione di Francia, Germania, Regno Unito e Italia, che in una nota scrivono «condanniamo fermamente il massiccio aumento della violenza dei coloni contro i civili palestinesi e invochiamo la stabilità in Cisgiordania». I quattro Paesi chiedono al governo israeliano «di ottemperare ai propri obblighi ai sensi del diritto internazionale» e sottolineano il rischio di compromissione del piano di pace alla luce delle violenze. Violenze che ieri hanno scandito anche il secondo giorno dell’operazione militare di Idf e Shin Bet a nord dei territori. La Mezzaluna Rossa Palestinese ha riferito che due minori feriti delle forze armate israeliane sono stati ricoverati in ospedale, mentre, secondo i media arabi l’esercito israeliano avrebbe ucciso un uomo nel campo profughi palestinesi di Jenin, un fenomeno denunciato da tempo dalle Nazioni Unite. L’Unrwa (l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi) ha dichiarato che circa 32mila palestinesi sono stati costretti a fuggire a causa delle incursioni israeliane nei campi profughi della Cisgiordania settentrionale. Come ha spiegato il direttore degli affari esteri Rolan Friedrich, le autorità israeliane hanno emesso due ordini di demolizioni di massa per circa 190 edifici nel campo di Jenin, mentre altri 12 saranno demoliti nei prossimi giorni. «L’ultimo episodio – ha spiegato – nei continui sforzi per riprogettare la topografia dei campi». Un progetto contro cui si sono espressi Italia, Francia, Germania e Regno Unito, che hanno ribadito la loro contrarietà a qualsiasi forma di annessione e hanno chiesto al governo israeliano di invertire la politica che ha portato all’approvazione di 28mila nuove unità abitative in Cisgiordania dall’inizio dell’anno. Il sostegno al popolo palestinese arriva anche da una delegazione parlamentare italiana, guidata da Laura Boldrini, che ieri a Ramallah ha incontrato Abu Mazen. I parlamentari hanno ribadito l’importanza del diritto internazionale e umanitario, si sono detti contrari ai doppi standard nelle relazioni internazionali e agli attacchi coloniali in Cisgiordania e Gerusalemme.
Jenin, gli israeliani sparano contro due palestinesi a terra. L’esercito apre un’inchiesta
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di Davide Frattini
Jenin, gli israeliani sparano contro due palestinesi a terra. L’esercito apre un’inchiesta
La pala della ruspa bussa sulla saracinesca, non sta chiedendo il permesso di entrare. La serranda viene accartocciata dalle martellate, due uomini escono da sotto la crepa con le mani alzate: i soldati li obbligano a stendersi per terra, senza bisogno di ordini i palestinesi hanno già alzato le magliette, un gesto quasi istintivo per mostrare di non indossare cinture esplosive. Senza una ragione apparente — il video diffuso dalla televisione egiziana non ha il sonoro — le guardie della polizia di frontiera sembrano indicare con i fucili mitragliatori di rientrare nel magazzino, pochi secondi dopo li uccidono a freddo, la saracinesca viene fatta crollare su di loro. Adesso i portavoce militari provano a spiegare «che uno dei due terroristi ha cercato di alzarsi in piedi e ha fatto un movimento sospetto». I palestinesi erano ricercati per aver piazzato esplosivi contro le truppe negli scontri di questi mesi a Jenin e i soldati li avevano circondati per convincerli a uscire: sarebbero stati loro a tentare di rientrare nel rifugio, disobbedendo agli ordini. I comandanti hanno aperto un’inchiesta. Jenin resta una cittadina sotto assedio: l’esercito ha di nuovo intensificato le operazioni nel nord della Cisgiordania, ieri le truppe sono state ancora una volta dispiegate tra i cubi grigi mal intonacati, i cecchini piazzati sui tetti, i carrarmati a bloccare gli incroci. Il filmato emerso dal campo rifugiati palestinese è subito diventato un altro spezzone del film ultranazionalista messo in scena ogni giorno dall’estrema destra al potere. Itamar Ben-Gvir, ministro per la Sicurezza Nazionale e leader dei coloni, ha proclamato: «I militari hanno agito come dovevano, i terroristi devono morire». Mentre l’Autorità palestinese denuncia «l’esecuzione sommaria, è stato commesso un crimine di guerra». La situazione in Cisgiordania diventa sempre più instabile, soprattutto per le violenze dei coloni che ieri hanno dato fuoco a una moschea. La polizia ha arrestato l’estremista israeliano che una ventina di giorni fa era stato ripreso mentre bastonava un’anziana palestinese durante la raccolta delle olive. I ministri degli Esteri di Italia, Francia, Germania e Gran Bretagna chiedono che il governo a Gerusalemme «protegga» la popolazione dei territori occupati dagli assalti dei fanatici: oltre tremila ulivi sono stati danneggiati dagli inizi di ottobre, 112 palestinesi sono stati feriti, una cinquantina di villaggi assaltati. I ministri che rappresentano gli ultrà delle colline continuano a premere per l’annessione della Cisgiordania, nonostante l’opposizione di Donald Trump, il presidente americano. E non hanno rinunciato al progetto di riprendersi tutta la Striscia di Gaza per ricostruire le colonie evacuate nel 2005. Il loro espansionismo ideologico si allarga alla Siria dove i militari hanno arrestato un gruppo di estremisti che aveva attraversato la frontiera per costruire un avamposto: chiamano quest’area con il nome biblico di Bashan e sostengono che secondo la Torah le terre erano state destinate a una delle tribù ebraiche.