Rassegna stampa del 29 novembre 2025
La rassegna di oggi fotografa un panorama mediatico frammentato: da un lato, testate che analizzano con rigore le dinamiche del terrorismo islamista e il contesto internazionale; dall’altro, articoli che semplificano o confondono i livelli di responsabilità, lasciando spazio a narrazioni distorte.
Il tema centrale resta la sicurezza di Israele, declinata tra tensioni regionali – con il fronte nord nuovamente in bilico – e il dibattito interno europeo sugli imam radicali e la radicalizzazione nelle piazze. Accanto a una buona produzione giornalistica capace di verificare fonti, emergono anche letture più caute o ambigue, che rischiano di attenuare il ruolo di Hamas e degli attori che ne sostengono l’agenda.
Noi e i martiri invisibili
Meotti ricostruisce in modo documentato la retorica del martirio e la sua funzione nella propaganda jihadista. Il pezzo spicca per chiarezza e per la capacità di smontare narrazioni vittimiste che occultano le responsabilità dei gruppi terroristici. Una sintesi rigorosa, capace di restituire complessità senza cedere agli slogan.
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di Giulio Meotti
Noi e i martiri invisibili
“La persecuzione dei cristiani è una realtà visibile, documentata e dimenticata. Noi islamici siamo silenti e le diplomazie e i media occidentali sono timorosi a parlarne. Ma in gioco nel loro destino c’è ben più del loro diritto alla vita e a praticare la loro fede”. Parla così al Foglio Hassen Chalghoumi, da vent’anni sotto scorta, non in un plateau nigeriano, ma in una banlieue parigina. A Chalghoumi non perdonano di essere stato “Charlie”, di essere l’imam “amico degli ebrei”, di aver chiesto perdono alla famiglia di Samuel Paty e di aver organizzato manifestazioni per i cristiani. Per questo è uno dei pochi religiosi islamici in occidente condannato a morte dai fondamentalisti a causa della sua difesa della libertà. La persecuzione dei cristiani oggi è una realtà visibile, documentata e troppo spesso dimenticata. In molte regioni del mondo, essere cristiani significa vivere senza libertà, senza sicurezza, talvolta sotto la minaccia diretta di massacri”. Parla così al Foglio Hassen Chalghoumi, che da vent’anni vive sotto scorta. Non in un plateau nigeriano, ma in una banlieue parigina. Non gli perdonano di essere stato “Charlie”, di essere l’imam “amico degli ebrei”, di aver chiesto perdono alla famiglia di Samuel Paty e di aver organizzato manifestazioni per i cristiani perseguitati. Chalghoumi è uno dei pochi religiosi islamici in tutto l’occidente a essere condannato a morte dai fondamentalisti a causa della sua difesa del popolo ebraico e cristiano. Imam nella moschea di Drancy e presidente della Conferenza degli imam di Francia (alternativa ai Fratelli musulmani), Chalghoumi deve indossare un giubbotto antiproiettile. Non dorme mai due notti nello stesso posto in Francia. Sulla sua testa è stata messa una taglia dai terroristi: 150 mila euro. L’accusa più blanda è di essere un “burattino dello stato”. Un’altra è di essere “il capretto del Crif” (Consiglio rappresentativo delle istituzioni ebraiche di Francia). Islamisti hanno preso d’assedio la sua moschea. Sono entrati nella sala di preghiera e l’imam è stato “esfiltrato”, mentre gridavano “aiqtalah aiqtala! Uccidiamolo! Uccidiamolo!”. La sua scorta è Uclat 2, come il premier israeliano in visita in Europa. L’imam viaggia con sei poliziotti e si muove in un veicolo blindato. “In Africa, in Nigeria in particolare, Boko Haram e altri gruppi armati islamisti prendono di mira i villaggi cristiani, le chiese, le scuole” prosegue Chalghoumi. “In Iraq, in Siria, in Afghanistan, in Pakistan, le comunità cristiane vivono nella paura. Il semplice fatto di praticare la propria fede può mettere in pericolo la vita. Queste persecuzioni non si verificano solo in paesi in guerra: sono anche opera di gruppi terroristici che usano la religione per giustificare la barbarie. Le minoranze cristiane diventano così i primi bersagli”. Eppure, se ne parla poco. “Perché alcuni temono rappresaglie, anche qui in Europa, o desiderano evitare di alimentare tensioni religiose. Ma questo silenzio non è accettabile. I cristiani nel mondo hanno diritto alla dignità, alla libertà religiosa e alla sicurezza”. Chalghoumi dieci anni fa organizzò una manifestazione davanti all’ambasciata nigeriana a Parigi per chiedere il rilascio delle duecento studentesse rapite da Boko Haram a Chibok. In quell’occasione, Chalghoumi ha esortato i musulmani in Francia e nel mondo “a mobilitarsi insieme di fronte a questo orrore che riguarda tutta l’Africa e il mondo intero”. Poi ha tenuto una manifestazione contro la Turchia di Erdogan davanti al Parlamento europeo a Bruxelles. “Erdogan manipola migliaia di moschee in Europa, finanzia Hamas, ha lasciato passare duemila francesi per unirsi a Daech e stuprare le yazide e uccidere i cristiani”. Il mondo islamico resta in silenzio di fronte a questi massacri di cristiani. “Bisogna dirlo con onestà: la reazione del mondo musulmano non è abbastanza ferma. Di fronte ai massacri di cristiani in Nigeria o altrove, le condanne sono troppo timide, talvolta quasi assenti. Eppure, i rapporti tra musulmani e cristiani sono antichi e profondi: in Libano, nel mondo arabo, nel Golfo, dove esistono chiese da molto tempo, in particolare negli Emirati Arabi Uniti o in Bahrein. Ma questa consapevolezza non è sufficiente. Il Pakistan, ad esempio, resta un paese in cui i cristiani non sono al sicuro. Ed è una contraddizione profonda con l’islam: appena arrivato a Medina, il Profeta concluse un patto chiaro per proteggere le ‘genti del Libro’, cristiani ed ebrei. Dal canto loro, i cristiani hanno mostrato grande solidarietà quando una moschea è stata attaccata in Nuova Zelanda, in Québec e altrove. Hanno condiviso il lutto con noi. E’ una lezione. Noi, responsabili religiosi e della società civile, dobbiamo parlare di più, denunciare di più, proteggere di più. Il silenzio non è più possibile”. Scarsa la visibilità mediatica anche in occidente. “Esistono diverse ragioni. Anzitutto, una parte dei media o dei politici europei teme di essere accusata di stigmatizzare i musulmani se denuncia le persecuzioni anticristiane. Alcuni preferiscono evitare l’argomento per non offrirlo, a loro avviso, all’estrema destra. Inoltre, a volte c’è mancanza di interesse o di coraggio. Ma le cose cominciano a cambiare: alcuni media in Francia e in Europa – penso a CNews o ad altre piattaforme – osano affrontare più apertamente questi temi. Anche negli Stati Uniti i media iniziano a svegliarsi. Ma in Europa, lo sforzo deve essere molto più importante. Avvicinandosi il Natale, ciò dovrebbe ricordarci che milioni di cristiani pregano nella paura”. Anche le considerazioni geopolitiche influenzano la reazione dei paesi occidentali. “Le reazioni occidentali sono spesso dettate da calcoli geopolitici. In Iraq, ad esempio, la progressiva scomparsa delle comunità cristiane è stata una conseguenza indiretta della guerra americana e del crollo dello stato. Oggi il paese è diviso, sotto l’influenza di milizie e dell’Iran, e il terrorismo prospera. In Africa, alcune potenze preferiscono non denunciare i massacri di cristiani per preservare le proprie relazioni politiche o economiche. Questo silenzio diplomatico ha un costo umano terribile. Fortunatamente, si vedono alcuni cambiamenti: recentemente, il presidente americano ha avuto il coraggio di parlare direttamente delle persecuzioni e delle conseguenze che ciò avrà anche per altre minoranze, non solo cristiane. Proteggere i cristiani del Medio Oriente, dei paesi musulmani o dell’Africa non è solo una causa umanitaria: è una questione di stabilità, un imperativo morale, ma anche nell’interesse degli stessi musulmani. Gli Emirati Arabi Uniti mostrano che un paese musulmano può garantire piena libertà religiosa a tutte le minoranze. È un modello”. Dopo il 7 ottobre si è sentito dire “Dopo la gente del Sabato viene la gente della Domenica”. “Questa frase, ripetuta dagli islamisti, è molto grave”, conclude Chalghoumi. “Dopo gli ebrei, la ‘gente del sabato’, sarebbe il turno dei cristiani, ‘la gente della domenica’”. E lo vediamo in Europa dal 7 ottobre: aumento dell’antisemitismo, ma anche incremento di atti anticristiani, graffiti su chiese o sinagoghe, aggressioni. L’islamismo radicale è un veleno. Ha avvelenato il mondo musulmano per decenni e oggi minaccia anche le società europee. L’Europa deve aprire gli occhi. Questo pericolo non riguarda solo le minoranze religiose: è un pericolo per tutti. Invito gli europei a svegliarsi, a comprendere che combattere l’islamismo radicale è una battaglia per la pace di tutte le religioni, per la libertà e per il nostro futuro comune”.
Il precedente Houthi e la sveglia di Trump all’Europa tirchia
Luttwak offre un’analisi strategica di respiro ampio, ben scritta e ricca di spunti, ma solo indirettamente collegata alla situazione israeliana. Pur non mostrando bias anti-Israele, il pezzo resta periferico rispetto ai temi centrali del conflitto e non entra nel merito della disinformazione o delle responsabilità dei gruppi terroristici.
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di Edward N. Luttwak
Il precedente Houthi e la sveglia di Trump all’Europa tirchia
La decisione di Trump di presentare il suo dettagliato piano di pace in 28 punti per l’Ucraina il 20 novembre, senza alcuna audizione preparatoria al Congresso può solo significare che il presidente voleva scioccare gli alleati europei degli Stati Uniti affinché prendessero finalmente sul serio il conflitto. a pagina 11 di Edward N. Luttwak L a decisione del presidente Trump di presentare il suo dettagliato piano di pace in 28 punti per l’Ucraina il 20 novembre, senza alcuna audizione preparatoria al Congresso – come quelle che hanno preceduto la guerra in Irak del 2003 per preparare l’opinione pubblica interna e dei Paesi alleati – può solo significare che il presidente voleva scioccare gli alleati europei degli Stati Uniti affinché prendessero finalmente sul serio il conflitto. È vero che organizzare audizioni congressuali richiede tempo, ma c’è sempre l’alternativa rapida della «fuga di notizie» ovviamente ben informata, con molti dettagli riservati per affermarne la credibilità. Invece questa volta la presentazione del piano completo in 28 punti è stata un fulmine a ciel sereno, e l’effetto è stato aggravato dalla scadenza estremamente ravvicinata per una risposta che accompagnava l’annuncio: sette giorni per consentire al presidente Volodymyr Zelensky e al suo governo di accettare o meno, anche se uno dei cui requisiti – il ritiro dell’Ucraina dai campi di battaglia attivi dove le sue truppe stanno ancora combattendo per resistere all’avanzata russa – giustificherebbe, a dir poco, lunghe deliberazioni. La prima reazione ufficiale europea è arrivata da Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, che in Sudafrica, durante un incontro del G-20 senza la presenza dei leader americani, cinesi o russi, ha solo peggiorato le cose: ha ricordato agli americani che dall’invasione dell’Ucraina nel febbraio 2022, mille giorni fa, l’Europa aveva donato un totale di 181 miliardi di euro, comprese armi dal prezzo esorbitante, per aiutare l’Ucraina. Ciò equivale a meno dell’1% (0,905% per l’esattezza) dei 19,99 trilioni di euro che costituiscono il PIL annuale complessivo dell’Unione Europea in questo momento. Al contrario, gli Stati Uniti hanno speso un totale di 175 miliardi di dollari per l’Ucraina dall’inizio della guerra, mentre contemporaneamente hanno speso molto per difendere i vicini asiatici della Cina – Corea del Sud, Giappone e Taiwan, e più a sud Filippine e Indonesia, oltre a un gran numero di repubbliche insulari del Pacifico – dalle continue provocazioni, dalle intrusioni di 500 imbarcazioni della milizia di pesca e dalle vere e proprie aggressioni delle forze armate di Pechino in rapida espansione. Gli europei dimenticano costantemente, proprio come gli americani ricordano costantemente, che il mondo non inizia né finisce in Europa, e che la Cina non solo rappresenta una minaccia militare diretta per gli alleati degli Stati Uniti (ci sono frequenti intrusioni navali), ma è anche il ladro opportunista della nostra epoca: non irrompe con la forza nei confini dei Paesi, ma cerca di aprire ogni porta mentre percorre i corridoi del mondo con promesse, regali, prestiti o tangenti, salvo poi improvvisamente presentare il conto geopolitico, come ha fatto in Sri Lanka, dove ha cercato di convertire un prestito per la costruzione di un porto in una base navale cinese, situata in modo da minacciare entrambe le coste indiane. Per comprendere l’improvviso annuncio di Trump, è necessario richiamare un’altra data, il 6 maggio 2025, giorno in cui il presidente, di ritorno dal Golfo Persico, ricevette un briefing completo dalla Marina degli Stati Uniti sulla lotta contro i ribelli sciiti Houthi dello Yemen, che egli prontamente annullò, una volta appresi i fatti essenziali. Finanziati dall’Iran e armati con numerosi droni anti-nave, alcuni missili anti-nave e anche missili balistici inviati da Teheran, gli Houthi si sono rapidamente uniti all’attacco di Hamas contro Israele iniziato il 7 ottobre 2023, colpendo le navi nel Mar Rosso, in arrivo o in partenza dal Canale di Suez, e poi nel Mediterraneo. In teoria gli Houthi avrebbero dovuto attaccare le navi israeliane o quelle dirette in Israele, ma in pratica Israele riceve pochissime merci via mare attraverso il Mar Rosso e ne invia ancora meno: quasi tutte le sue esportazioni consistono in elettronica di fascia alta, prodotti farmaceutici e diamanti tagliati, tutti beni troppo preziosi per essere spediti con mezzi più lenti del trasporto aereo, mentre la sua unica importazione di grandi quantità – il petrolio dal suo alleato Azerbaigian arriva attraverso il Mediterraneo. Così gli Houthi hanno usato droni e missili per attaccare altre navi, danneggiandone parecchie e affondandone alcune. Poiché le compagnie assicurative marittime mondiali hanno prontamente aumentato i propri tassi in modo molto consistente, il traffico marittimo da e verso l’Europa attraverso il Mar Rosso e il Canale di Suez ha subito un forte calo, poiché sempre più navi dirette in Asia o provenienti da essa hanno evitato il pericolo navigando verso sud fino al Capo di Buona Speranza in Sudafrica e poi risalendo lungo la grande curvatura dell’Africa occidentale per raggiungere i porti europei. Il risultato è stato che la più importante delle rotte commerciali, quella che si estende da Shanghai a Rotterdam per oltre 8.600 miglia nautiche attraverso il Mar Rosso e il Canale di Suez, è arrivata a 13.500 miglia nautiche passando dal Capo di Buona Speranza: in media 12 giorni in più a una velocità media di 16 nodi. Per alcuni settori, i costi aggiuntivi sono stati facilmente assorbiti, mentre per altri sono stati gravi. Ma le perdite per i porti mediterranei europei e le città che da essi dipendono, Barcellona, Marsiglia, Genova, Gioia Tauro e altre, non sono state marginali, bensì assolute, perché le merci venivano trasportate a Rotterdam o Anversa e proseguivano verso le città francesi, italiane e spagnole su rotaia, lasciando Barcellona, Marsiglia e Genova prive di traffico da e verso i porti asiatici. Il briefing aveva messo al corrente Trump del fatto che la lotta contro gli Houthi fosse estremamente costosa per la Marina degli Stati Uniti, perché i suoi cacciatorpediniere, costruiti per difendere portaerei multimiliardarie dai missili antinave a lungo raggio russi e cinesi, disponevano solo di «missili standard» da 2,5 milioni di dollari per attaccare i droni economici e i missili antinave rudimentali iraniani, copiati da vecchi modelli cinesi. Per questo Trump chiese delle marine europee e del loro ruolo nella lotta contro gli Houthi. Quando seppe che solo le marine delle potenze mediterranee Francia, Italia e Spagna disponevano di circa 200 navi da combattimento, comprese le portaerei, chiese naturalmente quante di esse stessero combattendo contro gli Houthi. Rimase sinceramente scioccato dalla risposta: quasi nessuna. Tutti e tre i Paesi avevano rifiutato di partecipare alla missione statunitense-britannica dal nome suggestivo «Prosperity Guardian», perché prevedeva alcuni attacchi aerei contro i depositi di armi degli Houthi, ignorando il fatto che gli Houthi non erano il governo dello Yemen, ma piuttosto dei ribelli. Dopo non aver fatto nulla, le marine dell’Unione Europea hanno schierato due piccole navi nel Mar Rosso settentrionale nell’ambito della missione «Aspides», ampiamente pubblicizzata, che ha intercettato un totale di quattro missili balistici Houthi, 18 droni e due droni marini, contro i 400 droni aerei, missili da crociera e missili balistici intercettati dalla Marina degli Stati Uniti, con un costo cento volte superiore. Dopo aver ricevuto queste informazioni, Trump non ha chiesto al suo consigliere per la sicurezza nazionale Marco Rubio, che è anche segretario di Stato, di convocare una riunione per discutere le opzioni degli Stati Uniti: ha semplicemente ordinato alla Marina degli Stati Uniti di abbandonare immediatamente la missione «Prosperity Guardian» contro gli Houthi, presumibilmente usando un linguaggio piuttosto colorito per descrivere l’idiozia di esaurire le scorte di missili navali degli Stati Uniti per salvaguardare il trasporto commerciale dei Paesi mediterranei della NATO, le cui navi da guerra se ne stavano pigramente a galleggiare invece di difendere il loro commercio. Questo ha posto le basi per il nuovo approccio di Trump alla guerra in Ucraina. Gli Stati Uniti avevano appena aiutato Israele a sconfiggere l’Iran e i suoi alleati, il regime di Assad in Siria, Hezbollah e Hamas, con un totale di 3,8 miliardi di dollari di aiuti militari vari all’anno, meno dello 0,5% del bilancio militare statunitense, un singolo attacco aereo con 7 bombardieri Stealth e 30 missili lanciati dal mare, mentre gli israeliani, con un totale di 7,7 milioni di ebrei e drusi soggetti alla leva, hanno mobilitato 700.000 militari in servizio attivo e riservisti allo scoppiare della guerra il 7 ottobre 2023. L’Ucraina, la cui popolazione è diminuita notevolmente a causa dell’emigrazione dall’inizio della guerra nel febbraio 2022, supera ancora i 36 milioni di abitanti, ma il suo esercito non ha mai superato il milione di soldati. Milioni di ucraini in età militare non hanno mai prestato servizio in uniforme, alcuni hanno comprato l’esenzione, altri sono fuggiti in Polonia, Germania o addirittura in Thailandia. Per quanto riguarda i suoi alleati dell’Unione Europea, i cui 450 milioni di abitanti rappresentano il 5,5% della popolazione mondiale, essi contano più di 1,5 milioni di militari in servizio nell’esercito, nella marina e nell’aeronautica che consumano tre pasti al giorno nei loro accampamenti, caserme, basi e navi in mare, un numero che raggiunge 1,9 milioni se si contano anche le forze paramilitari. Ma il numero di quelli inviati in Ucraina è pari a zero. Ecco perché il piano di Trump concede a Putin ciò che gli serve per porre fine a una guerra che ha visto circa 1,1 milioni di russi uccisi o feriti, senza contare i coreani o i mercenari stranieri, e costi economici pari ad almeno mezzo trilione di dollari. Non è bello vedere Washington sostituire il sostegno incondizionato all’Ucraina con un ultimatum per porre fine alla guerra, ma deve davvero concentrarsi sulla minaccia globale cinese. In ogni caso, l’Unione Europea – o, più probabilmente, un patto tra i principali Paesi europei – può assumere facilmente il pieno controllo della situazione, inviando truppe in aiuto all’Ucraina, anche solo per fornire supporto logistico e riparare le attrezzature ben dietro il fronte, con rischi minimi, in modo da liberare gli ucraini per ruoli di combattimento. Ciò cambierebbe immediatamente l’atteggiamento della Casa Bianca e del Congresso degli Stati Uniti. Ma se anche questo fosse troppo, l’intero apparato della presunta forza militare dell’Unione Europea verrebbe smascherato e si dimostrerebbe una mera finzione, così come la sua pretesa di sfidare le priorità della Casa Bianca, plasmate da realtà globali piuttosto che solo europee.
A un anno dal cessate il fuoco è alta tensione tra Israele e Libano
Nel tentativo di mantenere un tono neutrale, l’articolo finisce per appiattire le responsabilità di Hezbollah e suggerire una falsa simmetria tra le parti. Le fonti sono ridotte, il contesto sugli attacchi subiti da Israele è marginale e l’analisi appare svuotata dei dati chiave. Il risultato è una narrazione ambigua, la meno solida e la meno ancorata ai fatti della giornata.
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di Giusy Iorlano
A un anno dal cessate il fuoco è alta tensione tra Israele e Libano
A un anno dal cessate il fuoco è alta tensione tra Israele e Libano al monte Adir, uno dei punti più alti della Galilea, nel nord di Israele, si vede gran parte del confine con il Libano, la cosiddetta blue line, la linea tracciata dalle Nazioni Unite per separare i due Paesi. Il confine in questi giorni è un osservato speciale. Non solo perché in Libano domenica 30 novembre arriverà Papa Leone XIV, ma anche perché nei giorni scorsi è arrivato l’ultimatum del ministro della Difesa israeliano, Israel Katz, ad Hezbollah, il movimento libanese sciita: se non si disarmerà entro l’anno, come chiesto dagli Stati Uniti, Israele interverrà con la forza. Il tutto a un anno dalla firma del cessate il fuoco tra Israele ed Hezbollah. Nonostante l’accordo lungo il confine si percepisce che continuano a rimanere troppe questioni aperte: gli attacchi da parte delle forze di difesa israeliane non si sono mai fermati e l’Idf continua a mantenere cinque postazioni in territorio libanese. Nei giorni scorsi aerei israeliani hanno attaccato «infrastrutture terroristiche di Hezbollah» nel sud del Libano. Nel mirino diverse basi di lancio dove erano conservate armi del gruppo sciita filo-iraniano. Qualche giorno prima l’Idf aveva compiuto un raid mirato alla periferia meridionale di Beirut costato la vita al capo di Stato maggiore de facto di Hezbollah, Haytham Ali Tabatabai. Da parte sua, Hezbollah, pesantemente indebolito, non ha intenzione di disarmarsi. Anzi, sta cercando di ricostituire la propria capacità offensiva con l’Iran che continua a sostenerlo e a finanziarlo.Un alto ufficiale in servizio proprio in una delle basi dell’Idf lungo il confine del nord ha confermato a Milano Finanza che Hezbollah sta aprendo nuove rotte per l’ingresso di armi dall’Iran, da Israele-Libano poiché è stato interrotto il corridoio terrestre attraverso Iraq e Siria.L’aria che si respira è quella di un equilibrio molto precario. «In questo momento la situazione è sotto controllo, l’attenzione è molto alta, ma non sappiamo cosa succederà a breve», conferma l’ufficiale. «Ci aspettiamo una reazione di Hezbollah, che si sta riarmando. La presenza di siti infrastrutturali e di attività di Hezbollah in queste aree lo dimostrano e costituiscono una violazione degli accordi tra Israele e Libano. L’Idf ha già distrutto l’80% dei 200 mila missili iraniani che aveva Hezbollah. Ma non resteremo a guardare, continueremo ad intervenire per evitare che Hezbollah possa riprendere il sud del Libano e riarmarsi. La strategia di Israele è cambiata». Un nuovo conflitto sembra dunque solo questione di tempo.Lo ha raccontato a Milano Finanza in un incontro in un hotel di Tel Aviv un ex alto dirigente del Mossad, l’istituto israeliano per l’intelligence e i servizi speciali, avvertendo del rischio elevato di escalation nell’area, che potrebbe portare anche a una nuova guerra tra Israele e Iran, come quella dello scorso giugno. «La guerra dei dodici giorni non ha annientato il programma nucleare iraniano e presto potremo trovarci di fronte a un altro round», ha detto l’analista dell’intelligence.
Milano ostaggio di antagonisti e pro-pal
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di Prisca Righetti
Milano ostaggio di antagonisti e pro-pal
L’esponente di FdI denuncia l’ennesima manifestazione di antagonisti, no-global, e sindacati di base, che ha bloccato la città tra tafferugli, danneggiamenti, blocco del traffico. E propone l’introduzione di una cauzione nel prossimo Decreto Sicurezza da far saldare a chi organizza questi eventi. Milano ha vissuto un altro venerdì di passione, bloccata da un corteo che ha unito l’immancabile sciopero generale al fanatismo politico in salsa mediorientale. Come denuncia il deputato di Fratelli d’Italia ed ex vice sindaco, Riccardo De Corato, le vie nevralgiche della città – da Porta Venezia a Lambrate – sono state paralizzate dal consueto assembramento di centri sociali, antagonisti e sindacati di base. Tutti rigorosamente schierati in assetto da sommossa pro-Hamas. Un delirio generalizzato, con tanto di disordini, tafferugli e vandalizzazioni. Una situazione che è tornata a ripetersi anche oggi e che l’esponente di FdI denuncia, ricostruendone il caos: «Questa mattina, durante lo sciopero generale annunciato, si è tenuto anche il solito corteo di Centri sociali, antagonisti, no-global, arabi e sindacati di base, tutti rigorosamente pro-Hamas. Che hanno creato notevoli disagi a tutta la circolazione viabilistica delle zone Porta Venezia, Corso Buenos Aires, piazzale Loreto, fino a Lambrate». Un copione che si ripete e a cui De Corato aggiunge in calce la reazione dei milanesi e la sua ricetta da mettere in campo per le “prossime repliche”. E rilancia: «La città non può più sopportare manifestazioni che bloccano la stessa continuamente, sia nei giorni feriali che in quelli festivi. Nel prossimo Decreto Sicurezza che il Governo varerà nei prossimi mesi, chiederò a gran voce che vengano introdotte norme severe per coloro i quali organizzano eventi/manifestazioni in cui si verificano tafferugli, scontri, deturpamenti e danneggiamenti a cose, monumenti, negozi e persone». Chiosando poi: «Gli organizzatori – conclude quindi il deputato di Fratelli d’Italia, vice presidente della Commissione Affari Costituzionali della Camera ed ex vice sindaco delle Giunte di centrodestra milanesi – si dovranno assumere le proprie responsabilità di quanto succede negli eventi per cui richiedono le autorizzazioni».
L`imam di Torino tifa per | terroristi Il vescovo e la Cgil: «Non va espulso»
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di Fabio Amendolara
L`imam di Torino tifa per | terroristi Il vescovo e la Cgil: «Non va espulso»
Un personaggio a cui, già l’8 novembre 2023, le autorità negarono la cittadinanza italiana per «ragioni di sicurezza dello Stato». Addirittura un nutrito gruppo di antagonisti, anche in suo nome, ha dato l’assalto alla redazione della Stampa. Una saldatura tra mondi diversi che non promette niente di buono. Tutti questi signori chiedono la liberazione del quarantasettenne di origini egiziane Mohamed Shahin, nonostante sia ritenuto dai nostri investigatori un soggetto pericoloso, guida della moschea Omar Ibn Khattab di via Saluzzo, nel quartiere San Salvario di Torino, in questo momento trattenuto nel Cpr di Caltanissetta in attesa del rimpatrio nel suo Paese. Una «personalità carismatica […] guida spirituale e politica», con un uditorio ampio, in un momento «di estrema conflittualità internazionale» si legge nelle carte giudiziarie che lo riguardano. Un clima assurdo che ieri ha avuto un inquietante epilogo: come detto, durante la manifestazione indetta dall’organizzazione sindacale Usb, un’ottantina di facinorosi legati al centro sociale antagonista Askatasuna e alle sue ramificazioni universitarie, ha sfondato l’ingresso di un bar adiacente, ha fatto irruzione nella redazione del quotidiano di Torino e ha imbrattato i muri con scritte contro il giornale, i Cpr e a sostegno di Shahin. Quest’ultimo è arrivato nel nostro Paese nel 2004 e conosciuto nel capoluogo piemontese come figura di raccordo tra comunità musulmana e territorio, da anni è vivace animatore delle manifestazioni e dei cortei a sostegno dei diritti dei palestinesi ed è considerato un critico dichiarato del regime del presidente egiziano Abdel Fattah Al Sisi. E nonostante sia stato messo all’indice dalle nostre forze di polizia, il vescovo di Pinerolo, Derio Olivero, si è speso personalmente per difenderlo. In un video su Internet parla di «enorme ingiustizia»: «Mohamed è da 20 anni in Italia, è stato lavoratore, incensurato, ha sempre lavorato per il dialogo». Poi l’affondo: «Mi sembra strano e assurdo che ora rischi di essere espulso per delle opinioni espresse». Olivero è un fervido sostenitore del free speech (islamista): «Non possiamo condannare una persona semplicemente per le opinioni espresse». Chiede di far circolare l’appello, perché «un uomo ha diritto a difendersi e ha diritto a un regolare processo». E avverte: «L’espulsione sarebbe in un Paese in cui lui si oppone a quel regime e dunque finirebbe sicuramente in carcere e penso non solo in carcere». A Torino, intanto, la protesta è già scesa in piazza scandendo «Free Shahin». Le opposizioni urlano allo stop immediato del rimpatrio. Luigi Daniele, professore associato di diritto internazionale all’Università del Molise, paragona la vicenda a quella dell’attivista filopalestinese arrestato a New York nel marzo scorso: «Da oggi anche l’Italia ha il suo Mahmoud Khalil». Il movimento Torino per Ga2a parla di mossa politica «per fermare chi in questi anni si è mobilitato contro il genocidio». E la Cgil sostiene che sia «stato allontanato per essere collocato in qu
ello che» il sindacato ha «più volte denunciato essere un gorgo in cui i diritti si perdono e le vite si annientano». Tutto è cominciato con le parole pronunciate dall’imam il 9 ottobre scorso. Frasi rimbalzate ovunque e riportate nel decreto di espulsione, parole che sembrano giustificare il pogrom di Hamas del 7 ottobre 2023: «Ho detto chiaro e questo lo ribadisco e vorrei dirlo ad alta voce, che noi siamo, io personalmente, sono d’accordo con quello che è successo il 7 ottobre. Noi non siamo qui per essere con la violenza, ma quello che è successo nel 7 ottobre 2023 non è una violazione, non è una violenza». E ancora: «Io sono qui a farci ricordare a tutte le persone che sono ancora con la parola che la resistenza dicono i terroristi di Hamas, i terroristi di Hamas che lo hanno detto molte volte fino a oggi». Dichiarazioni incendiarie che avrebbero prodotto un fascicolo iscritto in Procura a modello 45 su segnalazione della Sezione antiterrorismo della Digos. Che si somma a un procedimento per un blocco stradale di maggio al quale l’imam avrebbe partecipato insieme a un gruppo pro Pal. Il decreto racconta che nello stesso intervento del 9 ottobre avrebbe «legittimato lo sterminio di inermi cittadini israeliani, contestualizzandolo nella sequela di conflitti che dal 1948 a oggi ha segnato i rapporti tra Israele e i paesi arabi confinanti». Il virgolettato successivo è quello in cui Shahin invita i giornalisti a riportare il suo intervento in modo integrale: «Non prendete un pezzo di quello che ho detto per andare a dire ai musulmani (che, ndr) l’imam della moschea di via Saluzzo sostiene Hamas». Poi, però, si sarebbe lasciato di nuovo andare, invitando a «non dimenticare queste 12 guerre che hanno ucciso migliaia, migliaia e migliaia di palestinesi». Poi arriva la notte tra il 23 e il 24 novembre. L’imam viene portato via. Destinazione il Cpr di Caltanissetta. Il decreto di espulsione è firmato dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. Motivazione: «Ragioni di sicurezza dello Stato e prevenzione del terrorismo». Nel provvedimento Shahin è descritto come un uomo «radicalizzato», «portatore di ideologia fondamentalista e antisemita», in contatto con «soggetti noti per la visione violenta dell’Islam». Ma, soprattutto, come vicino alla Fratellanza musulmana, movimento politico-religioso sunnita nato in Egitto nel 1928, che punta a costruire uno Stato ispirato alla legge islamica. Ha governato per circa un anno con Mohamed Morsi dopo le rivolte del 2011. Dal colpo di Stato del 2013 è stato dichiarato organizzazione terroristica dal governo di Al Sisi. Proprio nella sera incriminata, parlando sul palco, ha elogiato l’ex presidente Morsi «eletto dal popolo palestinese e ucciso dai sionisti in carcere», contrapponendolo all’attuale presidente, «sionista, dittatore, criminale». Sono questi giudizi, dicono i suoi avvocati, Gianluca Vitale e Fairus Ahmed Jama, a rendere pericoloso un suo eventuale rientro in Egitto. Nel frattempo, però, un decreto di 16 pagine della Terza sezione penale della Corte d’appello ricostruisce il percorso giudiziario: dalla revoca del permesso di soggiorno alla richiesta d’asilo respinta, fino alla frase che ha acceso la miccia. A carico di Shahin pendono il decreto di espulsione del 19 novembre e il decreto di trattenimento nel Cpr del 24 novembre, convalidato dal giudice di pace. Proprio in quest’ultima udienza Shahin ha formalizzato una domanda di protezione internazionale. Una mossa che, per la Corte, non cambia il punto centrale: la domanda d’asilo, dal punto di vista giuridico, non annulla il provvedimento di espulsione del Viminale, dove è indicato che Shahin avrebbe «intrapreso percorso di radicalizzazione religiosa connotata da spiccata ideologia antisemita» e avrebbe avuto «contatti con soggetti noti per la loro visione fondamentalista e violenta dell’Islam». La Corte segnala alcune relazioni pericolose dell’uomo: «Nel marzo 2012 veniva fermato a Imperia insieme a Giuliano Ibrahim Del Nievo (genovese, ndr), trasferitosi quello stesso anno in Siria per unirsi alle formazioni jihadiste e morto in combattimento nel 2013». Non è finita. Nel 2018, in un’indagine su Elmahdi Halili (condannato nel 2019, con sentenza divenuta irrevocabile nel 2022, per aver partecipato all’organizzazione terroristica dello Stato islamico), «veniva registrata una conversazione in cui questi consigliava ad altro soggetto di rivolgersi a Shanin presso la moschea di Torino». Il cuore del decreto, però, è tutto in una frase: le parole pronunciate da Shahin il 9 ottobre alla manifestazione pro-Palestina «hanno veicolato un messaggio adesivo a quanto accaduto il 7 ottobre 2023». Non basta appellarsi all’articolo 21 della Costituzione (la libertà di manifestare il pensiero), che «ha sempre un limite non derogabile nel mantenimento dell’ordine pubblico». Shahin in udienza nega tutto: contatti, simpatie, legami con ambienti radicali. Dice di aver solo parlato di «impegno sociale e religioso», di aver «ripudiato ogni forma di violenza». La sinistra tutta e la Chiesa cattolica sembrano credere più a lui che al nostro Antiterrorismo.
La Svizzera batte cassa agli attivisti. Dovranno pagare per la Flotilla
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di Tommaso Manni
La Svizzera batte cassa agli attivisti. Dovranno pagare per la Flotilla
La Svizzera prende una posizione netta e presenta letteralmente il conto agli attivisti ProPal che volevano forzare il blocco navale israeliano. Coloro che hanno preso parte alla spedizione della Global Sumud Flotilla dello scorso agosto hanno infatti ricevuto una lettera dal dipartimento federale degli Esteri che chiede il rimborso per le spese di emergenza e i costi sostenuti per la protezione consolare. Sono 20 persone coinvolte, di cui 19 per la missione Waves of freedom e uno per la spedizione Thousand madleens to Gaza. La fattura va da un minimo di 300 a un massimo di 1.000 franchi svizzeri. In media, però, si tratta di circa 500 franchi per ognuno. Ma i costi differiscono in base allo sforzo necessario per ognuno e sono stati calcolati individualmente per tutti i partecipanti, perché la durata della detenzione è stata diversa.
Boldrini, Ascari e Albanese difendono Shahin Ma i giudici svelano i legami con «l`Islam violento»
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di Giulia Sorrentino
Boldrini, Ascari e Albanese difendono Shahin Ma i giudici svelano i legami con «l`Islam violento»
Mohamed Shahin, l’imam di Torino, ritenuto dalle autorità un pericolo per la sicurezza nazionale, ha tra difensori d’eccezione. Oltre alle sigle extraparlamentari, spuntano la relatrice speciale Onu Francesca Albanese, la deputata dem Laura Boldrini e la pentastellata Stefania Ascari. Le ultime due hanno deciso di presentare, in modo disgiunto, due interrogazioni parlamentari al ministro dell’interno Matteo Piantedosi, “colpevole” secondo loro di aver chiesto l’espulsione di un egiziano che aveva inneggiato al 7 ottobre e che appartiene alla Fratellanza Musulmana. E arriva peraltro un’ennesima decisione che conferma la pericolosità di Shahin della moschea di via Saluzzo, per cui si sta mobilitando la sinistra italiana. La Corte d’appello ha infatti convalidato il trattenimento dell’Imam nel CPR (si trova nel centro di rimpatrio di Caltanissetta) e giovedì la commissione territoriale aveva invece respinto la domanda di protezione internazionale presentata dall’imam. Ora a lui resta la possibilità di fare appello, che presenterà lunedì, e intanto deve restare nel cpr perché ritenuto un pericolo per la sicurezza nazionale. Ma nel decreto della Corte si legge quanto il suo profilo sia pericoloso: Shahin è stato sottoposto a trattenimento con decreto del Questore di Torino «in quanto è stato espulso con decreto del Ministro dell’interno essendo emerso all’attenzione sotto il profilo della sicurezza dello Stato per avere intrapreso un percorso di radicalizzazione religiosa connotata da spiccata ideologia antisemita e poiché risultato in contatto con soggetti noti per la loro visione fondamentalista e violenta dell’Islam». Ma non solo, perché nel marzo 2012 Shahin era stato fermato dalla Polizia di Imperia insieme a Giuliano Ibrahim Del Nievo, indagato per reati di terrorismo, trasferitosi quello stesso anno in Siria per unirsi alle formazioni jihadiste e morto in combattimento nel 2013. E nel 2018 nell’ambito di indagini su Halili Elmahdi (arrestato e condannato per reati di apologia di terrorismo) veniva registrata una conversazione in cui lui consigliava ad un’altra persona di rivolgersi a Shanin presso la moschea di Torino. Ascari, Boldrini, Albanese sono apertamente schierati con lui, che le piazze stanno cercando di dipingere come martire. Ma non c’è nulla di pacifico in chi ha quel tipo di profilo o dice frasi come «sono d’accordo con quello che è successo il 7 ottobre, quello che è successo il 7 ottobre 2023 non è una violenza». Ma no, la Albanese sembra non vedere tutto ciò: «Da quello che emerge mi sembra una caduta spaventosa del diritto. Continuerò a seguire questo caso, perché è un tormento, mi sembra assurdo quello che gli sta capitando». Ah, quindi la caduta del diritto sta nel rimpatriare un fan di Hamas, non nel sostegno al 7 ottobre. Immancabile il commento di Ilaria Salis, che lo definisce addirittura «una figura stimata da chiunque lo abbia conosciuto, anche da persone con orientamenti politici molto diversi. Uomo di dialogo e di pace, da sempre impegnato nella difesa dei diritti umani». Secondo lei, quindi «questo provvedimento non ha nulla a che vedere con la sicurezza, ma è un attacco politico, dai tratti apertamente razzisti e islamofobi, con cui un governo sempre più autoritario tenta di punire e intimidire il movimento per la Palestina». Difficile riuscire a comprendere come i palestinesi possano trarre giovamento da chi ha iniziato un conflitto durato due anni e iniziato dai terroristi di Hamas. Proprio loro che sono paladine dei diritti, soprattutto delle donne, sanno come il sesso femminile viene considerato dal fondamentalismo islamico? E come vengono maltrattati gli omosessuali? In molte versioni estremiste del contratto matrimoniale (nikah), la donna è vista come possesso dell’uomo, specialmente in relazione alla sessualità. «L’omosessualità è una punizione di Dio ed è più grave dell’adulterio», frase pronunciata in numerosissime lezioni religiose estremiste. È presentata come «perversione» che minaccia l’ordine sociale e il riconoscimento delle coppie gay o dei diritti Lgbt è visto come un attacco diretto all’Islam politico. Questo, chi sale su carro del pride e scende in piazza gridando al patriarcato, lo sa?
L’Islam è la variabile che può minare la pace
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di Lodovico Festa
L’Islam è la variabile che può minare la pace
È comprensibile essere inquieti di fronte alla difficoltà di trovare un accordo di pace in Ucraina o quando si legge di Pechino che minaccia d’invasione Taiwan. Ma nell’attuale complicata situazione internazionale non ci si deve far guidare da paura e da slogan ma dall’analisi della realtà: pur condannando senza riserve l’aggressione russa all’Ucraina, non si può scambiare per un Adolf Hitler, paganamente diabolico, interprete del revanchismo tedesco post 1914, un Vladimir Putin tardo erede del classico imperialismo zarista. Né Xi Jinping pur interprete di un disegno cinese di egemonia globale, è un Hirohito pronto a conquistare l’Asia con la forza. La delusione per non essere riusciti a costruire un kantiano ordine liberale globale dopo la fine dell’Unione sovietica, non deve farci perdere la testa. È ancora possibile e dunque necessario definire tra le grandi potenze un accordo tipo quello del trattato di Vestfalia, del congresso di Vienna, della Conferenza di Yalta, garanti di decenni di pace sostanziale per l’umanità. Dentro un realistico orizzonte di stabilizzazione del mondo nel quale Occidente e democrazie come l’India, il Giappone, la Sud Corea dovranno coordinarsi per confrontarsi con il minaccioso CRINK (China, Russia, Iran, North Korea), è possibile pensare a un consolidamento della pace. C’è però una variabile. Un giorno c’è un attentato in Germania, un altro in Francia, poi a Washington, si rapiscono trecento studenti da un collegio cristiano in Nigeria, l’Isis (lo Stato Islamico che credevamo scomparso) cacciati i militari francesi sconfigge in Mali anche i tosti mercenari ex Wagner, i talebani sconfitti i sovietici e in qualche modo gli americani accendono focolai di guerriglia in Pakistan. L’espansione globale dell’Islam dal 610 d.C. in poi ha radicato una religione che non separa politica e fede, che considera la jihad strumento fondamentale di diffusione del credo di Maometto in un mondo diviso tra “terra dell’Islam” e “terra della guerra”, che prevede la sottomissione della donna all’uomo, della famiglia alla comunità, della comunità alle autorità insieme religiose e politiche con, a lungo, alla testa un Califfo, insieme Papa e imperatore. Le sconfitte militari del Novecento misero in stand by il programma politico dell’Islam e così fece la divisione del mondo tra liberaldemocrazie e alleati di Mosca. La fine dell’Urss ha riaperto i giochi. CRISI SOVIETICA E non è un caso che tra Iran e talebani la nuova jihad sia stata la principale causa della crisi sovietica, così come l’attentato alle Torri gemelle di Manhattan sia l’avvenimento che inizia a mettere in crisi l’internazionalismo liberale degli anni Novanta, così come siano le stragi del 7 ottobre 2023 a bloccare (speriamo momentaneamente) processi come l’allargamento dei Patti di Abramo e il corridoio economico India-Medio oriente-Mediterraneo, pilastri di una nuova stabilizzazione internazionale. È chiaro ormai come sia il jihadismo a provocare le scintille che di volta in volta incendiano il pianeta anche perché non esprime tanto una politica di potenza (di cui spesso peraltro è strumento) quanto una tendenza identitaria islamo-universalista, presente con l’immigrazione anche in Occidente, intrinsecamente eversiva. Questa è la realtà e se la si esamina con serietà si vedono anche gli antidoti a cominciare dall’eroica (non priva di asprezze da evitare ma che non giustificano l’odioso antisemitismo pro-Pal) azione militare israeliana svolta su molteplici fronti da Gaza a Teheran dal Sud Libano al Nord Yemen alla cacciata del regime degli Assad a Damasco. E un contributo importante viene poi dai processi di modernizzazione della penisola arabica e dal riformismo dell’Islam avviato in Marocco, Indonesia e nell’università al-Azhar del Cairo. Ecco perché combinando fermezza a umanità anche nei confronti della sfida che porta all’Occidente l’immigrazione islamica, si può costruire una via di uscita da quello che è comunque oggi un possibile serio rischio per la pace globale.
Intervista a Yossi Amrani: «In Europa è tornato l’antisemitismo. Ma fra Stato ebraico e Italia c’è intesa»
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di Maurizio Stefanini
Intervista a Yossi Amrani: «In Europa è tornato l’antisemitismo. Ma fra Stato ebraico e Italia c’è intesa»
Diplomatico di carriera e già con incarichi nell’ambasciata a Washington, console a San Francisco, ambasciatore in Croazia, Nord Macedonia, Ungheria e Grecia e di nuovo console a New York, dopo essere stato direttore politico per gli Affari Europei del Ministero degli Esteri israeliano, Yossi Amrani ne è ora direttore degli Affari Politici e Strategici a livello generale. «Dopo il 7 ottobre, abbiamo assistito a una certa tensione nei nostri rapporti con alcuni Paesi europei. L’Europa è un partner importante di Israele, e Israele dovrebbe far parte del concetto di sicurezza europeo. Invece, riteniamo di essere stati giudicati troppo duramente da alcuni Paesi europei. Certe espressioni dell’opinione pubblica europea sono state al limite dell’anti-israelismo, se non di una sorta di moderno antisemitismo, anche se personalmente non uso la parola antisemitismo molto facilmente. Ciononostante, crediamo che l’Europa resti un partner». Gran parte di questa polemica viene collegata a quel che è successo a Ga2a. «Abbiamo dovuto combattere a Gaza una guerra, nelle peggiori condizioni possibili. Ogni nazione per la propria sicurezza deve prevenire e combattere il terrorismo. Ma di solito si tratta di un lupo solitario o di un terrorista solitario. Qua invece un’organizzazione terroristica ha preso il controllo di un pezzo di terra e ha creato un’entità terroristica, radicata nella popolazione in un’area densamente popolata. E poi, a Ga2a avevamo 250 ostaggi. Quelli di Hamas sono semplicemente entrati in Israele di sorpresa e hanno ucciso persone. Quale poteva essere la reazione? Ora siamo fiduciosi che col il piano in 20 punti di Trump ci sia per il Medio Oriente l’inizio di una nuova era di stabilità, cooperazione e risoluzione dei conflitti». Il futuro di Ga2a? Dobbiamo tenere a mente le minacce strategiche che il Medio Oriente sta affrontando, e che sono collegate. Una minaccia è ciò che chiamiamo Islam politico, o radicalismo islamico, o Fratellanza Islamica. L’altra è quella che l’Iran sta cercando di sviluppare attraverso i suoi piani nucleari, i suoi missili balistici e le sue organizzazioni terroristiche. L’Iran ha creato un anello di fuoco attorno a Israele, con Hamas a sud, con Hezbollah a nord, e il ruolo in passato nella Siria di Assad. Abbiamo cambiato quelle realtà. Il nostro obiettivo è garantire che non si ripetano violenze e minacce militari provenienti da Ga2a. Ma bisognerà anche cambiare lo spirito e l’atmosfera a Ga2a. La deradicalizzazione sarà raggiunta attraverso la ricostruzione e l’istruzione. Un futuro diverso per Ga2a è un bene per Israele, per i palestinesi e per la regione». Il governo ha bloccato la legge di annessione della Cisgiordania e ha riconosciuto che c’è un problema con i coloni. «La questione della sovranità non può essere decisa in Parlamento, ma solo attraverso negoziati. È stato un dito nell’occhio del governo, più che di una provocazione alla comunità internazionale. Sui coloni, sappiamo che dobbiamo affrontare, e anche abbastanza rapidamente, alcuni elementi che creano sfide inutili per le nostre forze di sicurezza, facendo provocazioni contro i soldati, i palestinesi e contro le comunità cristiane». La relazione con l’Italia? «Abbiamo una buona cooperazione con il governo italiano. Il ministro degli Esteri Antonio Tajani è un partner stretto del ministro degli Esteri Gideon Sa’ar. Si confrontano abbastanza frequentemente, direttamente, e noi possiamo risolvere ogni malinteso attraverso questi canali». Qual è la lezione del 7 ottobre? «È stato un trauma per la società israeliana per i decenni a venire, perché Israele è stato costruito come un rifugio sicuro per il popolo ebraico. Il 7 ottobre Israele è stato invaso, le case sono state invase e le persone sono state massacrate brutalmente. N
essuno può nascondere il tipo di fallimento che abbiamo vissuto quel giorno. Ne trarremo le lezioni necessarie, e la lezione principale è capire che, per quanto importanti siano i rapporti di intelligence, dobbiamo essere sempre all’erta e non dare mai nulla per scontato».
Boldrini bloccata in Israele. Tajani la salva, lei lo accusa
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di Tommaso Montesano
Boldrini bloccata in Israele. Tajani la salva, lei lo accusa
La Farnesina ha messo in moto l’ambasciata d’Italia in Israele. A cascata, la nostra rappresentanza diplomatica ha attivato lo Shin Bet, il servizio di sicurezza interno dello Stato ebraico, e il comando militare Cogat, responsabile delle operazioni nei territori palestinesi. Obiettivo: garantire la sicurezza dei sei parlamentari italiani del Pd – Laura Boldrini, Andrea Orlando, Mauro Berruto, Ouidad Bakkali, Sara Ferrari e Valentina Ghio – rimasti bloccati nel corso di un’operazione antiterrorismo israeliana in Cisgiordania, sulla strada che da Gerico li stava riportando a Gerusalemme. Per poter mettere in sicurezza la delegazione dem, in missione in Medio Oriente dal 23 novembre a ieri, il console generale a Gerusalemme è dovuto intervenire sul posto con due vetture blindate, accompagnato dalla scorta e da un ufficiale dello Stato ebraico. Non solo: la Farnesina è riuscita anche, dopo essersi messa in contatto con il comando dell’unità israeliana responsabile dell’attività nell’area, a far sospendere l’operazione per consentire l’assistenza ai parlamentari. Missione compiuta: i sei rappresentanti del partito di Elly Schlein sono poi tornati in albergo, a Gerusalemme. Da lì ieri mattina hanno preso la via per il ritorno in Italia, come previsto. Solo che prima di farlo si sono preoccupati di smentire, nonostante l’aiuto ricevuto nel corso dell’operazione israeliana ci sono state esplosioni, circostanza che ha spinto i sei parlamentari italiani a lasciare la loro vettura “van” per cercare riparo nell’abitazione di una famiglia palestinese – la ricostruzione del nostro ministero degli Esteri. «Non c’è stato bisogno di alcun intervento straordinario, non comprendiamo perché la Farnesina stia facendo circolare una diversa ricostruzione dei fatti», hanno messo a verbale in una nota gli esponenti dem. Il gruppo aveva iniziato la sua missione dai quartieri palestinesi di Gerusalemme est. Da lì si era poi spostato verso altri luoghi dei territori per documentare «la minaccia di espropriazioni e demolizioni» da parte dei coloni con la complicità, naturalmente, del governo israeliano: «In Cisgiordania è in corso un’azione violenta di sopraffazione dei palestinesi a ogni livello» (parole di Boldrini). Tra le tappe, i centri di Masafer Yatta, Gerico e Ramallah. Giovedì sera, ha raccontato l’ex presidente di Montecitorio a Fanpage, «eravamo nel villaggio di Hizma, dove abbiamo fatto il cambio di pulmino. A un certo punto abbiamo sentito fortissimi botti e abbiamo visto che l’Idf (le forze militari d’Israele, ndr) lanciava queste bombe stordenti verso le macchine, le macchine che erano in fila con noi al checkpoint». Un paio d’ore dopo, a sentire Boldrini, i parlamentari del Pd sarebbero rimontati sul loro pulmino per poi fare ritorno a Gerusalemme. «Non è vero che siamo stati presi, messi sui blindati con qualcuno del Cogat che ci è venuto a prelevare. Non siamo stati prelevati da nessuno. Ce ne siamo tornati via con nostro pulmino», ha detto la parlamentare del Pd. È vero che c’è stato un contatto con il console italiano, ma solo per informarlo «di quello che stava accadendo». Parole che hanno irritato sia la Farnesina, che era stata subissata di richieste da prima della partenza per il Medio Oriente, sia il nostro personale in Israele. Fonti diplomatiche a Gerusalemme hanno espresso «dispiacere» per i toni, definiti «sprezzanti», usati da Boldrini e dai suoi colleghi parlamentari. Secondo quanto risulta a Libero, i parlamentari dem, comprensibilmente in preda alla paura per essersi trovati in mezzo a un’operazione militare, avrebbero chiamato il ministero degli Esteri per chiedere aiuto. Farnesina che sarebbe stata raggiunta telefonicamente, con la richiesta di intervenire presso gli israeliani, anche dallo stesso Pd da Roma. A quel punto, come sarebbe accaduto per ogni connazionale e come del resto è sempre successo, la macchina del ministero degli Esteri si è messa in azione riuscendo anche a intercedere presso l’unità militare dello Stato ebraico responsabile dell’attività antiterrorismo. A Boldrini che su Fanpage si è rammaricata della «nota che dice tutt’altro», la Farnesina ha ricordato che il ministero «ha doverosamente informato l’opinione pubblica di un’operazione di assistenza che avremmo finalizzato per ogni cittadino italiano». Da qui lo stupore, eufemismo, per la «contro-narrazione» dem.
Fratelli d’Italia e i cortei pro-Hamas: «Gli organizzatori paghino i danni»
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di Redazione
Fratelli d’Italia e i cortei pro-Hamas: «Gli organizzatori paghino i danni»
Fratelli d’Italia chiederà che nelle prossime misure sulla sicurezza sia introdotto l’obbligo, per gli organizzatori di manifestazioni, di pagare per i danni prodotti. «Questa mattina (ieri, ndr), durante lo sciopero generale annunciato, si è tenuto anche il solito corteo di Centri Sociali, antagonisti, no-global, arabi e sindacati di base Usb & C, tutti rigorosamente pro-Hamas, che hanno creato notevoli disagi a tutta la circolazione viabilistica delle zone Porta Venezia, Corso Buenos Aires, piazzale Loreto fino a Lambrate», ha denunciato Riccardo De Corato, deputato di Fratelli d’Italia. «La città non può più sopportare manifestazioni che bloccano la stessa continuamente, sia nei giorni feriali che in quelli festivi. Nel prossimo Decreto Sicurezza che il governo varerà nei prossimi mesi, chiederò a gran voce vengano introdotte norme severe per coloro i quali organizzano eventi/manifestazioni in cui si verificano tafferugli, scontri, deturpamenti e danneggiamenti a cose, monumenti, negozi e persone. Gli organizzatori si dovranno assumere le proprie responsabilità di quanto succede negli eventi per cui richiedono le autorizzazioni».
Bocciato il ricorso dell’imam «d’accordo» con il 7 ottobre
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di Fausto Carioti
Bocciato il ricorso dell’imam «d’accordo» con il 7 ottobre
È rarissimo che sinistra e magistrati si trovino su fronti opposti, tanto più se al centro della contesa c’è l’espulsione di un immigrato decisa dal governo. Succede questa volta ed è la conferma di quanto sia grave la posizione di Mohamed Shahin, nato in Egitto nel 1978. Non un immigrato qualunque, ma l’imam della moschea di via Saluzzo a Torino. Che poche settimane fa, in una manifestazione filopalestinese, ha inneggiato alla strage dei civili israeliani compiuta da Hamas, dichiarandosi «personalmente d’accordo con quello che è successo il 7 ottobre», e per questo ha ricevuto un decreto di espulsione da parte del ministero dell’Interno. In sua difesa sono accorsi esponenti di Pd, M5S, Avs, Anpi e Cgil e il vescovo di Pinerolo, che si è rivolto a Sergio Mattarella. Solidarietà inutile, almeno sinora: ieri la Corte d’appello di Torino ha convalidato il trattenimento dell’egiziano nel Centro di trattenimento per il rimpatrio di Caltanissetta, da dove dovrebbe essere riportato in patria. Nel decreto i magistrati piemontesi spiegano quale deve essere il confine tra la libertà di parola, tutelata dall’articolo 21 della Costituzione, cui si appella chi difende le parole incendiarie di Shahin, e la difesa dell’ordine pubblico. Ricordano che nel 2012 l’uomo era stato fermato dalla polizia di Imperia insieme a un indagato per terrorismo, il quale si era poi trasferito in Siria per unirsi alle milizie jihadiste ed era morto in combattimento nel 2013, e che il nome dello stesso imam torinese appare nelle conversazioni di un indagato per apologia di terrorismo. Al momento è sottoposto a due procedimenti penali. Nel maggio di quest’anno, durante una protesta pro-Pal, si è reso responsabile di blocco stradale. E il 9 ottobre, parlando alla manifestazione per l’anniversario della strage, ha detto: «Io personalmente sono d’accordo con quello che è successo il 7 ottobre (…) Quello che è successo il 7 ottobre 2023 non è una violazione, non è una violenza», bensì «resistenza». «Ciò che rileva», spiegano i magistrati commentando queste frasi, «è la possibilità che le parole e la loro diffusione creino disordine e instabilità». E «certamente la personalità carismatica» dell’imam, «guida spirituale e politica, in un legittimo contesto di piazza di una città metropolitana e, dunque, aperto a un uditorio variegato, in un momento storico di estrema conflittualità internazionale», e le idee che ha espresso, rendono «sussistente» questo pericolo. Perciò il suo ricorso contro il trattenimento nel Cpr di Caltanissetta è stato respinto. È stato trasferito lì in seguito al decreto di espulsione firmato da Matteo Piantedosi il 19 novembre, motivato col fatto che l’egiziano ha «un ruolo di rilievo in ambienti dell’islam radicale» ed è «messaggero di un’ideologia fondamentalista e anti-semita», nonché «responsabile di comportamenti che costituiscono una minaccia concreta, attuale e grave per la sicurezza dello Stato». Il 24 novembre, lo stesso giorno in cui gli è stato notificato il foglio d’espulsione, Shahin, per bloccare la procedura di rimpatrio, ha presentato domanda di protezione internazionale, che il 27 novembre è stata respinta dalla commissione territoriale di Siracusa. Facile prevedere che presenterà ricorso: la vicenda è lontana dalla conclusione. La sinistra, intanto, si è schierata al suo fianco. Laura Boldrini e altri parlamentari di Pd, M5S e Avs hanno presentato un’interrogazione a Piantedosi, chiedendogli «l’immediata sospensione del provvedimento» e sostenendo che l’imam, «se rimpatriato, rischia arresto e torture nelle stesse carceri dove fu ucciso Giulio Regeni». Il Pd piemontese ritiene che l’episodio del 9 ottobre, «da solo, non può giustificare un provvedimento di espulsione». A loro risponde da destra Fdi. La deputata Sara Kelany, responsabile immigrazione del partito, denuncia «l’ennesimo corto circuito della sinistra: nei salotti televisivi chiedono “più sicurezza”, salvo poi opporsi con manifestazioni e interrogazioni parlamentari all’espulsione di un soggetto che ha definito il massacro compiuto dai terroristi di Hamas il 7 ottobre 2023 un “atto di resistenza”». Per Augusta Montaruli, vicecapogruppo alla Camera, «il fatto che l’imam abbia svolto iniziative con personaggi di partiti e associazioni non giustifica il primo e aggrava la posizione di questi ultimi». Alla mobilitazione per l’imam partecipa anche il vescovo di Pinerolo, Derio Olivero, presidente della Commissione della Cei per l’ecumenismo. Assieme ad altri religiosi, ha scritto a Mattarella una lettera in cui auspica che l’islamico egiziano «possa essere rilasciato, che gli possa essere concesso di riprendere la sua permanenza in Italia e così la sua opera di dialogo e di solidarietà». Nessun segnale è giunto dal Quirinale.
I compagni pro-Pal assaltano i giornali
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di Andrea Muzzolon
I compagni pro-Pal assaltano i giornali
«Giornalista terrorista sei il primo della lista». È questo il grido con cui ottanta manifestanti dei centri sociali hanno assaltato la redazione torinese de La Stampa. Detto che la fantasia non abbonda sulle labbra dei violenti, le immagini della redazione sottosopra con la brigata pro-Pal che devasta i corridoi – sono vergognose. Se infatti fra i sindacati rossi ogni scusa è buona per scioperare, per le frange antagoniste che animano i cortei ogni manifestazione è altrettanto buona per imbrattare e sfasciare la qualunque. Questa volta, nel mirino sono finiti i giornali. Seicento persone aderenti a collettivi e centri sociali – quelli tanto coccolati dall’amministrazione dem si sono dati appuntamento sotto la sede dei quotidiani del gruppo Gedi, esponendo bandiere della Palestina e striscioni di solidarietà a Mohamed Shahin, l’imam della moschea di San Salvario a cui è stato revocato il permesso di soggiorno dall’Italia e per cui è stato disposto il trasferimento immediato in un Cpr per il rimpatrio verso l’Egitto. Dopo poco la situazione è degenerata: i portoni sono stati sfondati ed è iniziata l’irruzione nella redazione del quotidiano. Un attacco senza precedenti, reso ancora più vile perché, come sottolineato dal Comitato di Redazione de La Stampa, avvenuto «nel giorno dello sciopero nazionale dei giornalisti per il rinnovo del contratto di lavoro e a difesa della qualità dell’informazione democratica, libera e plurale». Sedie ribaltate, scrivanie sfasciate, giornali stracciati e gettati a terra insieme a libri e appunti dei giornalisti. Non solo: le pareti della redazione sono state imbrattate con insulti e scritte in sostegno dell’imam. Da «Free Shahin» dipinto sulla colonna al centro della stanza, fino a «Stampa complice di genocidio» scritto sulla porta di ingresso. Minacce di ogni tipo a cui i colleghi de La Stampa non hanno intenzione di piegarsi: «Non abbiamo paura. Siamo giornalisti. E continueremo a fare il nostro lavoro senza farci intimidire», ha concluso il Cdr nel suo comunicato. Un attacco – come si legge sulle pagine social di Cua, Ksa e altre sigle antagoniste di estrema sinistra – organizzato preventivamente e nei minimi dettagli per «sanzionare la prezzolata propaganda sionista». Il tutto, mentre la Fnsi, condannando l’accaduto, parla di «azioni fasciste» che «riportano indietro le lancette del tempo quando ogni pensiero non allineato al governante di turno veniva punito con l’olio di ricino e le bastonate». Immediata la reazione di tutto il mondo politico che ha espresso vicinanza al quotidiano. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha fatto pervenire al direttore Andrea Malaguti e alla redazione la sua solidarietà, condannando le violenze. Anche il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, informato degli sviluppi relativi all’assalto dei pro-Pal al giornale, ha sentito Malaguti. Il titolare del Viminale ha definito l’incursione «gravissima e del tutto inaccettabile», assicurando che è stata avviata «una verifica approfondita su come si sono svolti i fatti». Anche da Palazzo Chigi è stata diffusa una nota. Il premier Meloni, parlando al telefono con il direttore responsabile, ha espresso la sua solidarietà augurandosi «una condanna unanime e ha ribadito che la libertà di stampa e informazione è un bene prezioso da difendere e tutelare ogni giorno». Al momento risulterebbero essere già stati identificati 34 esponenti del mondo antagonista torinese che fanno riferimento al centro sociale Askatasuana e alle sue diramazioni. Proprio quel mondo che la sinistra locale non smette di tutelare in ogni modo possibile. Basti guardare al percorso avviato dal sindaco Stefano Lo Russo per regolarizzare proprio Askatasuna, quelli che – oltre a picchiare i poliziotti ad ogni occasione buona – da 30 anni occupano il palazzo in corso Regina Margherita 47. Stabile che gli verrà regalato dall’amministrazione. Lo Russo ha comunque parlato di «atti inaccettabili contro un simbolo della libera informazione, che nulla hanno a che vedere con il diritto a manifestare». Il primo cittadino si è quindi augurato «che i colpevoli vengano al più presto individuati e perseguiti». Insomma, quello che dovremmo augurarci tutti anche per coloro che occupano illegalmente e assaltano le forze dell’ordine. Ieri poi, anche nel resto della Penisolasi si è dovuto fare i conti con la levata di scudi dell’Usb. Dal comparto sanitario fino a quello scolastico, non sono mancati i disagi, specie per quanto riguarda la mobilità. E presto si replicherà con nuove agitazioni. Il vicepremier Matteo Salvini ha annunciato in una nota che «sono allo studio una serie di soluzioni per conciliare in modo più ragionevole le esigenze di chi manifesta con il diritto alla mobilità degli italiani». L’obiettivo, ha chiarito il ministro dei Trasporti, «è evitare che il Paese venga sistematicamente paralizzato, soprattutto nei fine settimana». Perché si sa, il venerdì si sciopera meglio…
Intervista a Walter Zenga: «Sono meloniano, ma anche pro Palestina»
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di Hoara Borselli
Intervista a Walter Zenga: «Sono meloniano, ma anche pro Palestina»
Lo chiamavano l’Uomo Ragno. È stato uno dei portieri più forti di tutti i tempi. Il suo nome è Walter Zenga, oggi ha 65 anni. I colori dell’Inter li porta nel Dna. Quando è nato, la Grande Inter di Herrera e Mazzola era agli albori. Ha difeso la porta della nazionale italiana per 58 volte, dal 1986 al 1992, prendendo solo 21 gol. Ha partecipato a due mondiali e a un campionato europeo. Parla al Giornale a 360 gradi: dallo sport fino alla politica nazionale e internazionale: «Sono molto amico di La Russa, mi portò a Roma per presentarmi Fini». a pagina 15 L o chiamavano l’Uomo Ragno. È stato uno dei portieri più forti di tutti i tempi. Il suo nome è Walter Zenga, oggi ha 65 anni. I colori dell’Inter li porta nel Dna. Quando è nato, la Grande Inter di Herrera e Mazzola era agli albori. Ha difeso la porta della nazionale italiana per 58 volte, dal 1986 al 1992, prendendo solo 21 gol. Ha partecipato a due mondiali e un campionato europeo. Ci conosciamo da moltissimi anni. Da sempre ci diamo del tu. Walter, sei stato mai tentato dalla politica? «Io sono molto amico di La Russa. Un giorno di tanti anni fa Ignazio mi chiamò e mi disse: “Andiamo a Roma che devo presentarti a un mio amico importante”. Gli diedi retta. Mi portò in un ristorante vicino a Montecitorio, dopo dieci minuti si presentò Fini». E che successe? «Volevano che entrassi in politica. Se non ricordo male mi proposero di fare l’assessore allo Sport a Milano». E non hai accettato? «Il giorno dopo mi arrivò una proposta per andare a fare l’allenatore in Romania. Pensai che era un lavoro più adatto a me…». Oggi in politica sei più vicino alla Meloni o alla Schlein? «Ma alla Meloni, senza nessun dubbio. È e resterà lei il mio punto di riferimento. Anche se…». Anche se? «C’è un tema su cui dissento». Quale? «Sai che c’è un mio post, del 2012, nel quale parlo della Palestina e dico che la politica israeliana verso i palestinesi è di genocidio? Pensa: 13 anni fa…». Sei pro Pal? «Sì, invece il governo Meloni sta con Israele. Però io resto dalla parte del governo e della Meloni». Torniamo indietro di mezzo secolo. Se tu dovessi descrivere con una sola parola la tua infanzia? «Direi: apprendimento. L’infanzia è la stagione nella quale ho imparato di più». Famiglia? «Un disastro». Perché? «Io e mio fratello abbiamo vissuto con la nonna. I miei genitori si erano separati. Uno di qua, uno di là». Quando? «Avevo otto anni e mio fratello due». Di tua mamma che ricordi hai? «La andavo a trovare in ufficio. Qualche volta anche a casa sua, dove viveva con il suo nuovo compagno». Tuo padre? «Faceva il rappresentante di commercio, sempre in giro. Ho avuto un rapporto molto conflittuale con lui». Ti è mancato il calore dei genitori? «Sì. Però mi ha permesso di assumermi le responsabilità molto presto. Sono cresciuto in fretta». Come vivevi da ragazzino? «Vivevamo con la pensione di mia nonna. Dovevamo barcamenarci. Certe volte la nonna mandava me a fare la spesa e io dicevo al bancone del mercato: “Poi passa la nonna a pagare”…». Quando è morta la nonna? «Ero grande. Lei era ricoverata. Demenza senile. Non mi riconosceva più. E proprio in occasione della sua morte ebbi un litigio molto forte con papà». Perché? «Era domenica. La domenica del mio esordio in Serie A. Si giocava col Varese. Ero in ritiro. Mio padre non mi disse che la nonna era morta. Non glielo perdonai». Lo fece per proteggerti, forse… «Sì certo. Ma sul momento non lo capii. Poi col tempo mi sono reso conto che era così». Ci sono stati molti altri scontri con tuo padre? «Sì». Tu hai perdonato molte cose a tuo padre? «Si perdona ma non si dimentica». Da ragazzino giocavi a pallone nel cortile? «Eh, certo. Prima nel cortile poi all’oratorio». Quando ti sei accorto che il tuo ruolo era il portiere? «All’oratorio, in viale Ungheria, a Milano. C’era un campo in terra battuta. Mio padre, per il mio compleanno, mi regalò una divisa da portiere, tutta nera, e un pallone di cuoio. Devi sapere che a quel tempo quando si giocava a pallone tra ragazzi i problemi erano due: non c’era mai un pallone di cuoio decente e nessuno voleva fare il portiere. Beh, io avevo un pallone e volevo fare il portiere. Capisci? Un bel vantaggio sugli altri ragazzini…». Quando hai capito di essere un campione? «Non so. Io ho sempre avuto la tendenza a sfidare e a non pormi limiti». Prima sfida? «A dieci anni giocavo con quelli di tredici. E paravo bene. La seconda sfida è l’Inter». Come sei entrato all’Inter? «Mi hanno visto all’oratorio, gli sono piaciuto e mi hanno chiamato». Eri contento? «Certo. Salivo sul tram con la borsa ufficiale dell’Inter: che orgoglio!». Molta gavetta prima di diventare titolare? «Sì. Come tutti. All’inizio facevo il raccattapalle. Ed ero felice di farlo. Perché vedevo la partita gratis e in più mi davano anche mille lire». Chi c’era in porta nell’Inter? «C’era Bordon». Dopo il ruolo di raccattapalle? «Prima sono andato in prestito. Salerno, Savona, Sambenedettese. Poi ho fatto il militare. Allora era obbligatorio. Caserma a Bologna, ma io giocavo nel Savona. Il giovedì sera avevo il permesso del colonnello, prendevo il treno, cinque o sei ore per arrivare a Savona. Il lunedì sera di nuovo in branda in caserma…». Successi con l’Inter? «Il premio come miglior portiere del mondo. L’ho preso tre volte. Poi uno scudetto, due coppe Uefa, 58 partite in Nazionale». Guadagnavi tanti soldi? «Sì». Non sei morbido di carattere. Ci sono cose che non rifaresti? «No. Nella vita non sono mai sceso a compromessi. E non ho mai messo la maschera. Se ho sbagliato qualcosa l’ho fatto sulla base di quelle che erano le decisioni che prendevo. Troppo facile dire: “non lo rifarei”. Preferisco assumermi la responsabilità…». Quando giocavi nell’Inter ti chiamarono altre squadre? «Moggi provò a portarmi al Napoli, ma non se ne fece niente». Ci saresti andato al Milan? «Non credo che sarebbe stato possibile. Come pensare Maldini all’Inter». Le bandiere sono bandiere? «I grandi campioni vengono stimati anche perché rappresentano una squadra. Baresi, Totti, Del Piero. L’unico grande che ha cambiato molte squadre è stato Baggio, ma lui rappresentava l’Italia». Quando entri a San Siro come ti accolgono? «Trovo ancora entusiasmo. Io nasco interista, faccio tutta la trafila. Più anni fai in una squadra, più entri nella leggenda». Vorresti tornare all’Inter? «Magari… Ma ci sono cose nella vita che sono impossibili». L’Inter ti ha dato meno di quello che tu hai dato all’Inter? «Sono bilanci che non si possono fare. Io volevo fare l’allenatore. Il mio percorso non mi ha portato all’Inter. Ma era il mio obiettivo». C’è una figura nel mondo del calcio che ti ha fatto uno sgarbo e ti ha fatto male? «Sì. Ma non ti dico il nome. Basta, finito. L’ho incontrato l’altro giorno in aereo. Perdonato, ma non dimenticato». Dimmi qual è stato il punto altissimo della tua vita. «Oggi». Perché? «Perché quello che ho fatto ieri l’ho fatto e basta». Oggi sei felice? «Sì». Il tuo punto più basso? «Quando ho smesso di giocare e non sapevo che fare». Un problema economico? «No, i soldi c’erano. Mi mancava l’essere protagonista, avere una responsabilità verso i tifosi. Mi sembrava di non essere più me stesso».
Ok all’espulsione dell’imam. «Contatti con altri jihadisti»
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di Bianca Leonardi
Ok all’espulsione dell’imam. «Contatti con altri jihadisti»
Non è solo una protesta. È un caso che divide, radicalizza, infiamma la città. Mohamed Mahmoud Ebrahim Shahin, Imam della moschea di via Saluzzo, si trova oggi nel Cpr di Caltanissetta dopo che la Corte d’Appello di Torino ha confermato il suo trattenimento e la sua espulsione dall’Italia. Fuori, cortei, accuse di persecuzione, slogan contro lo Stato. Dentro, documenti giudiziari che raccontano una realtà molto diversa, fondata su valutazioni di sicurezza e atti formali. Durante lo sciopero generale di ieri, uno spezzone di manifestanti ha assaltato la sede torinese della Stampa (nella foto sopra), lanciando letame e forzando un ingresso al grido di «Free Shahin» e «Giornalisti complici». Ma la vera notizia è nei documenti della Corte d’Appello di Torino che confermano l’espulsione, documenti di cui Il Giornale è in possesso. Secondo le carte Shahin è stato espulso perché «ritenuto pericoloso per la sicurezza dello Stato», avendo intrapreso un «percorso di radicalizzazione religiosa connotata da spiccata ideologia antisemita» ed essendo «in contatto con soggetti noti per la loro visione fondamentalista e violenta dell’Islam». La Corte parla di «quadro indiziario grave, preciso e concordante» e di «profilo incompatibile con la permanenza sul territorio nazionale», richiamando valutazioni basate su informative delle forze di polizia e atti riservati. Le carte riportano episodi concreti legati alla frequentazione nel tempo tra l’imam alcuni terroristi: nel 2012 Shahin viene fermato a Imperia insieme a Giuliano Ibrahim Del Nievo, poi partito per la Siria per unirsi a gruppi jihadisti e morto in combattimento. Nel 2018 un altro caso: nell’indagine su Elmahdi Halili, condannato per apologia di terrorismo, un’intercettazione indica Shahin come referente religioso a Torino. Per i giudici si tratta di «elementi non episodici ma sintomatici di un contesto relazionale allarmante». Decisive anche le dichiarazioni pubbliche che Shahin ha affermato alla manifestazione pro Pal. Lo scorso 9 ottobre asseriva davanti a una platea numerosissima: «sono d’accordo con quello che è successo il 7 ottobre», precisando che «quello che è successo il 7 ottobre 2023 non è una violenza» e richiamando la «resistenza dei terroristi di Hamas». La Corte evidenzia che tali parole «legittimano e giustificano condotte terroristiche» e diffondono «un messaggio idoneo a generare tensioni, disordini e turbative dell’ordine pubblico». I giudici sottolineano che «la libertà di manifestazione del pensiero incontra un limite invalicabile quando si traduce in pericolo concreto per la collettività» e che il ruolo pubblico dell’imam rende il messaggio «particolarmente incisivo e destabilizzante». Contrariamente a quanto sostenuto nel ricorso dei difensori, la Corte ha stabilito che il provvedimento è «adeguatamente motivato», che «non sussistono i presupposti per misure alternative» e che le eccezioni risultano »infondate e non accoglibili». La piazza urla al complotto. Ma i giudici scrivono nero su bianco: «la misura espulsiva risponde a imprescindibili esigenze di tutela della sicurezza nazionale».
Il Papa, Erdogan e le incognite sulla pace a Gaza
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di Fiamma Nirenstein
Il Papa, Erdogan e le incognite sulla pace a Gaza
Non è facile esplorare le intenzioni di un Papa, e tantomeno immaginare cosa passa nella sua mente quando deve ascoltare un lunghissimo discorso di Erdogan. Stabilità, avvicinamento fra i popoli, pace giusta e duratura, questi sono i valori che certo con grande sincerità il Papa va cercando in tempi di strisciante terza guerra mondiale. Nicea, oggi Iznik, dove l’imperatore Costantino nel 325 riunì per la prima volta i litigiosi vescovi, richiama il concetto di unità, di compromesso, e di forza della Chiesa che regna da 1700 anni. In Turchia i cristiani però all’inizio del ‘900 erano circa quattro milioni e ora sono ridotti a 100mila, una tragedia onnipresente nel mondo islamico. Di certo a porte chiuse il Papa ne ha a parlato con Erdogan. Anche in Italia si è sognato che la Turchia, Paese meraviglioso, membro della Nato, forte nell’esercito e ricco di storia sarebbe stato il ponte fra l’Occidente e l’Oriente. Erdogan ha stravolto i parametri di questa speranza. Soprattutto ha aggredito con parole e fatti Israele e gli ebrei. Al Papa ha ripetuto che apprezza «l’atteggiamento astuto» sulla Palestina e ha ripetuto i temi dello Stato palestinese e della sovranità di Gerusalemme. Trump vuole che Erdogan abbia un ruolo nella sua pace universale in 20 punti a partire da Ga2a: la Turchia è un Paese importante, con forti rapporti con la Russia, in cui si fermano i profughi diretti in Europa cui Erdogan apre e chiude le porte. Ma Israele non consentirà che la Turchia sia una presenza sul suo confine dentro Ga2a, e Trump lo capisce, come capisce che è meglio che gli F15 siano acquistati dai sauditi e non da Erdogan che può rappresentare un pericolo esistenziale per troppi attori. Ora la Turchia ambisce a creare un suo Iron Dome, un sistema di difesa come quello israeliano. Perché? Chi dovrebbe sparare missili su Ankara? La risposta turca è «Israele» ma la risposta è diversa: solo se ci fosse un’intenzione aggressiva come quella dell’Iran o degli hezbollah la Turchia sarebbe a rischio. Che cosa vuole davvero fare la Turchia? Ha un programma di conquista mediorientale? Il Papa vuole solo compiere un viaggio di pace, ma è chiaro che la pace sarà creata dall’intenzione autentica a mettere da parte l’idea di mettere Israele a ferro e fuoco. Per esempio, se finalmente il governo libanese riuscirà a disarmare gli hezbollah, come da accordi, la pace, quella con la P maiuscola sarà molto più vicina. Il Papa lo sa.