Rassegna stampa del 3 dicembre 2025
La rassegna di oggi mostra un panorama mediatico polarizzato, in cui Israele è al centro di interpretazioni contrastanti. Alcune testate scelgono un approccio analitico, inserendo gli sviluppi regionali — come il dossier Siria e la posizione di Washington — in un quadro coerente di responsabilità e minacce reali. Altre invece privilegiano la retorica, riducendo la complessità della guerra a Gaza a una sequenza di accuse contro Israele, senza verifiche né pluralità di fonti.
In Italia il tema dell’antisemitismo nelle università e nel dibattito pubblico torna con forza, collegato alla radicalizzazione dei linguaggi. È importante distinguere tra informazione e narrativa: riconoscere chi restituisce contesto e rigore, e smontare ciò che semplifica o ribalta i fatti a scapito della verità storica e politica.
Il reportage: Israele, eterno memoriale a cielo aperto.
Un reportage equilibrato e documentato che racconta Israele attraverso i luoghi della memoria e il loro ruolo nella società, mettendo in relazione storia, identità e resilienza democratica. Moroni evita contrapposizioni ideologiche e offre un contesto ampio, mostrando la complessità del Paese senza cedere alla retorica anti-israeliana. È il pezzo più fondato della giornata, utile per comprendere Israele al di là delle narrazioni polarizzate.
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di Lorenzo Moroni
Il reportage: Israele, eterno memoriale a cielo aperto.
I ragazzi con la muta e la tavola da surf sotto al braccio, alle cinque del mattino, quando il sole non ne vuole ancora sapere di alzarsi, tagliano il lungomare Tayelet di Tel Aviv e affondano i piedi nella sabbia bianca delle spiagge di fronte ai grattacieli, pronti a solcare le onde gentili del Mediterraneo. I suoni muti di Mahame Yehuda, lo shuk incastrato nel cuore di Gerusalemme e oggi vuoto di turisti, dove si rincorrono colori e profumi in un crocevia di religioni, diffidenze reciproche e timori che qualcosa di inaspettato, di brutto, possa sempre accadere. La liturgia ortodossa davanti al Muro del pianto e il Bar Mitzvah festante dei ragazzini che, compiuti i 13 anni, entrano nell’età responsabile religiosa. Le nuvole di polvere nel deserto del Negev che scortano i viaggiatori fino ai terreni punteggiati dagli alberi dove, poco più di due anni fa, si tenne il tristemente celebre Nova festival. Un’area trasformata oggi in una distesa di foto dei ragazzi uccisi, di messaggi, ninnoli e preghiere. AL DI LÀ DEL MURO Poi, quella barriera elettrificata lungo il border, il confine che si vede dalla collina di Sderot. E di là, piccola, in una giornata di pioggia insistente ma leggera, spunta l’unica veduta possibile di Ga2a che lascia solo immaginare distruzione e morte. Di qua, i kibbutz come quello di Kfar A2A che sembra un villaggio vacanze fuori stagione, ma che mostra ancora i segni dell’orrore. E infine quel cimitero di auto – ne hanno accatastate 1.650 – bruciate nell’attacco ai ragazzi del festival. IL PERCORSO E LE TAPPE Il viaggio organizzato per i giornalisti dalla ambasciata israeliana a Roma svela il volto di un Paese fermo su se stesso, che ha cristallizzato quanto accaduto il 7 ottobre 2023 e che oggi ha costruito un ‘memoriale del dolore’ a cielo aperto, in modo che tutto resti a imperitura memoria. E dalle parole delle persone che è stato possibile incontrare – un reporter, esponenti del governo e membri del ministero degli esteri, due giovani sopravvissuti, soccorritori, un fotografo di guerra – il messaggio è uno solo: il 7 ottobre 2023 Israele è stato attaccato, 1.200 persone (per la maggior parte civili, tanti donne e bambini) sono state uccise, Israele si deve difendere, i terroristi di Hamas devono essere tutti eliminati. Ma sulle migliaia di civili morti sotto le bombe israeliane a Ga2a resta solo un ostinato silenzio. POSIZIONI FERME «Il vero problema è che molti arabi-musulmani non accettano che Israele abbia il diritto di esistere, il popolo palestinese è stato radicalizzato e sia in Cisgiordania sia a Ga2a è governato da mafie e bande, Hamas soprattutto. Ma anche Autorità palestinese e Olp usano metodi mafiosi», è la sintesi del ragionamento di Khaled Abu Toameh, giornalista del Jerusalem Post, di madre araba-palestinese e di padre arabo-israeliano. E quando si prova a mettere sul tavolo del confronto il concetto di proporzionalità, in riferimento alla reazione militare di Tel Aviv ai massacri del 7 ottobre, la risposta è tranchant e sorvola sempre sulle vittime innocenti. «Noi non usiamo i metodi di Hamas – scandisce Boaz Bismuth, presidente della Commissione esteri e difesa della Knesset – non rapiamo e non stupriamo. Se Hamas avesse liberato gli ostaggi e lasciato Ga2a, la guerra sarebbe finita in due giorni. Bisogna impedire che Hamas governi Ga2a». FUORI DALLA KNESSET Davanti alla sede del parlamento israeliano, a pochi passi da Jaffa road, una delle principali strade di Gerusalemme, quando scende la sera e i suoni del traffico si fanno clementi, i riservisti dell’esercito accampati con le tende sui marciapiedi, mostrano un’altra delle mille facce di questo Paese dove c’è anche chi protesta e dissente, in un modo o nell’altro. Uomini e donne, militari senza distinzioni, che ogni volta che vengono chiamati a indossare la divisa e a imbracciare il fucile rischiano di perdere il lavoro e di restare segnati da traumi che mandano in pezzi le famiglie. La loro protesta è per la disparità di trattamento con gli ultra ortodossi, esentati dal servizio militare. AL NOVA FESTIVAL Ma2al Ta2azo, 35 anni e mamma di un bambino di 11, racconta l’orrore vissuto sulla propria pelle, dei tre amici trucidati dai terroristi e di come lei si sia salvata fingendosi morta. Una narrazione che toglie il respiro e lascia smarriti in mezzo a questo campo dove le fotografie delle giovani vittime fanno da dolce ma triste cornice a un quadro da incubo. Poi Ta2azo prende fiato e spiega come non riesca a comprendere l’Occidente che manifesta «a favore di Hamas». «Come se l’11 settembre gli israeliani fossero scesi in piazza per manifestare per Al Qaeda», dice. Come se scendere in piazza per chiedere di mettere fine al massacro dei ga2awi significhi schierarsi con i terroristi. LA CITTÀ FANTASMA A poca distanza dal Nova, c’è Sderot dove vivevano oltre 27mila persone, ma che dopo l’assalto del 7 ottobre, con i terroristi che sparavano e uccidevano lungo le strade, oggi appare vuota e silenziosa. Solo a Tel Aviv, dove il caldo non sembra voler lasciare spazio alla stagione più rigida, con le luci sfavillanti dei locali e i ragazzi che si sfidano a beach volley fino a sera, l’aria che si respira è quella di una qualsiasi città metropolitana. Ma un giovane poco più che ventenne, in t-shirt, bermuda, infradito e un fucile a tracolla mentre aspetta un amico lungo il Tayelet, è l’istantanea di un Paese perennemente sulla difensiva. Dove il governo vuole che l’Occidente ricordi continuamente che Israele è stato vittima di una barbarie inumana, ma che non accetta di riconoscere quanto di altrettanto inumano sta accadendo nella Striscia.
“Netanyahu destabilizza la Siria` Trump è furioso, ma Bibi tira dritto
Ricostruzione dei rapporti tra Washington e Gerusalemme sul dossier Siria, con riferimenti alle pressioni diplomatiche e alla volontà di Netanyahu di mantenere una linea autonoma. Il pezzo non è apertamente ostile verso Israele, ma adotta un linguaggio a effetto che semplifica dinamiche regionali complesse. Manca di contesto sulle reali minacce siriane.
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di Davide Manlio Ruffolo
“Netanyahu destabilizza la Siria` Trump è furioso, ma Bibi tira dritto
Davanti alla fragile tregua nella Striscia di Gaza – che appare più formale che sostanziale – e alle operazioni delle IDF in Libano e in Siria, che proseguono da settimane, negli Usa cresce il timore di una possibile ripresa delle ostilità in Medio Oriente. A sostenerlo è l’ultimo scoop del portale statunitense Amos, secondo cui l’amministrazione di Donald Trump “teme che i ripetuti attacchi di Israele in Siria rischino di destabilizzare il Paese e di minare le possibilità di un accordo di sicurezza tra Israele e Siria”. A rivelarlo al quotidiano americano è un funzionario Usa che ha chiesto l’anonimato, affermando che “Bibi (Netanyahu, ndr) vede fantasmi ovunque. Stiamo cercando di dirgli che deve fermarsi perché, se continua, si a u Cod i struggerà”. Che non si tratti di mere indiscrezioni di stampa e che i timori degli Stati Uniti siano concreti, soprattutto per quanto riguarda la tensione con la Siria, lo si capisce dall’appello di Trump che ieri sera sui social ha ammonito Netanyahu. Nel messaggio il tycoon ha affermato che è “molto importante che Israele mantenga un dialogo forte e sincero con la Siria e che non avvenga nulla che possa interferire con lo sviluppo della Siria in uno Stato prospero”. Sempre secondo Axios, per l’amministrazione Usa. È ormai evidente che Netanyahu “starebbe interferendo in modo del tutto inutile”, ordinando operazioni militari “olire confine in Siria” che rischiano di riaccendere la miccia del conflitto. Difficile dar loro torto, visto che venerdì scorso si è verificato un “incidente”, con militari israeliani entrati in territorio siriano per eseguire alcuni arresti e poi sono stati attaccati da uomini armati. Ne è seguito uno scontro a fuoco in cui sono rimasti feriti sei soldati. Quando la situazione si è calmata, le truppe di Tel Aviv – nel tentativo di evitare guai peggiori – hanno iniziato a ritirarsi, mentre l’aviazione israeliana li ha coperti con una serie di attacchi in cui hanno perso la vita almeno tredici siriani, molti dei quali civili. Un’operazione in territorio siriano che ha inevitabilmente scatenato un polverone e che la comunità internazionale ha condannato duramente. Accuse a cui ieri hanno replicato le autorità israeliane, giustificando la missione sostenendo che “le persone arrestate in Siria facevano parte di un gruppo affiliato ad Hamas e Hezbollah” e che stavano pianificando “attacchi contro Israele”. Una ricostruzione che le fonti americane sentite da Axio’; hanno messo in dubbio, sottolineando che “Israele non ha nemmeno informato la Casa Bianca prima di lanciare l’operazione e. non ha avvertito la Siria attraverso i canali militari, come fatto in passato” La cosa peggiore, secondo Axios, è che nell’amministrazione Trump cresce la rabbia perché la Siria, con cui Washington ha recentemente stretto una serie di accordi politico-economici, “non vuole problemi con Israele. Non è il Libano, ma Bibi vede fantasmi ovunque, e noi stiamo cercando di farlo ragionare”, altrimenti “perderà un’enorme opportunità diplomatica e trasformerà il nuovo governo siriano in un nemico”. Ulteriore conferma della distanza strategica e politica tra Usa e Israele è la telefonata avvenuta tra Trump e Netanyahu. Una conversazione in cui. secondo indiscrezioni di stampa, non sarebbero mancati momenti di tensione, con il tycoon che in più occasioni avrebbe alzato la voce con Bibi proprio in relazione agli attacchi nella Striscia, in Libano e soprattutto in Siria. Una versione che, però, è stata smentita dall’Ufficio del primo ministro israeliano, secondo cui nella conversazione “i due leader hanno sottolineato l’importanza e l’obbligo di disarmare Hamas e smilitarizzare la Striscia di Gaza”, per poi discutere “dell’ampliamento degli accordi di pace”. Una telefonata che, però, sembra aver prodotto ben pochi effetti. perché nemmeno 24 ore dopo, come riferito da SyriaTV, i jet israeliani hanno effettuato ripetuti sorvoli sui cieli di Damasco, considerati dagli esperti militari un ulteriore avvertimento al governo siriano guidato dall’ex jihadista Ahmad Sharaa, al potere da un anno. Nel frattempo, mentre le trattative diplomatiche per la seconda fase del cessate il fuoco nella Striscia di Gaza restano bloccate – tanto che tra i mediatori di Qatar ed Egitto cresce il pessimismo e si considera sempre più concreta la ripresa delle ostilità-a destare allarme è il continuo aumento delle violenze in Cisgiordania. Oltre alle aggressioni dei coloni contro i palestinesi – spesso con la complicità delle Idf, che tendono a chiudere un occhio – la situazione sta precipitando. L’ultimo episodio è avvenuto dopo l’ennesima “operazione di polizia” delle Idf, a cui è seguito l’attacco di un palestinese che, a Hebron, si è scagliato con la propria auto contro alcuni militari israeliani, ferendone uno. Il soldato ha poi aperto il fuoco, uccidendo l’attentatore. Poche ore dopo, vicino all’insediamento di Ateret. sempre in Cisgiordania, due soldati israeliani sono stati accoltellati riportando ferite lievi mentre stavano controllando una persona sospetta. L’attentatore, nel tentativo di fuggire, è stato ucciso da numerosi colpi sparati dalle truppe delle Idf. Spirale d’odio Caos in Cisgiordania In 24 ore tré attentati hanno colpito le truppe delildf che hanno risposto bombardando
Gaza rimuove da sola le macerie che la soffocano
Articolo costruito su un’accusa diretta e non verificata, con linguaggio emotivo e assenza totale di fonti plurali. La narrazione ignora il ruolo di Hamas, le dinamiche della guerra urbana e la necessità di distinguere tra responsabilità, dati verificati e propaganda. Riducendo tutto a una presunta intenzionalità israeliana, il pezzo rinuncia al giornalismo e propone un frame apertamente ostile, privo di contestualizzazione. È il più fazioso della giornata.
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di Lina Ghassan Abu Zayed
Gaza rimuove da sola le macerie che la soffocano
A Gaza la guerra non ha ucciso solo le persone, ma anche tutto ciò che le circondava. La città è una montagna di macerie: oltre 61 milioni di tonnellate di cemento, acciaio e cenere ricoprono il terreno, seppellendo gli alberi, schiacciando il suolo e soffocando quel poco di verde e vita che è rimasto. La polvere non è più solo una traccia di distruzione, ma è diventata l’aria che respiriamo, riempiendo i nostri polmoni di tossine invece che di ossigeno. LE MACERIE che riempiono le strade e le case non sono solo detriti; sono testimoni della distruzione e della tenacia della vita. Mentre cammino tra le rovine, vedo persone che non aspettano gli esperti o i macchinari pesanti che Israele ha impedito di entrare per anni con restrizioni di sicurezza. Ci vorrebbero almeno dieci anni per rimuovere decine di milioni di tonnellate di macerie con attrezzature pesanti, ma Gaza non può aspettare così a lungo: le strade sono bloccate, le case rischiano di crollare e la vita quotidiana è sospesa. Vedo i residenti con le pale in mano che scavano e ripuliscono le macerie dalle loro case e dalle strade. Anziani, donne e giovani lavorano fianco a fianco, cercando di aprire piccoli sentieri, raggiungere le loro case o anche solo salvare ciò che possono. I bambini corrono tra le rovine, a volte ridendo, a volte piangendo, e ogni loro movimento dipinge un quadro della resilienza della città. Le macerie hanno soffocato non solo gli edifici, ma anche gli alberi e la natura. Gli ulivi e le palme che un tempo conferivano alle strade calma e vivacità giacciono sepolti sotto i detriti, con le foglie carbonizzate o spezzate e i rami distesi tra le pietre. La terra stessa sembra priva di vita, crepata sotto il sole e schiacciata dal peso dei detriti che opprimono ogni forma di vita. Inoltre, queste enormi macerie hanno causato un grave inquinamento: la polvere che si solleva a ogni movimento e il terreno che contiene elementi chimici provenienti dal cemento e dal ferro hanno reso l’aria tossica, aumentando il rischio di malattie respiratorie. Il suolo e persino l’acqua sono stati contaminati, aumentando le sofferenze quotidiane e rendendo l’ambiente più duro e pericoloso per gli abitanti di Ga2a. ANCHE L’ACQUA muore. Oltre l’85% delle strutture idriche e igienico-sanitarie di Ga2a non funzionano più e l’acqua sotterranea, inquinata da sale ed elementi nocivi, è l’unica fonte per molte famiglie. Vedo persone che cercano di procurarsi appena tre-cinque litri d’acqua al giorno, sento i bambini piangere per la sete e provo una profonda impotenza di fronte a questa lotta quotidiana. Ogni pietra rimossa, ogni angolo ripulito, è un piccolo atto eroico, trasmette un messaggio: Gaza non aspetterà dieci anni come sostengono gli esperti. Ga2a sta creando vita qui, ora, tra le macerie, la polvere e la sete. Ogni persona sta ricostruendo la propria vita a modo suo, anche quando tutto intorno sta crollando. UN ANZIANO che stava ripulendo la sua casa dalle macerie mi ha detto: «Non aspetteremo che qualcuno le rimuova per noi. Ogni giorno rimuoviamo ciò che possiamo, anche se poco, solo per sopravvivere». Queste parole riflettono una forte volontà che rifiuta di arrendersi alla distruzione. Ma nonostante il coraggio e la resilienza della popolazione e la sua determinazione a resistere al disastro, non possiamo ignorare che Gaza ha urgente bisogno di macchinari pesanti e attrezzature per rimuovere le enormi macerie che la soffocano. Lo sforzo umano da solo non è sufficiente per affrontare le decine di milioni di tonnellate di rovine che devono essere immediatamente rimosse, soprattutto per aprire strade vitali e garantire la sicurezza delle persone. Oggi Gaza non è solo una terra distrutta; è un essere vivente che lotta per respirare, un ambiente soffocante, una terra assetata e cuori che ancora aspettano il ritorno della vita. Le macerie e la distruzione non sono solo pietre e silenzio, sono una testimonianza della resilienza della popolazione, dei suoi continui sforzi per riportare la vita e del suo desiderio che la città sia qualcosa di più di un cumulo di rovine. Tra i detriti, la polvere e l’acqua scarsa, vedo la vita che cerca di riemergere. Strade parzialmente sgomberate, case parzialmente restaurate, le risate dei bambini: tutte queste scene mi convincono che Gaza, nonostante tutto, non si arrende. Gaza soffre per le macerie che nascondono la città, gli alberi, la natura e l’acqua, ma non aspetta aiuti su larga scala. Crea la vita con le proprie mani, pietra dopo pietra, respiro dopo respiro. E IO SONO QUI, a testimoniare ogni giorno questo piccolo miracolo, cercando di condividerlo con gli altri, perché la storia di Ga2a non è solo una storia di distruzione, ma anche di resilienza, forza di volontà e vita che rinasce tra le rovine.
Asse a La Sapienza tra «Musulmani per Roma» e «Cambiare Rotta» contro il ddl antisemitismo.
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di Giulia Sorrentino
Asse a La Sapienza tra «Musulmani per Roma» e «Cambiare Rotta» contro il ddl antisemitismo.
Ci mancava il dibattito contro il Disegno di Legge di Maurizio Gasparri e sul tema dell’antisionismo indetto da Cambiare Rotta e «MurRo27» (Musulmani per Roma 2027), ovvero il gruppo di islamici guidato dall’ex dem Francesco Tieri, ingegnere convertito all’islam. Si sono riuniti ieri presso l’Aula VI, Facoltà di Lettere, Sapienza per sostenere che «il governo Meloni, con il Ddl Gasparri, vuole introdurre nel nostro paese misure che limitano la libertà di espressione e reprimono le proteste delle centinaia di migliaia di persone che, solo pochi giorni fa, sono scese in piazza contro la nuova finanziaria di guerra e contro la complicità del nostro governo con lo Stato di Israele». Una proposta, quella del Presidente dei senatori di FI, che non mira, come vogliono far intendere, all’impossibilità di criticare il governo in carica, bensì vuole che siano introdotte delle sanzioni penali contro l’antisemitismo, prendendo la definizione di antisemitismo internazionale, così come per chi chiede la distruzione dello Stato di Israele. Una legge necessaria, soprattutto se pensiamo alle inaudite frasi che udiamo nelle piazze come «from the river to the sea», che fa riferimento alla liberazione della Palestina dal fiume fino al mare. Ma anche “intifada fino alla vittoria”, espressione spesso pronunciata nelle piazze indette dai sedicenti ProPal. Ma per loro «il disegno di legge compie una pericolosa sovrapposizione tra antisionismo e antisemitismo, prevede un inasprimento delle pene e dedica particolare attenzione a scuole e università, dove potranno essere applicate sanzioni a docenti e ricercatori che non denuncino studenti o colleghi critici verso lo Stato di Israele. Un modello già applicato in Germania e in altri paesi europei, dove organizzare un’iniziativa contro l’apartheid israeliano o indossare una maglietta con la scritta “dal fiume al mare, Palestina libera” può essere considerato reato». E indossare quella maglietta è giusto che venga considerato reato, perché è uno slogan che non prevede nella cartina geografica l’esistenza dello Stato di Israele. MuRo27 è un gruppo che «si è costituito a Roma», ed è composto da «musulmani che vivono, studiano e lavorano nella capitale e che vogliono contribuire alla discussione politica in vista delle elezioni amministrative del 2027». Il loro obiettivo è incidere nel calendario politico romano, anche se quello a cui assistiamo è certamente un modello replicabile in altre città italiane, e in questo il caso Monfalcone (dove è stata presentata da Bou Konate la prima lista interamente islamica), ha fatto scuola. Oggi, oltre ai gruppi Calp e Carc, che mostrano chiari legami ideologici con la Russia, c’è la Rete dei Comunisti, Osa e Cambiare Rotta, che sono vicini al regime venezuelano di Maduro e sono tra i profili pi spiccati che animano le pizze ProPal. Perché un gruppo islamico ha bisogno di unirsi a queste sigle extraparlamentari? Ricordiamo che, tra le recenti proposte di Muro27, c’è stata la richiesta all’amministrazione capitolina di eleggere i Consiglieri Aggiunti, cioè quelli che «è previsto vengano eletti tra i cittadini stranieri residenti». Gli stessi che si sono battuti per chiedere la liberazione di Mohamad Shahin, l’imam di Via Saluzzo a Torino che non ritiene il 7 ottobre un episodio violento, ritenuto un esponente della Fratellanza Musulmana. Lo descrivono come un uomo che stava semplicemente difendendo le proprie idee: «Questa non è sicurezza, è islamofobia istituzionale, è repressione del dissenso, è una punizione politica mascherata da procedura amministrativa», sostengono. Quindi inneggiare a un attentato le terroristico commesso imitano per mano di » Hamas, lo consideriamo un atto normale e legittimo o una follia collettiva?
Gerusalemme troppo vecchia per illudersi sulla pace.
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di Costanza Cavalli
Gerusalemme troppo vecchia per illudersi sulla pace.
Com’è contradditoria Gerusalemme, sta lì da cinquemila anni eppure ha la fragilità del precario tanto che, come per tenersi a mente dell’età che ha, gli edifici nuovi, dal quartiere di Rehavia a quello di Talpiot, devono essere rivestiti della stessa pietra di allora, che riflette l’oro rosso del tramonto e il rosa cremoso dell’alba, e i suoi cittadini son sempre di corsa, persino dove si scivola, sulle strade appena lavate, di prima mattina, nella città vecchia. Per David Street, quando il mercato è ancora chiuso, gli uomini fan grandi balzi giù per i gradini e appena dietro si affrettano le donne, a passi corti, perché indossano gonne lunghe e strette e a fare falcate non si riesce. A quell’ora lì, tra le 5 e le 7, corrono anche i cristiani: è l’unico momento in cui al Santo Sepolcro possono celebrare messa e allora ne dicono tante, una dietro l’altra, ogni mezz’ora, in inglese, in italiano, in tedesco, al Calvario e nella Tomba. Solo i soldati non hanno appuntamenti e lungo le strade vanno avanti e indietro, con la flemma dei forti. Nella terra che ha abitato per la prima volta tremila anni fa, da cui è stato cacciato, in cui è ritornato, da cui è stato cacciato di nuovo e in cui aveva iniziato a tornare in massa alla fine del 1800, il popolo ebraico va di fretta ma sa aspettare. «Questa pace? Probabilmente non sarò qui a vederla. Sarà un lungo viaggio: non si tratta di una guerra territoriale, è religiosa», ha detto Buaz Bismuth, che ha fatto il giornalista per quarant’anni, corrispondente di guerra nei Paesi arabi, prima di diventare presidente del Comitato per gli Affari esteri e difesa della Knesset, il parlamento di Israele. Parla un inglese impetuoso, e tiene il tempo, nell’incedere delle frasi, sbattendo di tanto in tanto il palmo delle mani sul tavolo. Quando non gli viene un termine passa al francese, cita Alexandre Dumas e Dante e dà consigli di lettura, «Legga Il mondo di ieri di Stefan Zweig». La settimana scorsa era in prima pagina sul Jerusalem Post per il suo disegno di legge sulla leva militare degli Haredim: sta facendo litigare tutti e l’aveva anticipato: «Se riuscirò a non far contento nessuno, dagli ultraortodossi all’esercito, dall’opposizione ai media, avrò scritto il testo perfetto». Ha il copione pronto e una cartucciera di battute che piacciono, usate sicure: «Domani compio gli anni. Quanti? Indovini. Mi chiamo Bismuth, eh, non Bismarck», «Sono alla mia prima legislatura eppure mi è stato affidato questo ruolo. Perché? Perché sono bravo». Alle soglie della fase 2 dell’accordo di pace di Donald Trump, quando ancora due corpi dei rapiti sono nelle mani di Hamas, per capire la linea delle istituzioni israeliane dobbiamo tornare indietro a Golda Meir, prima e unica donna a ricoprire la carica di Primo ministro di Israele, e alla verità che trasmise all’allora senatore 30enne Joe Biden: «Noi non ci preoccupiamo. Noi israeliani abbiamo un’arma segreta. Non abbiamo altro posto dove andare». Il democratico se lo sentì dire nel 1973, poco prima che scoppiasse la guerra dello Yom Kippur, quando Egitto e Siria attaccarono simultaneamente Israele. Bismuth ha ripetuto lo stesso concetto, nel suo ufficio, in parlamento: «Chi vuole vederci collassare sappia che siamo qui per restare». Sanno aspettare, appunto. Ma come? Al ministero degli Esteri la linea è chiara: gli Stati Uniti sono riusciti a portare i terroristi al tavolo dei negoziati; la transizione dalla fase 1 alla seconda è una sfida che coinvolge la comunità internazionale; dopo aver disgregato i proxy dell’Iran ora Hamas deve essere eliminato. Nel West Bank ha l’appoggio dell’80% della popolazione, a Ga2a del 50%, ha appuntato il diplomatico George Deek, direttore del Dipartimento per il Sud Europa. «Senza l’impegno di una Forza internazionale di stabilizzazione dovremo eliminare Hamas da soli. L’alternativa è vivere con la paura di un altro 7 ottobre. Le persone non prendono abbastanza sul serio Trump quando dice che se Hamas non accetterà di disarmarsi, si scatenerà l’inferno…». Il problema non è tanto l’instabilità nel breve termine, ma la sicurezza nel lungo termine, prateria in cui le minacce si moltiplicano: niente si sa delle condizioni di salute del nucleare iraniano, l’esercito libanese sta fallendo nel disarmo di Hezbollah, che contrabbanda missili oltre il confine siriano e sta ripristinando posizioni e basi, la nuova Siria di Al Sharaa è una manna per le grandi potenze e per quelle regionali (Usa, Russia, Turchia, Giordania) ma, Deek è cauto, prima di scommettere su un cavallo, ovvero prima di togliere le sanzioni, è meglio vederlo correre. Nell’attesa, a Gerusalemme si corre per migliorare la capacità di deterrenza di Israele: forze armate qualitativamente più forti, un Iron Dome tecnologicamente più sofisticato, un’intelligence in grado di rispettare la promessa che gli ebrei fecero ai figli dopo la Shoah, “Never again”, mai più. Il game changer della regione, però, sarà l’Arabia Saudita che, dicono al Ministero e ripetono fonti del Mossad, era ad un passo dall’ingresso negli Accordi di Abramo prima del 7 ottobre. L’obiettivo è un Medio Oriente non più mero collegamento tra Asia e Europa, ma una regione a sé stante, fulcro per la difesa, il commercio, l’energia, le comunicazioni, l’intelligenza artificiale. La posta in gioco, una saldatura tra Israele e il mondo arabo sunnita, è altissima: è la politica dei blocchi, che parte da qui, passa da Washington, guarda a Riad. Dall’altra parte ci sono Iran, Cina, Russia e Corea del Nord. E Gerusalemme lo sa che sta lì da cinquemila anni eppure ha la fragilità del precario.
La furia Pro-Pal contro i suoi ignari cantori.
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di Massimo Costa
La furia Pro-Pal contro i suoi ignari cantori.
Non se ne capacitano. Non capiscono. Si stupiscono. Si sentono traditi. La domanda che affligge il mondo progressista da qualche giorno scava nel profondo delle contraddizioni della stampa con la kefiah: «Perché Askatasuna ha devastato proprio la redazione della Stampa?». Non se ne fanno una ragione. Annalisa Cuzzocrea, ora vicedirettore a Repubblica dopo quattro anni nel quotidiano torinese, domenica sera nel salotto televisivo di Fazio era sbalordita: «Io e Andrea Malaguti (l’attuale direttore, ndr) abbiamo fatto la prima pagina su La Stampa con scritto “genocidio”, senza preoccuparci di come avrebbe reagito una parte di opinione pubblica. Questa è la cosa che mi ferisce di più, perché non sanno cosa hanno aggredito». La sinistra nel paese delle meraviglie: è stato proprio il fronte progressista, compreso il sindaco Pd di Torino Stefano Lo Russo, a dare legittimazione al centro sociale Askatasuna; a lodare il patto per il «bene comune» che prevede addirittura la regolarizzazione del gruppo violento di estrema sinistra; a sottovalutare, se non minimizzare, le piazze violente dei pro-Pal che grondavano antisemitismo (dai cartelli agli slogan fino alle bottigliate alla polizia). Ma davanti a un continuo sfregio della legalità, perché pensare che i delinquenti potessero risparmiare la redazione del principale quotidiano con sede in città? Non sono bastate le inchieste, le auto della polizia accerchiata, la saldatura con le frange eversive No Tav? Non pare una questione di ignoranza, né di scarsa riflessione sull’ultimo editoriale geopolitico dei commentatori de La Stampa. Al contrario, lo stupore sembra figlio di una certa sudditanza psicologica nei confronti di certe schegge movimentiste, prima affiancati nella causa comune contro il governo israeliano di Bibi Netanyahu. Peraltro, ieri è arrivata la rivendicazione del Cua, il gruppo universitario vicino ad Askatasuna: «Era un’azione dimostrativa», il giornale era un bersaglio perché «la stampa italiana ci ha abituato al sensazionalismo» mentre i politici si destra e sinistra sono ritenuti «ugualmente corrotti». Che ingrati. Il brodo di coltura progressista li ha coccolati per anni, e adesso diventa un obiettivo della violenza più cieca e vergognosa. Anche Massimo Gramellini, dalla prima pagina del Corriere della Sera, si è distinto per incredulità e sbigottimento: «Ma come?», ha scritto ieri la firma di punta di via Solferino, «per punire la stampa filosionista colpiscono proprio la Stampa, che ha ospitato decine di reportage sull’eccidio di bambini di Ga2a?». Alla fine della fiera, conclude Gramellini, è colpa dei libri e delle pagine di giornale che i delinquenti non hanno letto. Chiusa lapidaria: «Forse considerano la lettura un’attività controrivoluzionaria». Eppure, di culturale, in questa vicenda ci vediamo solo la subalternità della sinistra politica e dei commentatori à la page. A forza di strizzare l’occhio alle frange antagoniste, parafrasando Nenni, c’è sempre un pro-Pal più pro-Pal che ti epura. O, storpiando il mitico George Orwell, tutti i pro-Pal sono uguali ma alcuni sono più uguali degli altri. L’attentato comunista alla Stampa comunista eh, basta con questo luogo comune del “fascismo degli antifascisti” – è stato compiuto da criminali, molti dei quali appartenenti a un centro sociale protagonista di estorsioni, violenze, assalti e chi più ne ha più ne metta. Non è questione di libri letti o non letti. L’azione contro la Stampa è stata brutale, ma nei mesi scorsi anche Libero è stato preso di mira da qualche groppuscolo pro-Pal, protagonista di un presidio davanti alla nostra redazione. Da quel giorno qui sotto è tornato anche il presidio fisso dei militari. Un’intimidazione per fortuna senza irruzione. Libero non ha mai parlato di genocidio a Ga2a: sicuramente nessuno a sinistra pensa che, non avendo noi sposato le posizioni dei pro-Pal, un
attacco contro il nostro giornale sarebbe «comprensibile».
La sinistra scarica l`Albanese Lei si crede Dante e cita l`esilio
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di Fabio Rubini
La sinistra scarica l`Albanese Lei si crede Dante e cita l`esilio
Le gravissime parole di Francesca Albanese a seguito dell’agguato alla redazione torinese de La Stampa («Condanno l’irruzione, ma sia da monito ai giornalisti») continuano a dividere la sinistra. C’è chi in qualche modo la giustifica, ricordando il suo ruolo nella vicenda palestinese e chi la condanna senza se e senza ma. La sorpresa di giornata è che anche illustri esponenti della sinistra più radicale hanno deciso di prendere le distanze dalla relatrice Onu – a proposito, chissà se e quando l’organizzazione mondiale deciderà di esprimersi sulle uscite della sua rappresentante condannando le sue parole. L’unica a non sembrare scossa dalla polemica è proprio l’Albanese, che dopo aver appreso che Firenze non le conferirà la cittadinanza onoraria, invece di farsi un bell’esame di coscienza, l’ha presa sul ridere e su “X” ha scritto: «Purché mi sia risparmiato l’esilio perpetuo…», con un chiaro riferimento a quanto accaduto a Dante Alighieri, costretto a lasciare Firenze nel 1302 a causa della sua posizione vicina ai Guelfi bianchi, che persero il potere a favore di quelli Neri. Senza farla tanto lunga, la speranza è che la similitudine col Sommo Poeta si fermi qui, perché Dante cavalcò la sofferenza dell’esilio per scrivere e regalarci la Divina Commedia. Ecco, speriamo che l’Albanese non si butti a mettere in terzine le sue idee sulla Palestina, Israele e la geopolitica. Come direbbe lei…«ci sia risparmiato». Dicevamo dei big della sinistra radicale che hanno condannato l’Albanese. Il primo a farlo è stato Angelo Bonelli, co-portavoce di Avs: «Il blitz Pro-Pal a La Stampa è un attacco alla democrazia, vigliacco e criminale, che va condannato senza alcuna giustificazione, secondo me, Albanese si doveva fermare alla condanna». Dure le parole anche di un’altra campionessa della sinistra dura e pura – oggi prestata al Pd… -, Laura Boldrini. L’ex presidente della Camera spiega: «Io penso che Francesca Albanese abbia fatto in questi anni un grande lavoro come relatrice speciale», ma «l’affermazione sull’attacco a La Stampa io non la condivido e ritengo che sia sbagliata. Un attacco va condannato, punto. Senza se e senza ma». Poi c’è il capitolo dei sindaci e le questioni relative alle cittadinanze da non dare o revocare all’Albanese. Dopo il voto dell’altra sera in consiglio comunale, ieri il sindaco di Firenza, Sara Funaro, ha detto la parola fine sulla vicenda: «Ho grande rispetto per il lavoro del Consiglio. Io penso che, non solo con le ultime dichiarazioni alla stampa, ma anche con tante altre, le posizioni che porta Francesca Albanese siano più divisive che unitarie e questo non è rappresentativo della città di Firenze. Quindi, come sindaca, non ritengo opportuno consegnarle la cittadinanza onoraria». Una posizione che riceve anche il plauso del leader di Italia Viva, Matteo Renzi: «Francesca Albanese non avrà la cittadinanza onoraria. E vorrei ben vedere! Le dichiarazioni di sabato sono imbarazzanti. Quelle su Liliana Segre addirittura infami». Il dibattito si è aperto anche a Bologna e Reggio Emilia. Nella prima il sindaco Matteo Lepore ha detto che «Abbiamo cose più importanti di cui occuparci». Tipo coccolare gli antagonisti cugini di quelli di Askatasuna che hanno fatto il blitz a La Stampa. Più loquace la sua vice, Emily Clancy: «L’onorificenza le è stata data per il suo lavoro di denuncia sul genocidio in corso». Quindi la cittadinanza resta. Anche se, bontà sua, «la frase detta è molto sbagliata». Intanto le liste civiche di destra stanno escogitando un modo per riportare la questione in Consiglio. A Reggio Emilia è la Cisl che chiede al sindaco (insultato dalla stessa Albanese proprio durante la cerimonia di premiazione) di «togliere il Primo Tricolore all’Albanese». Anche a Bari il sindaco Vito Leccese ha fatto le barricate per mantenere la cittadinanza all’Albanese. E il centrodestra? Per Giovanni Donzelli (Fdi) «Albanese è stata fuori luogo». Maurizio Gasparri (Fi) spiega che «i sindaci della nouvelle vague del Pd sono sempre dalla parte sbagliata della storia».
E i dem radunano gli ultrà pro Pal In Sicilia le prove del partito islamista.
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di Domenico Di Sanzo
E i dem radunano gli ultrà pro Pal In Sicilia le prove del partito islamista.
E i dem radunano gli ultrà pro Pal In Sicilia le prove del partito islamista Il Pd di Siracusa riunisce Mimmo Lucano, i reduci della Flotilla e il sindaco di Ga2a P rove di campo largo a trazione islamica. Nonostante la tregua a Ga2a e il declino dell’entusiasmo per il movimento pro Pal, continua il dialogo tra una parte della sinistra e il mondo islamico. Una suggestione, quella dei musulmani in politica, che ha avuto una prima manifestazione concreta nella creazione di MuRo 27, un gruppo pronto a correre alle amministrative a Roma previste tra due anni. Insomma, l’attivismo non si ferma, con la sponda di settori del mondo progressista. E Ga2a è ancora il motore del confronto. Prendiamo un esempio, che arriva da Siracusa. L’iniziativa del convegno, che è andato in scena ieri, l’hanno presa i dem siciliani, con tanto di logo sulla locandina. «Ga2a, Flotilla, diritti umani e pace», il titolo dell’incontro. Tra i partecipanti spicca Yassine Lafram, presidente dell’Ucoii, l’Unione delle Comunità Islamiche Italiane, già imbarcato sulla Flotilla. Con lui altri reduci della spedizione: da Thiago Avila e Tony Piccirella del direttivo della Global Sumud al deputato del Pd Arturo Scotto, già imbarcato sulla «Karma». Ma non solo. Presente, in quota Avs, un volto simbolo della sinistra, l’eurodeputato rossoverde Mimmo Lucano, già sindaco di Riace icona dell’accoglienza senza frontiere. Con lui l’eurodeputata dem Annalisa Corrado, molto vicina alla segretaria Elly Schlein e Pietro Bartolo, già a Bruxelles e Strasburgo nella scorsa legislatura, sempre con il Pd, medico di Lampedusa non rieletto alle europee dello scorso anno nonostante le 44 mila preferenze raccolte. Ospite d’onore, collegato da remoto, il sindaco di Ga2a Yahya al-Sarraj. Lafram, in particolare, è stato accusato di vicinanza a Mohammed Hannoun, architetto residente a Genova, già sanzionato dagli Stati Uniti perché ritenuto un finanziatore di Hamas attraverso l’associazione Abspp (Associazione benefica di solidarietà con il Popolo palestinese). Non solo: il presidente dell’Ucoii, l’anno scorso, in occasione di un convegno alla Camera con il M5S, era stato indicato da Fratelli d’Italia come «emanazione dei Fratelli Musulmani». E a Siracusa si è fatto vedere Avila, componente del direttivo della Flotilla. Come riportato ieri da Il Tempo, l’attivista era stato premiato dall’ambasciata iraniana in Brasile e ha partecipato, a febbraio, al funerale del leader di Hezbollah Hassan Nasrallah. Con loro, appunto, parlamentari di Pd e Avs. E se questa volta, in quota rossoverde, c’era l’icona Lucano, a fine luglio scorso Angelo Bonelli ha partecipato, a Londra, al battesimo dell’Alleanza Globale per la Palestina. Con lui c’era l’ex leader del Labour inglese Jeremy Corbyn, allontanato dal partito dopo la diffusione di un report interno in cui veniva accusato di antisemitismo e ora in procinto di lanciare una nuova formazione politica. Tra le altre cose fotografato, nel 2014, mentre partecipava a una cerimonia sulla tomba di uno dei terroristi delle Olimpiadi di Monaco ’72. Lo stesso Corbyn che, dopo il 7 ottobre 2023, durante un’intervista si è rifiutato più volte di definire Hamas come «organizzazione terroristica». Oltre a Bonelli e Corbyn, c’era nella capitale britannica anche l’ex ministro greco di estrema sinistra Yanis Varoufakis, ad aprile 2024 bandito da una conferenza sulla Palestina in Germania con l’accusa di stimolare «potenziali discorsi d’odio». Alla stessa iniziativa presenti attivisti del Movimento Bds, in prima linea per il boicottaggio di qualsiasi prodotto provenga da Israele. E ora da Siracusa la celebrazione della Flotilla.
“Noi con Barghouti non con i coloni”. Il PD: “in Cisgiordania piano di pulizia etnica”
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di Umberto De Giovannangeli
“Noi con Barghouti non con i coloni”. Il PD: “in Cisgiordania piano di pulizia etnica”
In Cisgiordania la pulizia etnica passa anche per lo sport. «Abbiamo fatto una visita in Cisgiordania dal 23 al 28 novembre. Abbiamo girato in varie città e incontrato molte personalità politiche, il mondo delle università e delle Ong e il mondo dello sport. Perché la visita nasce dall’invito che Marco Berruto ha ricevuto dal Comitato Olimpico palestinese. Ritorniamo in Italia con l’impressione che la Cisgiordania è strangolata da un regime del terrore imposto da Benjamin Netanyahu che si basa su arbitrio e violenza, espropriazioni, sorveglianza capillare e compressione di ogni libertà di movimento. Questo per rendere impossibile la vita dei palestinesi e per costringerli ad andarsene. Questo viene fatto in pieno stile di pulizia etnica». A denunciarlo è Laura Boldrini, parlamentare Pd e Presidente del Comitato permanente della Camera sui diritti umani nel mondo, nella conferenza stampa alla Camera organizzata dai parlamentari dem che hanno partecipato alla missione in Cisgiordania. Alla Conferenza stampa sono intervenuti il responsabile Sport del partito Mauro Berruto, le deputate Ouidad Bakkali, Sara Ferrari e Valentina Ghio, e l’ex ministro dem Andrea Orlando. «Il principio di pulizia etnica si manifesta anche nello sport, la carta olimpica è costantemente violata», ha sottolineato Berruto. «Chi ha visto ha il dovere di raccontare, noi ci troviamo davanti a un piano di pulizia etnica», ha incalzato Orlando. Bakkali, raccontando l’incontro con i parlamentari di opposizione alla Knesset, ha parlato di «leggi fascistissime» e di «emergenza Matteotti». «Sono saltati tutti gli argini dello stato di diritto», ha aggiunto. Boldrini è tornata inoltre su alcuni momenti di tensione vissuti durante la missione. «Nel viaggio tra la Cisgiordania e Gerusalemme – ha raccontato – abbiamo sentito una forte esplosione mentre procedevamo verso un gate che era stato chiuso. L’Idf ha lanciato bombe stordenti contro le macchine e ci siamo rifugiati in una stradina vicina, e poi da una famiglia palestinese. Abbiamo informato il console e l’ambasciata. Poi, all’apertura del gate, siamo tornati al nostro pulmino e siamo tornati a Gerusalemme. La nota della Farnesina dice che siamo stati trasferiti su una macchina del console e che siamo stati scortati. Noi siamo assolutamente sorpresi dalla versione della Farnesina che non corrisponde ai fatti che sono accaduti». «All’arrivo a Tel Aviv, all’aeroporto, siamo stati bloccati per oltre due ore e interrogati. Ci hanno chiesto di assumerci la responsabilità per iscritto di non fare nessuna attività contro lo stato di Israele, ovviamente non ho firmato niente ma questo è il clima», ha proseguito Boldrini. «Quando i ministri degli esteri di Germania, Gran Bretagna e Italia scrivono a Netanyahu chiedendo di bloccare i coloni – ha aggiunto – allora questo è il massimo dell’ipocrisia. Il governo è un governo di coloni. I ministri dovrebbero impedire tutto questo con sanzioni, con lo stop alla vendita di armi a Israele e ai rapporti commerciali con Israele. Se non c’è una pressione esterna il clima peggiora sempre di più». Nel corso della conferenza stampa, i parlamentari hanno anche mostrato un video in cui il figlio di Marwan Barghouti chiede sostegno al «popolo italiano per la liberazione del padre». «Noi stiamo con Marwan Barghouti e non con i coloni», ha concluso Boldrini.
L`imam pro 7 ottobre ora diventa un martire anche i collettivi francesi si uniscono alla lotta.
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di Redazione
L`imam pro 7 ottobre ora diventa un martire anche i collettivi francesi si uniscono alla lotta.
L’imam pro 7 ottobre ora diventa un martire Anche i collettivi francesi si uniscono alla lotta Il leader islamico aspetta l’espulsione. I pm hanno archiviato E la gauche attacca il governo: «Danni al dialogo religioso» SHAHIN, IL CASO DI TORINO Tutto normale. A quanto pare non c’è niente di male nell’approvare gli attacchi del 7 ottobre. La sinistra, poi, non ha niente da dire di fronte all’imam Mohamed Shahin (foto) che considera Hamas una «legittima resistenza» e si dice «d’accordo» con la data del massacro perpetrato in Israele. E figurarsi se hanno da eccepire nel cosiddetto «partito musulmano». Anzi, se la sinistra difende l’imam dal provvedimento di espulsione, definendolo «pura volontà politica», alcuni esponenti islamici, come «i Piccardo», si scatenano parlando di una «gogna», e di una «vendetta politica» che mostrerebbe «asservimento alla lobby sionista». Qualche giorno fa è stato convocato un presidio, dell’associazione dei Palestinesi in Italia di Mohammed Hannoun. E ora la mobilitazione per il leader religioso di Torino varca le Alpi, tanto che perfino un collettivo francese estremista («Urgence Palestine») ne chiede la libertà, al grido di «Liberez Shahin! Liberez la Palestine!». Si va delineando, insomma, il caso dell’imam torinese. Protagonista del delirante comizio del 9 ottobre in piazza Castello, poi destinatario di un provvedimento di espulsione firmato dal ministero dell’Interno e ora trattenuto nel Cpr di Caltanissetta con la prospettiva di essere rimpatriato in Egitto e consegnato ad autorità che hanno mostrato ben poca tolleranza nei confronti dell’islam politico. «Quel che è successo il 7 ottobre 2023 non è una violazione, non è una violenza» aveva detto Shahin di fronte a centinaio di persone riunite in piazza. E secondo quanto emerso ieri, la procura piemontese il 16 ottobre aveva già disposto l’archiviazione di un fascicolo che originava da una segnalazione della Digos su quel sermone ideologico dedicato al Medio Oriente. Questo sul piano penale. «Non è possibile che il ministro Piantedosi consideri “pericolose” delle frasi che secondo la magistratura non configurano estremi di reato» ammonisce adesso Gianluca Vitale, legale di Shahin. E sul Viminale si innesta il piano politico della vicenda. La sinistra, ormai definitivamente votata alla causa oltranzista dei pro Pal, ha difeso a spada tratta Shahin. Non solo i Cub, anche la sinistra ufficiale, che ora pare voglia mettere sotto accusa il governo. Già il Campo largo aveva preso le difese dell’imam, chiedendo al Viminale «l’immediata sospensione» dell’espulsione. «Siamo di fronte a un uso politico del diritto – avevano dichiarato – la libertà di espressione viene trattata come un reato, il dissenso come una minaccia». «Espellere un dissidente – dicevano – significa tradire i principi dello Stato di diritto». Un «dissidente». E ieri, alla notizia dell’archiviazione disposta a suo tempo dalla procura, la sinistra ha provato a incalzare, innanzitutto con Marco Grimaldi di Avs («Il ministro ha adottato un provvedimento così grave senza una seria istruttoria, o ha mentito?»). Paradossali, poi, le conclusioni di Alice Ravinale, consigliere regionale in Piemonte, secondo la quale il governo sta «costruendo un precedente pericoloso per ciò che concerne la libertà di espressione che metterebbe in crisi il dialogo interreligioso».
Albanese indifendibile, anche Bonelli e Boldrini la stroncano
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di Redazione
Albanese indifendibile, anche Bonelli e Boldrini la stroncano
Anche Bonelli prende una posizione netta contro le parole di Francesca Albanese sul “monito” ai giornalisti dopo l’assalto rosso alla Stampa di Torino. E ancora più clamoroso è che anche Laura Boldrini esprima parole di fuoco contro la relatrice speciale per la Palestina. Dopo l’avvertimento “minaccioso” ai giornalisti, la Albanese ha scatenato l’insurrezione della parte politica di sinistra. di Redazione Clamoroso, anche Bonelli prende una posizione netta contro le parole di Francesca Albanese sul “monito” ai giornalisti dopo l’assalto rosso alla Stampa di Torino. E ancora più clamoroso è che anche Laura Boldrini esprima parole di fuoco contro la relatrice speciale per la Palestina. Dopo l’avvertimento “minaccioso” ai giornalisti, la Albanese ha scatenato l’insurrezione della parte politica di sinistra. Poi il tira e molla della revoca delle onoreficienze tributate alla Albanese: prima Bologna, ma poi il centrosinistra ci ha ripensato. Poi Firenze, con la sindaca Sara Funaro che ha dichiarato inopportuna la cittadinanza onoraria. L’imbarazzo per una ex icona della sinistra è evidente. Eppure c’è chi ancora non la critica del tutto, ma la giustifica. Per questo spicca che uno come Angelo Bonelli che ha sempre sostenuto le posizioni di Albanese sulla Palestina e contro Israele, abbia avuto un moto di orrore. L’ha sempre difesa dagli attacchi. Eppure il colmo è stato raggiunto anche per il leader dei Verdi”L’attacco alla redazione de La Stampa è stato un attacco vigliacco, criminale, come l’attacco nell’ottobre 2021 alla Cgil che definimmo un attacco alla democrazia – ha spiegato il coportavoce dei Verdi a microfoni di Start su Sky TG24 -. Anche quello è stato un attacco alla democrazia e quindi va condannato, non ci può essere il ‘ma’ dopo“. Senza se e senza ma, dunque, Bonelli stronca la Albanese e completa il suo pensiero: “Non ci possono essere giustificazioni di nessun tipo. Francesca Albanese ha condannato e si doveva fermare a quel punto. I giornalisti fanno il proprio mestiere. Bisogna rispettare il gioco della democrazia“. Anche Laura Boldrini è sulla stessa lunghezza d’onda: “Io penso che Francesca Albanese abbia fatto in questi anni un grande lavoro come relatrice speciale. L’affermazione sull’attacco alla redazione della Stampa dei giorni scorsi non la condivido e ritengo che sia sbagliata. punto. Senza se e senza ma”. L’ex presidente della Camera ha parlato in una conferenza stampa organizzata dal Pd alla Camera. E si è dissociata da quanto detto in merito all’assalto condotto contro la redazione de La Stampa di Torino. I protagonisti sono stati gli antagonisti che, in base alle indagini finora condotte, e anche alla rivendicazione social, sono riconducibili al centro sociale Askatasuna. L’ego smisurato di Francesca Albanese non si ferma. E dopo aver saputo della decisione della sindaca di Firenze sulla revoca della cittadinanza ha commentato su X citando Dante: “Purché mi sia risparmiato l’esilio perpetuo….”.
Un po` tardi per svegliarsi
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di Alberto Giannoni
Un po` tardi per svegliarsi
Un po’ tardi per svegliarsi B isogna sapere scegliere in tempo, e su Francesca Albanese lo hanno fatto in pochi. Politici, opinionisti e volti tv ora fanno a gara a scendere dal carro della relatrice Onu caduta in disgrazia per una serie di incresciosi passi falsi. Eppure era osannata dall’intera sinistra: la mobilitazione anti-Israele l’aveva innalzata a leader, circondata da un’aura quasi religiosa: un po’ influencer e un po’ sacerdotessa dell’antisionismo. Eppure, se la scalata e la permanenza nel suo incarico di «rapporteur» sulla Palestina si spiega solo con lo stato attuale dell’Onu, egemonizzata da non-democrazie, la parabola discendente di Albanese ora si spiega facilmente con le «lotte» che pretende di incarnare. Conchita De Gregorio ha ammesso che il giorno prima del blitz della Stampa «aveva in animo» di partecipare al corteo di Genova: si è ricreduta dopo aver sentito gli slogan che risuonavano. Ma come è possibile? C’è chi da anni segue quei cortei, inorridisce ai cori pro Intifada, racconta le aggressioni alla Brigata ebraica il 25 aprile e i cartelli contro Liliana Segre, tutti segnali ignorati o flebilmente biasimati da una sinistra impegnata a tapparsi occhi e orecchie. Era chiarissimo dove si stava andando a parare. Così, leggendo i social di Albanese, i suoi faziosissimi rapporti ma anche i giornali degli anni Settanta-Ottanta, si vede bene che la narrazione sul «genocidio» e contro Israele («nazista» ecc) viene da molto lontano. È cambiata, certo, oggi è «fluida» e social. È stata adattata da uno schema Guerra fredda (est-ovest) a uno woke (nord-sud). Ma si vedono ancora le impronte digitali della sinistra comunista.
Sinistra in fuga dalla Albanese Persino la Boldrini ora la scarica.
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di Pasquale Napolitano
Sinistra in fuga dalla Albanese Persino la Boldrini ora la scarica.
Albanese scaricata perfino dalla Boldrini Prime prove di partito musulmano con la regia di Mimmo Lucano Pasquale Napolitano a pagina 14 Sinistra in fuga dalla Albanese Persino la Boldrini ora la scarica Le sue parole sull’assalto a La Stampa eccessive pure per chi l’aveva glorificata La funzionaria contro la sindaca dem di Firenze: «Il mio esilio non sia perpetuo» La scomunica di Laura Boldrini contro l’eroina dei pro Pal mette il sigillo definitivo: il Pd «molla» Francesca Albanese. È iniziata la grande fuga. La sinistra scappa dopo l’ennesima uscita infelice. La relatrice speciale dell’Onu per la Palestina, l’icona dei movimenti di piazza cui Fratoianni e Bonelli volevano consegnare il Nobel per la pace, diventa l’impresentabile. Tutti in fila a prendere le distanze. Quasi un’appestata. Ma la pietra tombale la mette l’ex presidente della Camera. Laura Boldini, che per prima aveva aperto le porte di Montecitorio alla giurista accusata di simpatie verso Hamas, si smarca dopo le parole sull’assalto a La Stampa: «Io penso che Albanese abbia fatto un grande lavoro come relatrice speciale, ma non posso condividere quello che ha detto. L’affermazione sull’attacco alla redazione della Stampa non la condivido e ritengo che sia sbagliata. Un attacco va condannato, punto. Senza se e senza ma». Pure Boldrini volta le spalle all’eroina dei pro Pal. Non c’è più nessuno a difendere l’ormai ex stella della sinistra italiana. A Napoli il sindaco Gaetano Manfredi blocca l’iter per la concessione della cittadinanza onoraria e chiede un supplemento di riflessione. È la riscossa dei riformisti nel Pd. Un sussulto dopo l’innamoramento. A Firenze la sindaca dem Sara Funaro non la vuole come concittadina: «Io ho preso una posizione che mi sembra chiara. Prima di tutto, ci tengo a ribadirlo, mi unisco ancora al coro unanime di condanna per quello che è avvenuto a La Stampa per le aggressioni che sono state gravissime. Le affermazioni che sono state fatte da Francesca Albanese, di fare una condanna condizionata, le ho trovate molto gravi perché la stampa è libera e presidio di democrazia. Firenze è sempre stata una città che ha dato riconoscimenti a personaggi importanti, la città dei ponti, della pace e la città che unisce. Io penso che, non solo le ultime dichiarazioni su La Stampa, ma anche tante altre posizioni che porta Francesca Albanese siano più divisive che unificative e questo non rappresenta la città di Firenze». Vince Matteo Renzi che può festeggiare: «Non avrà la cittadinanza onoraria di Firenze. E vorrei ben vedere. Le dichiarazioni di sabato contro La Stampa – che era stata appena aggredita in sede da centri sociali ed estremisti pro Pal – sono imbarazzanti. Quelle su Liliana Segre addirittura infami. Non vedo un solo motivo per riceve una onorificenza così prestigiosa». Scappa anche Angelo Bonelli, al bis di gaffe dopo Soumahoro: «Non ci possono essere giustificazioni di nessun tipo. Francesca Albanese ha condannato e si doveva fermare a quel punto. I giornalisti fanno il proprio mestiere, bisogna rispettare il gioco della democrazia». Proprio Bonelli la voleva candidata al Nobel per la Pace. La relatrice però non fa drammi e si cala subito nella parte della perseguitata. Addirittura si paragona a Dante: «Purché mi sia risparmiato l’esilio perpetuo», ha scritto Albanese sul social X, rispondendo a un tweet di Tgcom24, che riportava il pensiero di Funaro. Un commento che pare un riferimento a quanto subìto dal Sommo poeta. Per l’esilio si aprono le porte della sua terra: la Campania. Nella squadra di assessori della futura giunta Fico spunta proprio il nome di Francesca Albanese. Sostenuta dal M5s. Non a caso il partito di Conte è quello ad avere una posizione morbida contro Albanese anche dopo le parole sull’assalto a La Stampa. A Padova la sinistra si divide. A Bologna, invece, passa la linea pro Albanese e Lepore si accoda. Così come a Bari. Per Vito Leccese Francesca Albanese è intoccabile.
Albanese ha l’impunità speciale, è libera di bersagliare i giornalisti
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di Iuri Maria Prado
Albanese ha l’impunità speciale, è libera di bersagliare i giornalisti
Accusare di fare apologia di reato? La relatrice Onu, per il giudice, può Non meravigliamoci se poi parla dell’assalto alla Stampa come monito Iuri Maria Prado L’ estate dell’anno scorso, dai propri profili social, Francesca Albanese scriveva che “sulla questione Israele/Palestina I’Italia vanta il giornalismo meno etico dell’Europa occidentale”, e accusava i giornalisti che non le piacevano di fare “apologia di reato” (perché non raccontavano quella questione come voleva lei). Non è dunque la prima volta che Francesca Albanese se la prende con la stampa che le sta antipatica. Lo fa da sempre, accusando di ogni nefandezza il giornalismo che non elogia la militanza della “special rapporteur” contro Israele, contro le Comunità ebraiche e contro gli ebrei colpevoli – a suo giudizio – di non denunciare “il genocidio e l’apartheid”. Il problema è che questa disinvolta attivista si sente libera di lasciarsi andare a quelle requisitorie contro i giornalisti insubordinati ai suoi protocolli per un motivo preciso: e cioè perché glielo si lascia fare. Perché è, letteralmente, impunita. Dico “letteralmente” perché si tratta di un’impunità che non si forma soltanto in ambito politico e televisivo ma, ben più gravemente, trova sfogo anche in sede giudiziaria. Quando un giudice, infatti, ritiene che sia perfettamente legittimo, da parte di Francesca Albanese, accusare la stampa in generale e i commentatori che non le garbano di fare “apologia di reato sulla questione Israele/Palestina”, legittima una pratica che non ha nulla a che fare con l’esercizio del diritto di critica. Fare apologia di reato significa commettere un reato, e accusare qualcuno di fare apologia di reato significa accusarlo della commissione di un reato. Ma per il giudice (stiamo parlando di un’ordinanza di qualche settimana fa), Albanese si è limitata in quel modo a esprimere “una critica ‘caratterizzata da forte asprezza’ nei confronti della stampa e degli opinionisti italiani”: i quali sarebbero “incapaci di valutare in modo sereno e obiettivo le azioni compiute dall’esercito israeliano ai danni del popolo palestinese”. Senonché, almeno fino a prova contraria, dire che i giornalisti che non le piacciono sono “incapaci di valutare…” eccetera eccetera è una cosa: dire che delinquono è un’altra cosa. Ora Francesca Albanese dice che l’assalto alla redazione di un giornale rappresenta “un monito”, così che i giornalisti si mettano finalmente in riga per “tornare a fare il proprio lavoro”. Noi abbiamo la sensazione che non si sarebbe concessa il lusso di quello sproposito se un giudice, prima, non le avesse concesso l’impunità di dire che i giornalisti a lei sgraditi sono criminali.
L’Università di Pavia si vergogna di aver cacciato il prof israeliano?
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di Redazione
L’Università di Pavia si vergogna di aver cacciato il prof israeliano?
All’ateneo è stato chiesto di fare luce sull’allontanamento del docente. Rinnegato il contenuto di un verbale attribuito al Senato Accademico. Ci siamo occupati nei giorni scorsi, su queste pagine, del caso del professore ebreo (pardon, israeliano) allontanato dall’Università di Pavia. Ci sono sviluppi interessanti. Alle 15.10 del 19 novembre scorso veniva fatto circolare il resoconto dell’ultima seduta (17 novembre) del Senato Accademico di quell’ateneo. Nella seduta si faceva riferimento, tra l’altro, al caso riguardante quel professore. Questo il testo del resoconto: “Si è dimessa la prof.ssa Corgnati, componente esterna del CdA, per ragioni personali e in disaccordo con la sospensione dei rapporti con un docente israeliano (visiting a Farmacologia che si è autodenunciato come membro dell’IDF), conseguenza della mozione approvata dal Senato il mese scorso”. Successivamente, il portale web dell’Università pubblicava un sunto di quel verbale e, a proposito della vicenda, annotava soltanto: “Dimissioni componente esterno Consiglio di Amministrazione PRESO ATTO”. Il 23 novembre era richiesto all’Università di Pavia e al Rettore di rendere note le ragioni dell’allontanamento del professore ebreo (pardon, israeliano), nonché le ragioni delle dimissioni di quella professoressa. Appariva senz’altro importante, infatti, che il pubblico, nonché gli studenti e gli operatori dell’Università, sapessero – come il verbale della seduta faceva sapere – che il professore era stato cacciato perché si era “autodenunciato come membro dell’Idf” e che quella professoressa si era dimessa perché era in disaccordo con quel provvedimento. Con comunicazione del 1° dicembre, l’Università rispondeva a quella richiesta di informazioni spiegando che i verbali sono approvati “nella seduta immediatamente successiva”, e che “in nessuna bozza esistente al momento è presente il virgolettato” citato. Bum. Perché delle due, l’una. O il membro del Senato Accademico che ha fatto circolare il resoconto ha confezionato un falso, riferendo circostanze inesistenti e attribuendo al Rettore dichiarazioni che egli non ha fatto; oppure l’Università riferisce il falso quando, il 1° dicembre, argomenta che “nessuna bozza” reca quei riferimenti e quelle dichiarazioni. Nei due casi, si tratterebbe di una bruttissima faccenda. Il dato di fatto è che il docente ebreo (pardon, israeliano) è stato cacciato. È comprensibile che l’Università di Pavia e il Rettore siano in una situazione di imbarazzo nel dover rendere pubblico che è stato cacciato perché si è “autodenunciato come membro dell’Idf”. È comprensibile che siano in imbarazzo nel vedere pubblicate le ragioni per cui quella professoressa, in dissenso, si è dimessa. Ma non dovrebbero ricorrere a questi espedienti per uscire dall’angolo. Anche perché non ne escono, anzi: ci si schiacciano in modo tanto più imbarazzante. La smettano di ciurlare nel manico. Hanno fatto fuori l’ebreo (pardon, l’israeliano) perché ha la colpa che grava su pressoché tutti gli israeliani idonei, e cioè di aver fatto parte dell’esercito di popolo dello Stato ebraico. Una docente, dimettendosi, ha denunciato quella vergogna. L’Università di Pavia vuole rivendicare tutto questo? Liberissima. Ma non pretenda che tutto questo rimanga sotto al tappeto.
Bennett prepara la corsa per il 2026 Può formare una lista con Eisenkot
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di Giuseppe Kalowski
Bennett prepara la corsa per il 2026 Può formare una lista con Eisenkot
L’ex premier di Israele: sì alla grazia per Netanyahu, a patto che poi si ritiri dalla politica Vuole approfittare del forte consenso popolare, magari insieme al già Capo di Stato maggiore L’Iran aumenta la pressione su Hamas ed Hezbollah e tenta di destabilizzare al-Jolani TEL AVIV N aftali Bennett, già premier di Israele prima dell’attuale governo Netanyahu, ha appoggiato la richiesta di grazia di Bibi, condizionandola però al suo ritiro dalla politica. Una posizione che appare più come una mossa di apertura della campagna elettorale che come una reale volontà di accordo politico e costituzionale, soprattutto considerando che Netanyahu ha già dichiarato di volersi ricandidare alle prossime elezioni, previste entro ottobre 2026. Bennett, uomo religioso e di destra – il suo partito, sciolto prima delle ultime elezioni, si chiamava Yamina, che in ebraico significa “destra” – è oggi l’unico, dopo il declino di Gantz, a riscuotere un forte consenso nei sondaggi. È anche l’unico che, secondo le rilevazioni, potrebbe ottenere un numero di seggi simile al Likud, formando una nuova lista insieme all’ex Capo di Stato maggiore Gadi Eisenkot, figura molto rispettata nel Paese dopo la perdita del figlio in battaglia a Gaza, e uscito dal partito Blue and White di Gantz. Un’opposizione guidata da Bennett potrebbe realisticamente ambire a guidare Israele nella prossima legislatura. Nel frattempo, sono già iniziati i primi sit-in davanti alla residenza del Presidente Herzog da parte di chi si oppone fermamente alla grazia. Il Paese sembra avviarsi verso un nuovo “autunno caldo”, simile a quello delle grandi proteste contro la riforma della giustizia, prima del 7 ottobre 2023. Per ora, la richiesta di Netanyahu ha avuto l’effetto di aumentare la polarizzazione dell’opinione pubblica, piuttosto che avviare quel processo di riconciliazione che il premier dichiarava di auspicare. Il Presidente Herzog, che dovrà decidere se concedere o meno la grazia, ha già trasmesso la richiesta al Dipartimento per le Grazie del Ministero della Giustizia, competente per queste procedure. Ha inoltre fatto sapere che la decisione – qualunque essa sia non arriverà prima di alcuni mesi. Sul fronte esterno, la tregua si trova in una fase di stallo, con un concreto rischio di una ripresa delle ostilità. L’Iran sta aumentando la pressione su Hamas ed Hezbollah affinché tornino al conflitto. In questo contesto si inserisce anche il colloquio telefonico tra Trump e Netanyahu: il Presidente americano ha invitato il premier israeliano alla Casa Bianca, senza però indicare una data. In Siria, l’Iran tenta di destabilizzare al-Jolani per ampliare la propria influenza, con l’appoggio della Russia. Per Israele, ciò rende ancora più strategica la presenza della zona cuscinetto in Siria, fondamentale per la sicurezza del Golan. Nella notte tra il 28 e il 29 novembre, l’Idf ha compiuto un blitz nel villaggio di Beit Jinn, nel sud della Siria, a circa 40 chilometri da Damasco, arrestando due miliziani di al-Jamaa al-Islamiyya, una filiale dei Fratelli Musulmani. Durante il ritiro, le forze israeliane sono state colpite da un’imboscata che non ha compromesso l’operazione ma ha provocato il ferimento di sei soldati riservisti, due dei quali in condizioni gravi, e l’uccisione di almeno 14 miliziani. La situazione nel triangolo Israele-Siria-Libano rimane in continua evoluzione e, per essere risolta pacificamente, potrebbe richiedere un’altra “magia diplomatica” del Presidente Trump.
Trump invita Netanyahu alla Casa Bianca e avverte: “Non destabilizzare la Siria”.
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di Paolo Fruncillo
Trump invita Netanyahu alla Casa Bianca e avverte: “Non destabilizzare la Siria”.
La crisi mediorientale sta vivendo una nuova accelerazione politica e militare. Donald Trump ha chiamato Benjamin Netanyahu invitandolo alla Casa Bianca “nel prossimo futuro” e mettendo in guardia Israele dal rischiare una nuova escalation in Siria. La telefonata arriva dopo l’incursione avvenuta venerdì scorso nella Siria meridionale, la più mortale dall’inizio del conflitto interno seguito alla caduta del presidente Bashar al Assad, rovesciato quasi un anno fa. Damasco denuncia tredici morti e parla di “crimine di guerra”, mentre Tel Aviv sostiene di aver colpito un gruppo islamista. “È fondamentale che Israele mantenga un dialogo forte e genuino con la Siria” ha scritto Trump su Truth Social, avvertendo che qualsiasi interferenza potrebbe compromettere la transizione del Paese verso uno “stato prospero”. In una nota, il governo israeliano ha fatto sapere che Trump e Netanyahu hanno discusso di Ga2a, ribadendo “l’impegno a disarmare Hamas e a smilitarizzare la Striscia” e affrontando il tema dell’estensione degli accordi di pace regionali. GAZA, NUOVI RAID Nonostante la tregua annunciata a metà ottobre, la situazione nella Striscia resta gravissima. Secondo l’agenzia palestinese Wafa, dall’entrata in vigore del cessate il fuoco le vittime a Ga2a sono almeno 356 e i feriti 909. Ieri tre palestinesi sono stati uccisi in episodi separati: un fotoreporter colpito nella zona di Al Bureij, un uomo ucciso da un drone a Khan Yunis e un altro nel quartiere di Zeitoun. L’esercito israeliano afferma inoltre di aver eliminato due “terroristi” che avrebbero attraversato la linea gialla nel nord della Striscia. Continuano anche le trattative sugli ostaggi. Fonti della difesa citate dal Times of Israel sostengono che Israele si stia preparando a ricevere dei “resti” trasferiti da Hamas tramite la Croce Rossa, anche se non vi è alcuna conferma ufficiale. Restano non restituiti i corpi di Ran Gvili, poliziotto ucciso il 7 ottobre, e del cittadino thailandese Sudthisak Rinthalak. Hamas e la Jihad islamica hanno ripreso le ricerche a Beit Lahia. CISGIORDANIA: UN MORTO A RAMALLAH In Cisgiordania le tensioni restano altissime. Le forze israeliane hanno chiuso tutti gli ingressi principali nell’area settentrionale di Ramallah e rafforzato la presenza nei villaggi circostanti. Secondo il Times of Israel, un palestinese è stato ucciso dai soldati dopo aver accoltellato due militari nei pressi dell’insediamento di Ateret. I due soldati sono rimasti feriti in modo lieve. Intanto prosegue l’indagine aperta da Israele sull’aggressione compiuta da una decina di coloni armati contro tre cooperanti italiani e un canadese nel villaggio di Ein el Duyuk, vicino Gerico. Gli attivisti, parte della campagna Faz3a, raccontano che i coloni sarebbero tornati già ieri pomeriggio “a bordo di quad, per terrorizzare i residenti”. Denunciano attacchi quasi quotidiani: vandalismi, furti di bestiame, porte divelte, vetri rotti, perfino capre rubate. Ein el Duyuk si trova in Area A, sotto controllo dell’Autorità palestinese, ma la polizia locale avrebbe “poteri molto limitati” per il timore di rappresaglie. Secondo gli attivisti, l’esercito israeliano “si rifiuta quasi sempre di intervenire”, e nelle aree B e C interviene “per arrestare palestinesi”. BRITANNICI ADDESTRATI IN ISRAELE, È POLEMICA A Londra si apre un fronte politico interno. Il governo di Keir Starmer ha ammesso che “meno di cinque” ufficiali britannici hanno seguito corsi di formazione in Israele negli ultimi due anni, nonostante le accuse di crimini di guerra rivolte alle Idf per la campagna su Ga2a dopo il 7 ottobre 2023. L’ammissione arriva dal sottosegretario alla Difesa Al Carns, i
n risposta a un’interrogazione della deputata Zarah Sultana. Lo stesso sito Declassified aveva rivelato che anche militari israeliani hanno frequentato corsi al Royal College of Defence Studies, tra cui Yeftah Norkin, poi impegnato in operazioni nel sud del Libano. “Inconcepibile”, ha commentato il generale britannico in pensione Charlie Herbert.
Hamas restituisce un altro cadavere: si avvicina la fine della ” fase uno “
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di Riccardo Antoniucci
Hamas restituisce un altro cadavere: si avvicina la fine della ” fase uno “
Sono stati consegnati ieri alle autorità israeliane i resti di un cadavere che Hamas afferma essere di uno degli ultimi ostaggi del 7 ottobre 2023 ancora nella Striscia. Ran Gvili e Sudthisak Rinthalak sono gli ultimi due nomi sulla lista della prima fase del cessate il fuoco. Dopo la restituzione, la tregua entrerà formalmente nella “fase due”, che prevede la ricostruzione e il disarmo di Hamas, anche se gli sforzi dei mediatori e degli Usa non sono riusciti ancora a superare le distanze tra le parti. Intanto la Striscia resta divisa in due, ed esplodono di tanto in ALTRI RAID tanto violenze. UCCISO Ieri l’aviazione israeliana ha ucciso, UN REPORTER due palestinesi È IL SECONDO che si erano DA OTTOBRE avvicinati al confine conosciuto come yellow line, in due bombardamenti a nord e a sud di Ga2a. Uno dei due uccisi era il giornalista Mohammad Wadi, fotoreporter che si trovava sul campo insieme al collega Mohammed Abdel Fattah Aslih, rimasto ferito. È il 257° giornalista ucciso dall’inizio del conflitto (secondo le stime più alte), il secondo dalla firma del cessate il fuoco il 10 ottobre. Il governo israeliano intanto continua a minacciare nuove operazioni militari verso altri confini. In Siria, dove l’Idf prosegue le manovre nella zona cuscinetto: Benjamin Netanyahu ha risposto con un video a Donald Trump che lo invitava a non ostacolare la normalizzazione di Damasco, affermando che un accordo è possibile, ma solo mantenendo la buffer zonemilitare tra i due Paesi. È alta la tensione anche con il Libano, dove Israele denuncia che Hezbollah si sta ricostituendo. Nel giorno in cui si è conclusa la visita di papa Leone XIV, e la magistratura di Beirut ha ripreso le indagini sull’esplosione del porto del 2020, l’Idf ha accusato la milizia sciita di essere dietro l’assassinio di quattro funzionari libanesi che indagavano sul caso.
Intervista a Hussein Ayoub – «Hezbollah è più debole ma la sua base resta unita»
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di Michele Giorgio
Intervista a Hussein Ayoub – «Hezbollah è più debole ma la sua base resta unita»
II Dominatore per venti anni assieme ai suoi alleati interni e regionali della politica interna libanese, forte delle sue ampie capacità militari nello scontro con il suo nemico principale, Israele, da quando è stato siglato il cessate il fuoco un anno fa il movimento sciita Hezbollah vive una fase di profonda incertezza. I colpi subiti durante la guerra, a cominciare dall’assassinio del suo leader Hassan Nasrallah, le pressioni interne e le discussioni sul suo disarmo, l’hanno in parte indebolito. Ne abbiamo parlato con l’analista Hussein Ayoub, esperto del movimento sciita. L’abbiamo incontrato a Beirut. Come leggere il quadro politico libanese e la situazione interna a Hezbollah? Siamo in una fase di transizione che dura da circa un anno. Quando il Libano, o meglio Hezbollah, è entrato nella guerra di sostegno a Gaza il 28 ottobre 2023, ci siamo trovati di fronte a una nuova realtà. Questo cambiamento ha raggiunto il punto più alto con il cessate il fuoco tra Libano e Israele, il 27 novembre 2024. Le regole che valevano prima di quella data erano una cosa, quelle che sono seguite un’altra. Hezbollah nella guerra ha subito colpi estremamente dolorosi. Nello scontro terrestre con l’esercito israeliano è riuscito a impedirgli di entrare in profondità nel territorio libanese, ma sul piano della potenza di fuoco complessiva Israele è riuscito a uccidere la leadership di Hezbollah, a far esplodere i bunker sotterranei e a eliminare i comandanti della brigata Radwan. Conta anche la vicenda clamorosa delle esplosioni dei cercapersone che hanno colpito direttamente militanti e dirigenti del movimento sciita. Infine, Israele ha saputo spezzare l’equilibrio della deterrenza con Hezbollah in vigore dal 2006. Per vent’anni, Hezbollah ha potuto rispondere colpo su colpo e imporre non poche volte le sue condizioni a Israele. Questo equilibrio non c’è più. È apparso evidente l’indebolimento di Hezbollah anche nel quadro politico libanese. Ad accentuarlo è stato un evento regionale decisivo per le sorti attuali del movimento. La tregua sarebbe potuta passare come un evento ordinario, simile all’accordo di cessate il fuoco del 2006, e offrire al movimento sciita il tempo e il modo per assorbire i colpi ricevuti e riorganizzarsi. Ma il 9 dicembre 2024 c’è stato un avvenimento di portata sismica: il regime siriano di Bashar Assad, pilastro fondamentale per Hezbollah e Iran, è crollato. Quanto era importante? Quando la linea di rifornimento tra Beirut e Teheran passando per la Siria era aperta, Hezbollah era una cosa; dopo la caduta di Assad è un’altra. Oggi Hezbollah non può far entrare nemmeno un dollaro attraverso l’aeroporto di Beirut. Perfino i rappresentanti iraniani, quando arrivano in Libano, vengono controllati nei loro bagagli alla ricerca di dollari o di qualsiasi altra cosa. Di conseguenza la possibilità che ora Hezbollah possa aumentare il proprio arsenale militare in tempi rapidi è remota. Una condizione che inevitabilmente ha offerto agli avversari interni ed esterni di cogliere nuove opportunità. Ciò che Hezbollah non avrebbe mai accettato prima dell’accordo sul cessate il fuoco, ha dovuto accettarlo dopo l’accordo, come l’elezione del generale Joseph Aoun alla presidenza della repubblica e del giudice Nawaf Salam alla guida del governo (entrambi vicini all’Occidente, ndr). Certo, un anno dopo il cessate il fuoco, la sua situazione è migliorata. Oggi la sua struttura organizzativa e militare si è in parte ristabilita. Ma quali siano le sue capacità effettive, credo che nessuno abbia una risposta precisa. Ora si dibatte sul disarmo. Al momento del cessate il fuoco la visione statunitense e israeliana escludeva le armi di Hezbollah solo a sud del fiume Litani. Ma quando Assad è caduto, questa visione si è estesa. E ora affermano che Hezbollah dovrà cedere le armi ovunque in Libano. L’esercito libanese potrebbe usare la forza per costringere Hezbollah a cedere le armi? L’esercito libanese e anche il presidente Aoun sanno che il costo di uno scontro sarebbe enorme, a partire dalla possibile frattura interna dell’esercito e dall’uscita dei militari sciiti dai suoi ranghi. Al contrario potrebbe spingere verso una guerra civile all’interno del Libano. Allo stesso tempo, il disarmo di Hezbollah potrebbe diventare un dossier regionale, affrontato nel quadro dei rapporti tra Stati Uniti e Iran e tra Iran e Arabia Saudita. Quanto sono vere le voci di spaccature interne al movimento sciita e dell’insoddisfazione della sua base per la posizione moderata del segretario generale Naim Qassem? Chi si occupa di Hezbollah spesso non comprende a fondo i mondi interni del partito. Si tratta di un partito ideologico, dotato di una struttura organizzativa centrale e di una guida religiosa in Iran. La perdita del segretario generale, Sayyed Hassan Nasrallah, e poi del suo successore Sayyed Hashem Safieddine, rappresentano per il partito un duro colpo. Ma la natura di Hezbollah non permette margini che possano trasformarsi in divisioni capaci di minacciare la sua unità, come avviene nella maggior parte dei partiti libanesi. Inoltre il nuovo leader, Naim Qassem, è un amministratore eccellente. Non è un leader carismatico come Nasrallah, ma dal punto di vista gestionale è un organizzatore esperto. Ha maturato una solida esperienza politica e amministrativa che lo rende capace di guidare il partito e gestire tutte le correnti interne. Hezbollah esiste da 43 anni e non ha conosciuto alcuna scissione.
La grazia di Bibi
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di Sharon Nizza
La grazia di Bibi
La richiesta del premier a Herzog è il punto di partenza della futura politica di Israele. Quando nel 2021 Isaac Herzog, già leader laburista, venne eletto dalla Knesset capo dello stato grazie anche ai voti del Likud, fu chiaro che tra il neopresidente e Benjamin Netanyahu si stava saldando un’alleanza insolita. E’ avendo questo patto a mente che va inquadrata la richiesta di grazia preventiva presentata domenica dal premier più longevo d’Israele, con l’obiettivo di condonare i tre processi (frode, abuso d’ufficio e corruzione) che lo vedono coinvolto da cinque anni e che da dieci, con l’avvio delle indagini nel 2015, spaccano la società israeliana in due fazioni: i “bibisti” e i “ralabisti” (acronimo per “tutto tranne Bibi”). Il terreno per la richiesta formale di Netanyahu è stato spianato nei mesi, con l’intervento di Trump e dei parlamentari del Likud. Il tempismo non è casuale: giovedì la coalizione ha depositato il controverso disegno di legge sull’arruolamento degli haredim. Dopo la guerra più lunga e traumatica della storia del paese, la richiesta di equità nel servizio militare è diventata una voce potente e trasversale nella società israeliana. La proposta è considerata troppo indulgente anche dall’elettorato di destra, tanto che alcuni esponenti della coalizione hanno già dichiarato che vi si opporranno se non subirà modifiche nell’iter. Non solo: attualmente il governo conta solo 60 voti su 120, e tra due settimane sarà possibile presentare nuovamente una mozione di sfiducia. Sullo fondo, il quadro è quello di un paese frammentato, dove il dibattito sull’equità dell’arruolamento, la commissione d’inchiesta sul fallimento del 7 ottobre (lì il nodo della diatriba è se nominata dai giudici o dai politici) e la grazia a Netanyahu sono i veri temi che spaccano le famiglie israeliane nella tavola dello Shabbat, intrecciati, ma non necessariamente sovrapponibili tra loro. E così lo stallo politico precedente al 7 ottobre, quello che portò a cinque tornate elettorali in tre anni, sussiste. Il recente voto in prima lettura sull’annessione di alcune aree della Cisgiordania, passato con i voti dell’opposizione, mostra quanto i confini ideologici tra le fazioni siano liquidi: ciò che tiene lontani Lapid, Gantz e di certo Lieberman e Bennett dal Likud non sono tanto le divergenze sulla sicurezza o sulla diplomazia, ma la figura stessa di Netanyahu: i bibisti credono che i processi siano sempre stati politici (una corrente non da poco è delusa dalla domanda di grazia, crede che Netanyahu dovrebbe andare avanti per dimostrare che si riveleranno fumo negli occhi); i ralabisti credono che siano il motore del tentativo di sovvertire l’equilibrio tra i poteri dello stato indebolendo il giudiziario per interessi personali del premier. C’è quindi non poco cinismo in quanto scrive Bibi nella lettera a Herzog, che la grazia “consentirà di sanare le fratture tra le varie parti del popolo”: senza concessioni ai ralabisti, la spaccatura rimarrà tale e quale, se non peggio. E questo non sfugge al vecchio alleato Herzog. “Il prisma con cui vagliare questa richiesta è quello dell’interesse nazionale e del futuro dello stato d’Israele, non la persona Netanyahu”, ha affermato Udit Corinaldi-Sirkis, ex consigliere legale del presidente Peres. Si parla di “grazia con la condizionale”, in cui la condizione ottimale per l’intero arco politico – come già chiesto da Bennett e Lapid – è che Herzog conceda la clemenza solo a patto del ritiro di Netanyahu dalla vita politica. Un gradino più in basso vi è l’ammissione della colpa da parte dell’imputato Netanyahu e il suo impegno ad arginare le derive oltranziste del suo attuale governo sui temi scottanti: arruolamento, commissione d’inchiesta, riforma giudiziaria. Un’altra strada potrebbe essere un patteggiamento con il ritiro dell’accusa più grave, quella per corruzione – cosa che già nel 2022 i giudici chiesero alla procura di valutare, in quanto il capo più labile del procedimento giudiziario, come sembra emergere dal corso delle udienze aperte al pubblico. Va aggiunto che, se tutte queste ipotesi potevano forse essere valide prima del 7 ottobre, oggi anche una fetta dell’elettorato di destra pensa che Netanyahu debba andare a casa, come gesto di assunzione di responsabilità del più grande fallimento israeliano. Come ha detto Raffi Ben Shitrit, padre di un soldato caduto, “non c’è grazia per il 7.10”. Per questo, la domanda di grazia in realtà è solo il punto di partenza di una trattativa in cui, nelle prossime settimane, Herzog cercherà di barcamenarsi, nel tentativo di essere ricordato egli stesso negli annali per aver trovato il compromesso storico, versione Israele.
Intervista a Victor Fadlun: “Giovani nella trappola del cattivi maestri Albanese una di questi”
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di Luca Monticelli
Intervista a Victor Fadlun: “Giovani nella trappola del cattivi maestri Albanese una di questi”
Quando ha visto le immagini dell’assalto alla redazione di Torino de La Stampa, Victor Fadlun, presidente della comunità ebraica di Roma, racconta di aver provato «sgomento e orrore. Non sempre mi trovo d’accordo con quello che leggo sui giornali, compresa La Stampa, ma sarò sempre il primo a difenderne la libertà nei limiti fissati dalla Costituzione e dalle leggi. Vedere i fogli per terra, le scrivanie devastate, il vandalismo di un’irruzione che aveva come obiettivo le postazioni dei giornalisti, mi ha fatto pensare al ruolo degli ebrei come “canarini” nelle miniere della società». I canarini, spiega, «vengono introdotti nei tunnel e segnalano il pericolo a chi viene dopo. L’antisemitismo è il primo atto, il secondo è l’attacco alla libertà, il terzo è il terrorismo. E quando vengono colpiti gli ebrei, la storia insegna che alla fine vengono colpiti tutti». Denunciando lo sfregio al Tempio di Monteverde lei ha detto che «l’antisemitismo è diventato uno strumento di contestazione politica». Cosa succede nel nostro Paese? «A Ga2a sta reggendo il cessate il fuoco nonostante le difficoltà che ancora ci sono. Ma in Italia, quasi solo in Italia, le manifestazioni pro Pal si sono moltiplicate diventando semprepiù aggressive.L’antisemitismoè un abominioche attraversa la storia, sfrutta i sentimenti più bassi e viene usato come clava per conquistare potere. Sta avvenendo qui, ora. Le scritte antisemite sono i rifiuti aberranti che lasciano i manifestanti antisemiti. Certi cortei poi servono a fare pressione sul governo, questo èevidente». Perché sono i giovani a esprimere rabbia e violenza? «A causa dei cattivi maestri, coloro che non raccontano la verità ma diffondono fake e falsi miti, alimentano la cultura dell’odio e un uso distorto delle parole, fino a propagandare l’intolleranza e la violenza.I giovaniperloronatura sono più soggetti, spesso in buona fede, a cadere nella trappola degli incantatori dell’odio e della falsificazione». Francesca Albanese è una di questi cattivi maestri? «Lei per prima. Le sue dichiarazioni e le sue uscite pubbliche sono orientate contro l’ebraismo in quanto tale e contro Israele. Il 25 novembre, Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, è intervenuta contro Israele ma non ha speso una sola parola per ricordare che il 7 ottobre è stato la più spaventosa violenza di massa sulle donne degli ultimi decenni. Non una parola di pietà per le donne stuprate, massacrate e violate il 7 ottobre e dopo, a Ga2a, in quanto donne, in quanto israeliane, in quanto ebree». Come giudica i Comuni che premiano la relatrice Onu? «Chiunque offra la cittadinanza onoraria a una persona come Francesca Albanese è sua complice nello spargere falsità e odio». Cosa la preoccupa delle manifestazioni? «Vedo che ci sono manifestazioni nelle quali la lotta sindacale si sposa con quella Pro pal. Questo mi pare molto pericoloso, anche perché noi ebrei di Roma ricordiamo bene che un corteo sindacale nel 1982 portò davanti alla sinagoga una bara e poi ci fu l’attentato in cui venne ucciso il piccolo Stefano Gaj Taché con decinedi feriti». Emanuele Fiano, vittima di un agguato a Ca’ Foscari, ha evocato le leggi razziali e gli Anni 70. «Le analisi di Fiano, a cui ribadisco totale solidarietà, sono fondate su una conoscenza profonda della storia politica italianaesull’esperienza familiare. Non solo va fatto parlare, ma va ascoltato. E che certi attacchicolpiscano unapersona come Fiano, critico verso il governo di Israele, dimostra che alla radice delle contestazioni c’è l’antisemitismo». Teme un’ulteriore escalation contro gli ebrei italiani? «Miauguroche nonvi siaalcuna escalation. Sono certo che prima o poi la guerra in Israele finirà, non sarà più solo un cessate al fuoco ma una vera pace. E mi auguro che ci siano nella società italiana gli anticorpi non
solo verso l’antisemitismo, ma verso il fascismo, compreso il fascismo rosso di alcuni Pro pal e non solo». Al nostro giornale è arrivata una grande solidarietà bipartisan, lei la solidarietà alla comunità ebraica l’ha sentita? «Lunedì è stato un onore e un immenso piacere ricevere la telefonata di solidarietà del presidenteMattarella. Noisiamo italiani, il capo dello Stato rappresentatutti.Inquestimesi abbiamo sentito la vicinanza costante e convinta del governo e delle forze politiche cheloappoggiano,epoidiambienti delle opposizioni tradizionalmente vicine alla nostra comunità. Tutti gli altri hannoscelto il silenzioo l’ostilità. E lo trovo gravissimo, non solo per noi ebrei ma per tutti gli italiani e per la nostra democrazia».
I “fantasmi” di Bibi
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di Luca Gambardella
I “fantasmi” di Bibi
Trump richiama Netanyahu per gli attacchi in Siria. “Non è il Libano”, dicono gli americani Roma. La pervicacia con cui Benjamin Netanyahu vuole smantellare qualsiasi minaccia si adombri oltre il Golan, in pieno territorio siriano, ha raggiunto quota cento attacchi in un mese, più che raddoppiati rispetto a qualche mese fa. Dalla settimana scorsa, i raid dell’Idf hanno aumentato intensità e frequenza e hanno preso di mira la provincia siriana di Quneitra, con attacchi di terra e colpi di artiglieria. La ragione dell’escalation è nell’urgenza di estirpare una cellula di terroristi di al Jama’a al Islamiyya, un gruppo di estremisti vicino a Hamas e Hezbollah. A Beit Jinn, gli uomini della 55esima brigata hanno catturato tre persone – poi rilasciandone una – ma nello scontro a fuoco ne hanno uccise 13, tra cui tre donne e due bambini. I raid israeliani sono continuati fino a ieri, finché non è arrivato l’avvertimento di Donald Trump: “E’ molto importante che Israele mantenga un forte e vero dialogo con la Siria e che non intraprenda nessuna azione che interferisca con l’evoluzione siriana verso uno stato prospero”, ha scritto il presidente americano su Truth. Poco dopo, ha telefonato a Netanyahu, l’ha invitato per la quinta volta in pochi mesi a tornare in visita alla Casa Bianca ma ha evitato di rinnovare il suo avvertimento riguardo alla Siria. Gli Stati Uniti però ritengono ingiustificata la politica del pugno duro dello stato ebraico nei confronti di Ahmed al Sharaa. Il presidente siriano “sta lavorando in modo diligente per fare sì che le cose succedano e affinché sia la Siria sia Israele abbiano una lunga e prospera relazione”, ha aggiunto Trump sul suo social network. “Gli Stati Uniti faranno di tutto in loro potere per assicurarsi che la Siria continui a fare quello che serve” per risollevarsi dalla guerra. In sostanza, Damasco resta una linea invalicabile per gli americani. “La Siria non è il Libano”, ha sintetizzato un funzionario degli Stati Uniti ad Axios, “cerca di non avere problemi con Israele. Ma Bibi vede fantasmi ovunque”. Secondo gli americani, il premier rischia “di perdere un’enorme opportunità diplomatica e di trasformare la Siria in un nemico”. Domenica, il Comando centrale americano (Centcom) aveva diffuso un comunicato su un’operazione congiunta condotta con il ministero dell’Interno di Damasco che aveva portato a sgominare 15 depositi di armi dell’Isis. Per gli americani, sono tutte dimostrazioni della buona volontà di al Sharaa, che il mese scorso con la sua visita alla Casa Bianca ha sancito la partecipazione dei suoi uomini nella coalizione internazionale contro lo Stato islamico. Ieri, l’Isis ha anche rivendicato il suo primo attentato contro le forze regolari siriane, uccidendo un militare vicino Idlib, nel nord-ovest del paese. Se al Sharaa è in guerra aperta contro i terroristi, Netanyahu continua comunque a non fidarsi e non fa mistero delle sue perplessità sul tentativo americano di trasformare il presidente siriano in un interlocutore affidabile. Secondo le indiscrezioni raccolte dalla stampa israeliana, quando al Sharaa è stato accolto da Trump alla Casa Bianca, Netanyahu avrebbe reagito con sdegno. La sua posizione avversa alla rimozione delle sanzioni economiche contro la Siria è nota e, nonostante gli sforzi intrapresi da Tom Barrack, l’inviato speciale degli Stati Uniti in Siria, i negoziati per trovare un accordo sulla base della zona demilitarizzata sancita nel 1974 sul Golan sono in stallo. Barrack aveva incontrato al Sharaa lunedì e il giorno dopo aveva visto i rappresentanti di Israele, ma negoziare mentre sullo sfondo risuonano i cannoni dell’artiglieria con sconfinamenti oltre il monte Hermon, il limite geografico fra Siria e Israele, è complicato. “Con buona volontà e comprensione di alcuni princìpi un accordo con i siriani è possibile”, ha detto ieri Netanyahu, ma questi “princìpi” sembrano difficili da recepire per i siriani. “Ciò che ci aspettiamo da loro è che demilitarizzino l’area che va da Damasco alla zona cuscinetto, fino alla vetta del monte Hermon. Controlliamo queste aree per la sicurezza di Israele”. Le operazioni di terra dell’Idf e la creazione di check point tra un villaggio siriano e l’altro sul modello di quanto avviene già in Cisgiordania, puntano a frammentare il territorio fra Quneitra, Daraa, Suwayda e Hermon in modo da rendere impossibile per Damasco esercitare alcuna forma di controllo a ridosso del Golan. Al Sharaa intanto rinnova gli appelli alla moderazione: “Pazienza e valutazione realistica sono essenziali; cerchiamo pace, sicurezza e stabilità”, ha detto. “Usiamo diplomazia e negoziati per proteggere il nostro territorio e prevenire interferenze esterne”.
Schlein blindala segreteria mail Pd ha un problema: Francesca Albanese
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di Giacomo Puletti
Schlein blindala segreteria mail Pd ha un problema: Francesca Albanese
LA LEADER DEM VUOLE ASSICURARSI LA GUIDA DEL PARTITO E DELLA COALIZIONE NEL 2027 MA DEVE FARE I CONTI CON LE DIVISIONI INTERNE SULLE CITTADINANZE ALLA RELATRICE E lly Schlein ufficialmente non si è ancora espressa sul tema. La segretaria del Pd ha più volte elogiato (indirettamente) il lavoro di Francesca Albanese come relatrice speciale Onu sui territori occupati, ma non si è espressa rispetto alle prese di posizione, soprattutto le più recenti, che hanno fatto e fanno discutere. Elly Schlein ufficialmente non si è ancora espressa sul tema. La segretaria del Pd ha più volte elogiato (indirettamente) il lavoro di Francesca Albanese come relatrice speciale Onu sui territori occupati, ma non si è espressa rispetto alle prese di posizione, soprattutto le più recenti, che hanno fatto e fanno discutere. E soprattutto non si è mai espressa sulla possibilità o meno di concederla la cittadinanza onoraria, come fatto dal Comune di Bologna e da quello di Bari, che le ha consegnato le chiavi della città, e come stavano per fare quello di Napoli e quello di Firenze, prima dell’ultimo scivolone, chiamiamolo così, di Albanese dopo l’attacco dei collettivi alla redazione de La Stampa. D’altronde, la leader dem ha ben altro a cui pensare, tra cui la convocazione dell’Assemblea nazionale per farsi “incoronare” candidata del Pd alle prossime Politiche 2027, bruciando sul tempo il presidente M5S Giuseppe Conte per la corsa alla leadership del campo largo e blindandosi come segretaria in vista dei prossimi mesi che, in caso di vittoria dei Sì al referendum sulla giustizia, potrebbero diventare turbolenti. Ma nel frattempo ci si è messa Albanese a scaldare gli animi non tanto del Pd nazionale, visto che ormai anche dirigenti ed esponenti più vicini alla causa palestinese sembrano aver definitivamente abbandonato lo slancio iniziale verso la relatrice, quanto nelle sezioni locali, nei consiglieri comunali e nei sindaci che si trovano a dover decidere sulla concessione della cittadinanza onoraria alla Nostra. Negli scorsi mesi c’era stata la corsa ad accaparrarsi un intervento di Albanese a teatro, in una piazza, in un Consiglio comunale dopo averle consegnato le chiavi della città, come a Bari, o accogliendola come nuova cittadina, come a Bologna. Ma è da quanto successo a pochi chilometri proprio da Bologna, cioè a Reggio Emilia, che nella love story tra i dem a Albanese qualcosa si è incrinato. La vicenda è più che nota, con il sindaco Pd Marco Massari che a teatro premia Albanese per il suo lavoro, auspicando la fine dei bombardamenti su Ga2a e la liberazione degli ostaggi. Apriti cielo. La relatrice è contrariata, il pubblico fischia e lei conforta il sindaco, visibilmente imbarazzato: «La perdono, basta che non lo dice più». Insorge Sinistra per Israele, i riformisti dem, tutto il centrodestra. Ma all’epoca il Na2areno non aveva occhi che per Albanese, la tregua tra Israele e Hamas non era stata ancora siglata e insomma la vicenda finì lì, bollata come un’uscita infelice. Seguirono però altri scivoloni, con la stampa e in pubblico, fino alla classica goccia che ha fatto traboccare il vaso. «Condanno la violenza, ma quanto accaduto faccia da monito alla stampa perché torni a fare il proprio mestiere» è stato troppo anche per i più duri e puri tra i dem, ed ecco che negli ultimi giorni è partita la corsa a scendere dal carro. A Napoli mancava solo la firma del sindaco Gaetano Manfredi per la concessione della cittadinanza, già votata dal consiglio comunale; lui ha preso tempo. A Firenze si discuterà domani la proposta di cittadinanza, ma la sindaca Sara Funaro è stata chiara: «è una figura che divide e la nostra è una città che unisce». Tradotto: non provateci nemmeno. E proprio all’ombra di Palazzo Vecchio il caso sta investendo l’intero campo largo, con una lite tra Avs e Iv e il Pd che prova la mediazione. «Per IV – Casa Riformista, assegnare la cittadinanza onoraria alla Dott.ssa Francesca Albanese sarebbe assurdo, nonché una contraddizione morale, civile e politica hanno scritto Caterina Arciprete, Giovanni Graziani e Vincenzo Pizzolo, consiglieri di Avs Ecolò a Palazzo Vecchio – Crediamo invece che i primi ad essere contraddittori siano proprio i consiglieri di Italia Viva, che ritengono normale che il leader del loro partito sia finanziato da Bin Salman, mandante dell’uccisione del giornalista Jamal Khashoggi». Il Pd, come riportato da David Allegranti, sembra pronto a mettere sul tavolo in commissione un emendamento cucito a misura e tarato col bilancino nella scelta delle parole che “alleggerisca” l’atto originario, mentre Albanese si augura di non venire esiliata «come Dante». Quel che certo è che il Pd, e il campo largo tutto, si son ficcati nel bel mezzo di una selva oscura, che la diritta via era smarrita.
Assaltare un giornale è squadrismo Bisogna rompere l ciclo della violenza.
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di Rula Jebral
Assaltare un giornale è squadrismo Bisogna rompere l ciclo della violenza.
L’ attacco contro la redazione de La Stampa a Torino non è solo un atto vile: è una ferita alla democrazia e un colpo gravissimo alla stessa causa palestinese. Per questo esprimo vicinanza e solidarietà ai giornalisti e al direttore Andrea Malaguti. Colpire un giornale – con volti coperti, fumogeni, minacce, devastazioni – ripropone forme di squadrismo che la storia dell’Italia ha già sconfitto e ricacciato indietro. E nessuna lotta davvero “giusta” può consentire di farsi inquinare da una violenza fine a se stessa. La solidarietà alla redazione e al direttore Andrea Malaguti è piena e doverosa. Tanto più perché La Stampa è uno dei pochi quotidiani italiani che, con continuità, ha dato spazio a voci palestinesi, documentando il “genocidio a bassa intensità” a Ga2a, il terrorismo dei coloni israeliani, le torture in carcere dei prigionieri palestinesi. È lo stesso giornale il cui direttore ha avuto il coraggio e la dignità di dissociarsi da un’altra “mattanza della verità” consumata nel convegno dell’Unione delle comunità ebraiche italiane al Cnel, di appena qualche settimana fa a Roma. Per questo l’assalto è doppiamente assurdo: colpisce proprio chi ha scelto di raccontare ciò che altrove viene ancora oggi vergognosamente nascosto. La violenza è una spirale discendente, spesso usata per giustificare e fomentare ulteriore violenza. La storia della Palestina ne è la più evidente dimostrazione. Israele giustifica lo sterminio e la pulizia etnica come l’unica risposta alla violenza di Hamas, i cui dirigenti a loro volta usano la violenza sistemica dell’occupazione israeliana per infliggerne le conseguenze contro milioni di palestinesi. L’unica strada per rompere il ciclo della violenza è una resistenza civile moralmente e politicamente simile alla lotta guidata da Martin Luther king, e Nelson Mandela… Da Marwan Barghouti che anche dalla sua cella nella prigione israeliana, invoca una soluzione politica pacifica. Troppi segnali mostrano come il modello israeliano stia contaminando altri contesti. In Italia si ricorre alla detenzione amministrativa per privare della libertà un imam stimato da tutti, senza accuse né reati. Intanto, parole d’odio contro i giornalisti li trasformano in bersagli: impossibile non pensare a come l’Idf abbia etichettato come “terroristi” i cronisti palestinesi prima di ucciderli. Negli Stati Uniti, l’aviazione colpisce civili nei Caraibi con operazioni extragiudiziali: il ministro della Guerra Pete Hegseth si vanta pubblicamente di azioni che configurano crimini di guerra. È ora sotto inchiesta per aver ordinato un secondo attacco contro i sopravvissuti in acque internazionali. La stessa logica si vede in Cisgiordania e a Ga2a, dove l’esercito israeliano ha giustiziato davanti alle telecamere quattro presunti “terroristi”. Erano in realtà due bambini palestinesi di undici e otto anni, usciti a raccogliere legna per riscaldare il padre paralizzato. Questo è il boomerang del genocidio in Palestina: l’erosione globale di ogni limite, morale e giuridico. È dunque possibile – ed è necessario – lottare per la Palestina, denunciare le atrocità, indicare le responsabilità. Ma se questa lotta riproduce metodi che appartengono all’oppressore – la violenza, l’intimidazione, e il bavaglio, – allora non è attivismo: è una resa morale, un tradimento! Attaccare la redazione di un giornale, devastare uno spazio d’informazione, gridare minacce: non è “resistenza”, è squadrismo! E ogni azione di quel tipo ovunque avvenga – mina la fragile speranza di una convivenza possibile, di un processo di liberazione che passi attraverso la coscienza e la responsabilità civile collettiva. La normalizzazione del genocidio palestinese, dell’occupazione e dell’apartheid può produrre altrimenti conseguenze devastanti. Urge agire secondo i valori e i principi che ci guidano, riappropriandoci di una più forte cultura della democrazia.
Israele apre a un accordo con la Siria Netanyahu chiede aiuto a Trump per grazia.
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di REs.
Israele apre a un accordo con la Siria Netanyahu chiede aiuto a Trump per grazia.
Il premier israeliano Benjamin Netanyahu avrebbe chiesto al presidente Usa Donald Trump di aiutarlo – ulteriormente – nella richiesta di grazia avanzata al capo di Stato Isaac Herzog, in una telefonata che ha toccato altri snodi delicati del rapporto fra i due: dall’esecuzione del piano di pace mediato dagli Usa a Ga2a ai rapporti con il nuovo governo siriano guidato dall’ex jihadista Ahmad al-Shara’. È quanto emerge da una conversazione fra i due leader dello scorso lunedì, secondo quanto riporta l’emittente Channel 12 citando due fonti statunitensi. Trump ha replicato a Netanyahu di essere convinto che la questione della grazia «avrebbe funzionato», senza impegnarsi in passi ulteriori e incalzando l’interlocutore su altri fronti decisivi per la collaborazione fra Tel Aviv e il suo alleato più influente. Trump ha sollecitato Netanyahu a comportarsi da «partner migliore» nell’accordo di pace su Ga2a, chiedendogli anche perché gli operativi di Hamas «vengano uccisi e non lasciati arrendere» e invitandolo a «stare tranquillo» dopo gli ultimi raid sferrati contro la Siria. Netanyahu ha detto che sta «facendo del suo meglio» e aperto proprio ieri a un accordo con Damasco «senza compromessi sulla sicurezza», fissando due paletti: la creazione di una zona cuscinetto demilitarizzata nella porzione sud-occidentale della Siria e il mantenimento delle aree controllate già oggi da Israele. «Dopo il 7 ottobre – ha detto Netanyahu – siamo determinati a difendere le nostre comunità lungo i confini, incluso quello nord, ad impedire l’insediamento di terroristi e attività ostili, a proteggere i nostri alleati drusi e a garantire che Israele sia sicuro da attacchi via terra». Netanyahu ha aggiunto di «aspettarsi» che «Damasco stabilisca una zona cuscinetto smilitarizzata dalla capitale fino alla zona controllata da Israele, comprese le vie d’accesso al Monte Hermon». Il tentativo di distensione è arrivato in una giornata scandita, anche, dagli ultimi capitoli sulla riconsegna dei corpi degli ostaggi e da nuovi scontri militari nel vivo della tregua inaugurata solo lo scorso ottobre. L’ufficio del premier ha annunciato di aver ricevuto da Hamas i «resti» di alcuni ostaggi, probabilmente appartenenti ai corpi degli ultimi due prigionieri nelle mani di Hamas. Ieri era prevista identificazione e notifica alle famiglie. Le autorità israeliane hanno riferito in parallelo di aver «eliminato tre terroristi che avevano oltrepassato la Linea Gialla» che delimita il territorio di Ga2a sotto il controllo dell’Idf. L’agenzia palestinese Wafa parla invece di un uomo ucciso e un altro ferito in un raid aereo su Khan Younis: secondo fonti locali si tratta rispettivamente del fotografo Mohammed Essam Wadi e del giornalista Mohammed Abdel Fattah Aslih, fratello del reporter Hassan Aslih ucciso all’ospedale Nasser a maggio. Wadi è stato colpito dall’attacco di un drone israeliano a est del campo profughi di di AlBureij, nel centro della Striscia di Ga2a. Si tratta della seconda vittima fra gli operatori dei media dalla tregua del 10 ottobre. «Le regole della guerra sono chiare: i civili e le infrastrutture civili non sono un bersaglio. I giornalisti devono poter svolgere il loro lavoro essenziale senza interferenze, intimidazioni o danni. Questo include l’inaccettabile divieto che impedisce ai giornalisti internazionali di accedere a Ga2a» aveva dichiarato solo lunedì il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres.
Gaza scompare: c’è solo il 7 ottobre. Così Israele scolpisce la sua storia
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di Mattia Ferraresi
Gaza scompare: c’è solo il 7 ottobre. Così Israele scolpisce la sua storia
In Israele la guerra di Gaza è scomparsa, ma il 7 ottobre non è mai finita.Almeno questa è la percezione che il governo israeliano vuole trasmettere alla delegazione di giornalisti italiani che, attraverso l’ambasciata a Roma, ha invitato per un tour del paese. Il tema dominante e non dichiarato è la rimozione del conflitto, per lasciare spazio al processo di memorializzazione del massacro che, dopo il cessate il fuoco e la riconsegna di quasi tutti gli ostaggi, può ora avvenire in relativa pace. Tutti gli interlocutori selezionati, dagli abitanti dei kibbutz trasformati in campi di morte ai sopravvissuti del festival Nova, agli ufficiali dell’ldf fino ai funzionari del ministero degli Esteri e ai rappresentanti della Knesset, ripetono variazioni dello stesso concetto: siamo traumatizzati. E qualunque cosa sia successa nella Striscia negli ultimi due anni—ma anche in Cisgiordania e sul confine con il Libano — va letta e interpretata a partire da quel trauma, generato dall’oscena furia genocidaria che ha mosso la mano di Hamas quel giorno. Il viaggio è parte di una vasta iniziativa di comunicazione del governo israeliano, che ha stanziato un fondo straordinario di 150 milioni di dollari per sostenere la diplomazia pubblica in una fase in cui evidentemente la reputazione globale di Israele è sotto le macerie di Gaza assieme a oltre 70mila vittime. Senza contare le accuse di crimini di guerra. di genocidio e il mandato di arresto della Corte penale internazionale per Benjamín Netanyahu che da ultimo ha anche chiesto la grazia al presidente dalle imputazioni per corruzione, nel nome dell’interesse nazionale, I volti dei morti Rievocare il trauma non è difficile in un paese che ha affissi ovunque i volti e i nomi dei suoi morti. Da Jaffa a Sderot, dalla città vecchia di Gerusalemme ai villaggi drusi del nord. Su ogni cartello stradale, su ogni bacheca, su ogni fermata dell’autobus, su ogni muro, su ogni vetrina, su ogni schermo a led campeggiano le facce di chi è stato massacrato, degli eroi che si sono sacrificati, dei vivi che sono usciti malconci dall’inferno e dei morti che attendono di riposare degnamente dopo l’ultimo rituale. Le gigantografie dei martiri sono una presenza costante in Medio Oriente, ma siamo abituati alTiconostasi a scopo propagandistico nelle strade di Beirut o Teheran, non nel centro di Tei Aviv, città libertina e arcobaleno con una vita notturna leggendaria dove a che domina la scena; “Pace su Israele”. Nel sud. vicino al festival musicale diventato uno dei simboli della strage, hanno portato oltre 1.600 automobili bruciate dai terroristi quel giorno lungo la strada. Le hanno impilate a formare un gigantesco muro di ruggine sul quale piangere e fare silenzio. Siamo nei pressi dell’insediamento religioso di Tkuma, creato m una notte del 1946 nel conteso territorio del Negev. Il nome significa resurrezione. Adam Ittah, il portavoce dell’Ìdf che ci accompagna, dice che questo luogo diventerà «lo Yad Vashem del 7 ottobre», un memoriale permanente del più efferato attacco agli ebrei dopo l’Olocausto. Mostra l’ambulanza che era vicino all’area del palco quel giorno. Venti persone si sono ammassate nel veicolo illudendosi che almeno quello fosse un riparo sicuro. Due sono riusciti miracolosamente a ruggire, le altre sono state fatte esplo- dere e carbonizzate con granate Rpg. Ittah è molto scocciato perché i media occidentali non parlano di storie come queste, mentre a parti invertite le piazze pro-Pal avrebbero gridato, vandalizzato e bruciato bandiere israeliane per settimane di fronte a tanta crudeltà. Lo scopo memorialistico di questo Yad Vashcm contemporaneo è però anche interno. Attorno ai luoghi del 7 ottobre si è sviluppata un’industria della memoria che lavora per formare la coscienza del popolo israeliano e preparare la nuova fase di un conflitto che appare inevitabile, visto che tutti gli interlocutori istituzionali selezionati dall’ambasciata dicono che Hamas è ancora in piedi II muro delle automobili, come il sito del festival Nova, è la meta di un organizzatissimo andirivieni di pullman che porta turisti, scolaresche, pellegrini, parenti delle vittime, soccorritori, sopravvissuti, testimoni dell’orrore, soldati Tutte le vittime del trauma collettivo vengono qui a fare memoria e a diffondere consapevolezza. Fra questi c’è anche Yoni (nome di fantasia), un ragazzo di 18 anni che è in visita ai luoghi del 7 ottobre con la sua classe. Yoni viene da Nahariya, una atta del nord, sulla costa,amail maree fa surf Frequental’ultimo anno delle superiori, Dopo il diploma farà per un anno il volontario in un’assodazio- ne che attraverso gli sport acquatici aiuta i ragazzi neurodivergenti. Poi andrà nelTesercito per Ere anni, come tutti i maschi israeliani a eccezione degli haredim. «Ci hanno portato qui per essere più consapevoli del motivo per cui combattiamo», spiega. U fotografo ufficiale L’area selvaggia vicino a Be’im dove 378 persone sono state massacrate nei modi più bestiali e 44 sono state rapite è una costellazione di dolori e storie. Si cammina in un labirinto dì fotografie delle vittime, dove si sono accumulati oggetti personali, messaggi, saluti, tributi, opere d’arte e abbracci per chi non è mai tornato dal Nova festival Davanti a molti dei volti ritratti, di solito nei momenti belli, c’è qnalcuno che piange. A vegliare sul popolo in lutto c’è una gigantesca stella di David composta con sculture di anemoni coronarie rosse, il fiore che domina in questo pezzo d’Israele, e c’è anche un cubo di cemento su cui i visitatori sono invitati a non scrivere nulla. È un provvisorio rifùgio antimissile è bene che non venga scambiato per un’installazione. Sullo sfondo degli arbusti che tutto il mondo ha negli occhi da quel giorno, gli autobus fanno manovra nei parcheggi, le guide alzano l’ombrello per farsi vedere, i visitatori con il tierretto da pescatore cercano di sintonizzare la radiolina sul canale giusto, ² turisti fanno la fila per ² bagni chimici, i sopravvissuti indicano con le dita i luoghi dove si sono nascosti o si sono finti morti fra i cadaveri per sfuggire ai terroristi. Ma2al Ta2azo è un’artista di 35 anni che è sopravvissuta in modo miracoloso all’attacco, mentre i due amici con cui era andata al festival sono stati uccisi. Vive a Netivot, una atta a pochi chilometri di distanza, con il figlio di il anni. Il 7 ottobre le ha lasciato moke ferite, alcune non si vedono. Dopo cinque mesi dall’attentato ha iniziato a raccontare la sua storia a chi visita il memoriale, poi ha preso a viaggiare per diffondere la testimonianza di un trauma che per essere elaborato deve essere condiviso. Così la sua testimonianza personale è diventata un compito pubblico. Un analogo senso di missione si sente nel racconto di Ziv Koren, uno dei più importanti e premiati fotogiornalisti di Israele che ha passato gli ultimi 35 anni fra teatri di guerra e scenari di disastri di qualunque genere. La mattina del 7 ottobre ha subito inforcato la moto in direzione del pericolo, come capita spesso a chi fa questo mestiere. Il primo giorno ha discusso con il direttore del suo giornale perché non voleva mettere in pagina fotografie troppo cruente, ma quel giorno tutto quello che aveva visto e fotografato erano cadaverL «È stato un grave errore non mostrare fino in fondo l’orrore dell’attacco», spiega Koren, che da allora non ha fatto altro che fotografare storie legate al 7 ottobre. Ha ritratto i funerali, le famiglie delle vittime, la riabilitazione dei feriti, persone in coma che sono risvegliate, gente che ha attraversato la valle nera del dolore ed è entrata alla vita e gente che ancora vaga in LUI regno intermedio. Lo ha fatto tutti i giorni, per 10 ore al giorno, trasformando il lavoro di testimonianza fotogiornalistica in memorialistica ufficiale. L’Idf gli ha dato un livello di accesso alle operazioni nella to che camminano sulle macerie, bonificano case semidistrutte, scovano gli ingressi dei tunnel, cercano indizi sull’attività del nemico. Ma non si vedono mai le vittime.
Torna Atreju Tra gli ospiti Abu Mazen, l’ostaggio israeliano e il «revival» Fini-Rutelli
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di Pietro De Leo
Torna Atreju Tra gli ospiti Abu Mazen, l’ostaggio israeliano e il «revival» Fini-Rutelli
Otto giorni di dibattiti, approfondimenti culturali, momenti dedicati allo spettacolo. Arriva Atreju, la tradizionale convention di Fratelli d’Italia che quest’anno si svolgerà nella cornice di Castel Sant’Angelo a Roma, dal 6 al 14 dicembre. Non si tratta di una location inedita: già due anni fa, infatti, la kermesse si svolse lì. Titolo è “Sei diventata forte – L’Italia a testa alta”. Un claim che, secondo gli organizzatori, vuole essere la metafora del ruolo acquisito dal Paese in questi anni di governo Meloni. In una conferenza stampa, ieri, presenti tra gli altri il responsabile organizzazione del partito Giovanni Donzelli e i capigruppo Malan e Bignami, è stato illustrato il programma. Partendo dai numeri: la manifestazione si snoda lungo 82 panel in cui saranno coinvolti 450 relatori e 70 giornalisti. Il direttore del Tempo, Daniele Capezzone, sarà presente sabato prossimo 13 dicembre, alle 21:30 all’interno di un panel sull’odio politico. La presentazione della convention è stata preceduta, nei giorni scorsi, dallo scontro sulla partecipazione o meno della segretaria Pd, che poi ha deciso di non raccogliere l’invito. Durante la conferenza stampa, ieri Donzelli ha spiegato che ci saranno «tutti i leader dell’opposizione tranne Elly Schlein». Sulla presenza dei leader di minoranza, ieri Matteo Renzi ha provato a rilanciare in senso polemico: «Il confronto con me la Meloni non vuole farlo», ha affermato pur confermando la sua presenza. Tra gli assenti c’è anche la Cgil. Donzelli ha spiegato che «in passato l’invito non è stato gradito» e che quest’anno non si è voluto insistere «per non metterli in difficoltà», mentre parteciperanno i vertici di Cisl, Uil e Ugl in un confronto su tassazione e occupazione. Grande attenzione anche agli ospiti internazionali. Spicca l’arrivo del presidente dell’Autorità nazionale palestinese Abu Mazen, atteso venerdì 12 dicembre, presenza che ha generato la reazione di Laura Boldrini. L’ex Presidente della Camera, oggi deputata Pd, ha auspicato che il governo colga l’occasione per annunciare il riconoscimento dello Stato di Palestina. Donzelli ha inoltre anticipato che alla kermesse interverranno «esponenti del Likud» e soprattutto un ostaggio israeliano rapito da Hamas e poi liberato, Rom Braslavski, che racconterà la sua prigionia durata 738 giorni. Sempre sul fronte internazionale, spazio ai rappresentanti del gruppo europeo dei Conservatori e riformisti: tra gli altri, Kemi Badenoch, Adam Bielan, Marion Maréchal e George Simion, fino al presidente di Ecr Mateusz Morawiecki, previsto il 14 dicembre. Sul versante italiano, Atreju schiererà ministri, leader politici, amministratori locali e figure istituzionali: dai presidenti di Camera e Senato Fontana e La Russa, al ministro Nordio per i dibattiti sulla giustizia, fino a Crosetto, Musumeci, Giorgetti, Valditara, Schillaci, Pichetto Fratin e molti altri. Ci sarà anche un momento di “revival storico”, il faccia a faccia tra Gianfranco Fini e Francesco Rutelli a 32 anni dalla storica sfida, vinta dal secondo, che li vide contrapposti per Campidoglio. Come ogni anno, la politica si intreccerà con momenti più popolari: un villaggio di Natale con mercatini, volontariato, area bimbi, pista di pattinaggio e la radio dedicata. Presenti anche volti del mondo dello spettacolo come Carlo Conti, Mara Venier, Ezio Greggio, e Chiara Francini. E poi Raoul Bova, in un dibattito sui deep fake cui parteciperà anche la responsabile della Segreteria di Fdi Arianna Meloni e la giornalista Francesca Barra. Si chiude domenica mattina, con la giornata che rappresenterà il momento clou. Interverranno i leader della coalizione: i due vicepresidenti del Consiglio Antonio Tajani (Forza Italia) e Matteo Salvini (Lega), e i centristi Maurizio Lupi (Noi Moderati) e Antonio De Poli (Udc). A tirare le conclusioni, come da tradizione, intorno a mezzogiorno, la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni.
L’antisemitismo e perché serve una nuova legge
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di Maurizio Gasparri
L’antisemitismo e perché serve una nuova legge
Il 6 agosto scorso ho depositato un disegno di legge in Senato affinché si adottasse la definizione dell’antisemitismo messa a punto dalle organizzazioni internazionali e già recepita, nella sostanza, dal governo italiano nel 2020, quando a Palazzo Chigi sedeva Giuseppe Conte.Non pensavo di attirarmi, per questo, tutto l’odio che è arrivato da parte di fondamentalisti e gruppi di estrema sinistra, come “Cambiare Rotta” e “MuRo 27”, l’associazione islamica, che vorrebbe diventare una sorta di vero e proprio partito. La proposta di legge propone di riconsiderare la definizione operativa di antisemitismo dell’IHRA, declinando una serie di manifestazioni di antisemitismo che si traducono in fattispecie di reato punibile nella legislazione vigente. Il riferimento è agli articoli 604-bis e 604-ter del codice penale, in cui è stata trasfusa parte della cosiddetta “legge Mancino”. Si richiamano anche gli istituti della giustizia paratutiva che possono avere una peculiare valenza morale. La definizione «distruzione di Israele» è degna di essere sanzionata così come una qualsiasi altra definizione antisemita. Ad esempio, quellichedicono «Palestinaliberadalfiume almare»,auspicando la distruzione di Israele, spargono odio nei confronti degli ebrei in quanto tali. I detrattori di questa proposta legge credono che io voglia impedire la critica al governo Netanyahu. Io non dico che non si possa criticare il governo di Israele, dico che non si possa auspicare la distruzione dello Stato di Israele, cosa ben diversa.Israele è un stato democratico che offre ai cittadini la possibilità di votare liberamente. Cosa che non esiste in Palestina e che Hamas non considera nei suoi programmi. Quando si parla di «due popoli e due Stati», affermazione condivisibile, bisognerebbe specificare in modo ancora più attento «due popoli e due democrazie». Mentre Israele è una realtà democratica, in Palestina purtroppo Hamas è una setta di terroristi che non può guidare quel Paese. Su questo sono d’accordo praticamente tutti, almeno in teoria, in ogni parte del mondo. Presentare una proposta di legge che rafforzi la lotta all’antisemitismo nel momento in cui si moltiplicano le violenze e gli attacchi alle sinagoghe, l’ultimo lunedì a Monteverde (Roma), credo che sia una scelta doverosa. Evidentemente, chiedo testa la legge è antissemita, avanzamotivazionigiuridiche capziose, per manifestare la propria intolleranza non solo verso lo stato di Israele, ma verso gli ebrei in quanto tali. Per me è motivo di orgoglio essere attaccato, insultato, effigiato in manifesti e manichini a “La Sapienza”, o nel corso di manifestazioni di estrema sinistra in tutta Italia. Perché difendo la libertà. DifendogliebreiedifendoIsraele.Senza che ciò possa impedire la libera espressione del pensiero. Ma evitando quel razzismo che tanti Pro-Pal dimostrano. Gli ultimi, in maniera eclatante, gli appartenenti di Askatasuna, invadendo la redazione de “La Stampa”. Ma a sinistra possono fare quello che vogliono. Mentre noi, che non siamo di sinistra, non possiamo difendere la libertà e combattere l’antisemitismo.
La libertà di informazione non si discute Lei lo ha fatto, per questo Firenze dice no
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di Claudio Bozza
La libertà di informazione non si discute Lei lo ha fatto, per questo Firenze dice no
Sara Funaro, sindaca di Firenze, perché è contraria a dare la cittadinanza onoraria a Francesca Albanese? «Perché Firenze è la città della pace: ha sempre unito, costruito ponti e fatto del dialogo la propria forza. Pur riconoscendo l’importante lavoro che Albanese svolge all’Onu, e pur condividendo la battaglia per la difesa e i diritti del popolo palestinese, credo che la cittadinanza onoraria vada data a chi lancia messaggi che uniscono e non dividono». Sono state decisive le parole di Albanese dopo il raid dei pro Pal contro «La Stampa» oppure aveva già deciso? «Già non ero d’accordo con altre sue affermazioni: quelle su Liliana Segre e l’atteggiamento verso il sindaco di Reggio Emilia. Inoltre l’ultimo episodio ha toccato un punto per me importante: la libertà di informazione. Non può essere messa in discussione. È un cardine della nostra democrazia. Non esistono condanne condizionate». Il suo no è più politico o istituzionale? «Quando fai la sindaca di Firenze parli innanzitutto da un punto di vista istituzionale. Poi, è chiaro: c’è anche una mia sensibilità politica». In questa decisione ha influito il fatto che lei è di religione ebraica? «Assolutamente no. Sono cresciuta in un contesto di convivenza plurale. Quando sei sindaca rappresenti tutti: le appartenenze personali stanno fuori». I sindaci del Pd Vito Leccese (Bari) e Matteo Lepore (Bologna) hanno conferito la cittadinanza e non vogliono tornare indietro. Cosa pensa della loro scelta? «Penso che ogni sindaco sia libero di fare le proprie scelte, in base alle proprie idee e ho rispetto delle scelte di ognuno». Nella sua giunta c’è anche un assessore di Avs. È d’accordo con il suo stop? «Per lui vale lo stesso discorso e ho lo stesso rispetto che ho nei confronti dei sindaci di Bari e Bologna». Cosa pensa di Netanyahu? «Quello che ha fatto lui e sta facendo il suo governo è una delle cose più terribili che abbia mai visto. Netanyahu sta compiendo atti criminali, e tutto il mondo non può che far sentire la propria voce per fermarlo. Oltre a massacrare il popolo palestinese, sta arrecando un danno enorme anche al popolo israeliano e al popolo ebraico». Nelle manifestazioni pro Palestina c’è un problema di antisemitismo? «Noi qui a Firenze ne abbiamo avute di straordinarie. Ad esempio, quella per la Flottilla: migliaia di persone, famiglie, bambini, bandiere della pace. Persone che credono nella pace e nel rispetto dei popoli. Sono stati cortei molto inclusivi. Purtroppo, però, ci sono stati anche episodi preoccupanti, come le scritte a Roma e a Firenze, dove durante un corteo non autorizzato hanno scritto “Viva il 7 ottobre”. Atti vili, che parlano da soli. Il rischio è che l’estremismo di alcuni faccia apparire problematiche manifestazioni che, invece, sono bellissime e portano messaggi positivi». E nella sinistra, anche in alcune frange del Pd, c’è un problema analogo? «All’interno del mio partito non sento e non ho mai percepito alcuna vena antisemita. Il Pd ha sempre difeso e continuerà a difendere la causa palestinese. E allo stesso tempo ha sempre reagito quando si sono verificati episodi antisemiti contro la comunità ebraica. In passato, quando io stessa sono stata attaccata, ho sempre sentito la vicinanza del mio partito». Si è confrontata anche con la segretaria Elly Schlein su questa vicenda? «Ci parliamo spesso, ma in questi giorni non ci siamo sentite».