Rassegna stampa del 30 novembre 2025
La rassegna di oggi evidenzia come il conflitto in Medio Oriente sia ormai filtrato da una narrazione sempre più polarizzata: alle notizie sulle operazioni militari si affiancano letture ideologiche che spesso sorvolano sulle responsabilità di Hamas e sulle implicazioni di sicurezza per Israele.
Diversi quotidiani insistono sui numeri delle vittime senza contestualizzare né verificare le fonti, mentre altre testate si concentrano sull’ondata di attivismo pro-Pal che, anche in Europa, sta sfociando in episodi di intimidazione verso giornali e istituzioni. Parallelamente emergono analisi più lucide, che richiamano il rischio di una saldatura tra gruppi antagonisti e ambienti islamisti radicali.
Il quadro complessivo mostra un’informazione che oscilla tra denuncia emotiva e propaganda travestita da umanitarismo.
Intervista a Maurizio Molinari: «I Pro-Pal sono l’arma dei regimi»
Ottimo pezzo: l’intervista smonta la retorica del “pro-Pal” come movimento spontaneo e mostra invece come regimi ostili all’Occidente strumentalizzino le piazze. Mette al centro il tema chiave: Israele è bersaglio non solo militare ma comunicativo, e chi alimenta semplificazioni favorisce gli attori che vogliono indebolire le democrazie. Chiaro, documentato e fuori dal coro.
Leggi l'articolo
di Pietro Senaldi
Intervista a Maurizio Molinari: «I Pro-Pal sono l’arma dei regimi»
«Ho lavorato alla Stampa per 23 anni. L’assalto alla redazione da parte dei pro-Pal è per me una ferita profonda, inimmaginabile. Non pensavo potesse succedere a un giornale italiano». Cosa è cambiato negli ultimi anni? «C’è una regressione. Sono gli effetti di almeno dieci anni di guerra ibrida che la Russia, la Cina, la Corea del Nord, l’Iran, i nemici dell’Occidente, stanno conducendo attraverso i nostri social. L’obiettivo è destabilizzare il nostro modello di società». Stupisce l’attacco dei Pro-Pal proprio alla Stampa, un giornale che sulla questione di Ga2a non è mai stato tenero con Israele… «Ormai questo fenomeno di intolleranza e violenza verso il nostro sistema è talmente profondo che i protagonisti della società, dai politici ai giornali, dalle Forze dell’ordine alla magistratura, vengono aggrediti a prescindere dai messaggi e dalla politica di cui si fanno portatori». Ebreo romano, Maurizio Molinari ha diretto il quotidiano torinese per quattro anni. È da poco uscito in libreria con “La Scossa Globale” (Rizzoli). «Non penso», spiega, «che i regimi dittatoriali siano i mandanti diretti delle azioni violente come quella contro la Stampa; però ne creano le premesse, ne sono responsabili perché continuano a veicolare messaggi mirati a generare odio per far implodere le nostre democrazie. Bisogna rendersi conto che quest’opera di proselitismo anti-democratico sta avendo successo e la libertà di stampa è tra i primi diritti a farne le spese». Dell’assalto a Torino colpiscono la giovane età dei teppisti, il fatto che a chiedere la liberazione di un imam che giustifica il 7 ottobre siano in gran parte italiani e non immigrati e la copertura ideologica che una parte della politica, e addirittura dei media, continua a dare alle frange violente dei Pro-Pal; fino ad arrivare alla relatrice dell’Onu sui Territori Occupati, Francesca Albanese che, nel condannare le violenze, si raccomanda che costituiscano «un monito per i giornali». Siamo al delirio? «La Stampa è il giornale di Carlo Casalegno assassinato dalle Brigate Rosse, è un quotidiano profondamente costituzionale», riflette Molinari offrendo una lettura opposta, ovverosia che il monito da portarsi dentro è che «il seme dell’odio anti-sistema sta contagiando il nostro Paese». Direttore, gli assalitori sostengono di voler difendere la Costituzione e la pace: un cortocircuito politico-culturale? «In una delle più importanti strade romane campeggia, non cancellata, la scritta “Gli oppressi hanno diritto alla violenza”: significa che chi compie atti criminali oggi si sente un buono». C’è chi glielo fa credere? «La genesi del male parte dal movimento americano conosciuto come intersezionalità, secondo il quale la società si divide in oppressori, identificati con gli uomini bianchi eterosessuali, e oppressi, ovvero tutti gli altri. È questa ideologia che porta all’aggressività, legittima la violenza». Che poi gli aggressori sono spesso uomini bianchi eterosessuali… «Questo è un cortocircuito, che dimostra come la violenza ideologica possa essere disinnescata solo con la forza della ragione. Devi avere la forza di condannare la violenza sempre e comunque». E arriviamo al punto: al di là della Albanese, una parte della politica sbaglia a dare copertura ideologica, a esitare a condannare? «Il problema della politica è la legittimazione della violenza. Ci sono vulnus esemplari nella comunicazione politica: perché troppi partiti non dicono chiaramente che antisionismo e antisemitismo sono la stessa cosa, o tollerano che si parli di lobby ebraica in Italia, come se davvero esistesse, o ancora prescindono dal fatto che quel che accade a Ga2a è tutto figlio del pogrom del 7 ottobre? Queste bugie vanno disinnescate senza paura dalla politica, perché alimentano l’intolleranza. E non in tutti i partiti vedo sufficiente coraggio». Tutto è partito dal 7 ottobre e dalla risposta fortissima di Israele? «No, quello è stato un detonatore. Ma ha fatto esplodere qualcosa che era stato seminato da tempo nel sostrato delle società occidentali. Lo dimostra il fatto che due anni fa le prima manifestazioni Pro-Pal contavano sulla presenza di molti cittadini di origine immigrata, mentre i protagonisti dell’assalto alla Stampa sono italiani». E molto giovani… «Questo è il dato più preoccupante. Chi conosce la storia sa che tutti i movimenti di rivolta contengono gruppi di intolleranti e che questi coincidono spesso con le fasce più giovani della popolazione: sono i portatori del seme dell’odio». L’imam per il quale i Pro-Pal di Torino protestavano giustifica il 7 ottobre… «L’inganno della contestualizzazione: se dici che il pogrom del 7 ottobre va contestualizzato, e quindi lo relativizzi, finisci per creare un’area grigia dove non c’è differenza tra il bene e il male e, conseguentemente, ti trovi a giustificare ogni abominio e ammettere la violenza come modalità espressiva. Ma le nostre democrazie si fondano su un presupposto opposto: la forza della ragione e dei valori costituzionali, che ha sconfitto comunismo sovietico e nazionalsocialismo». Che ruolo ha l’antisemitismo nella lotta ai valori occidentali? «Per indebolire le società occidentali non c’è leva più efficace dell’antisemitismo». È la questione sociale più scottante in Occidente? «Da duemila anni l’odio nei confronti degli ebrei è la fonte maggiore di violenza nelle società occidentali». I Pro-Pal di Torino però sembrano avercela con tutti… «Questi gruppi estremisti esprimono la volontà di demolire dall’interno il nostro sistema di convivenza civile. E quello dell’antisemitismo è il canale maggiore sul quale naviga il loro odio. L’odio contro Israele è il punto di partenza più facile e rodato per seminare l’avversione contro i valori della società occidentale». Torno a sottolineare che parte della politica, e anche della stampa, non prende le dovute distanze e sembra quasi giustificare… «Mi auguro che in Italia accada quello che è successo in Germania, lo Stato Ue che sta reagendo meglio alla guerra ibrida e alla disinformazione che viaggia via social. Sia quando governava la sinistra, sia adesso che è al potere il centrodestra, Berlino non ha mai avuto esitazioni nel sostenere che la guerra in Ucraina è partita dall’invasione russa e che quella in Medio Oriente è iniziata dopo il 7 ottobre da parte di Hamas». Ma la Germania ha ragioni storiche profonde per avversare la Russia e sostenere Israele… «La storia si fa nel presente e il presente è fatto di una guerra delle autocrazie all’Occidente, dove ancora c’è chi si chiede da che parte stare». Soluzioni? «Ho l’umiltà di pensare che la maggioranza degli italiani si riconosca nella Costituzione repubblicana. Chiunque ha responsabilità pubbliche deve alzare la voce per difenderla».
Gaza, uccisi due bambini palestinesi. Tensioni con Siria e Libano dopo i raid
Tono sobrio e non palesemente ostile, ma la narrazione resta sbilanciata: molta enfasi sui numeri e poca sulle dinamiche operative o sul ruolo di Hamas nelle aree colpite. Corretta la parte sulle tensioni regionali, utile per il quadro geopolitico, ma manca un vero approfondimento sulle cause degli scontri e sulle responsabilità multiple. Informativo, ma parziale.
Leggi l'articolo
di R. Es.
Gaza, uccisi due bambini palestinesi. Tensioni con Siria e Libano dopo i raid
Nuovi scricchiolii nella tregua di Ga2a fra il governo israeliano e Hamas, l’accordo che dovrebbe fare da architrave del processo di risoluzione della guerra mediorientale. Solo ieri, riporta l’agenzia Associated press, due bambini palestinesi sono stati uccisi dal fuoco israeliano nella Striscia di Ga2a meridionale, in violazione del cessate il fuoco attivo dallo scorso 10 ottobre e destinato a preservare la popolazione nel corso delle trattative. Le vittime sono due fratelli di 11 e 8 anni, uccisi da un drone israeliano che ha colpito un’area vicina a una scuola che ospitava sfollati nella città di Beni Suhail. La ricostruzione è stata riferita dal personale dell’ospedale Nasser, anche se le autorità israeliane smentiscono la versione e parlano di un intervento in linea con le proprie esigenze di difesa. Le Israel defense forces hanno dichiarato di aver colpito due persone che avevano attraversato il confine in un’area controllata da Israele, svolgendo «attività sospette» e avvicinandosi più del dovuto alle truppe che stazionano nell’area. L’esercito ha comunicato anche la “neutralizzazione” di un’altra persona in un incidente separato ma simile nel sud, aggravando il bilancio delle vittime palestinesi mietute dopo il via formale all’accordo di sospensione delle ostilità mediato dagli Stati Uniti di Donald Trump. Secondo il ministero della Salute di Ga2a, la Striscia governata da Hamas, almeno 352 palestinesi sono stati uccisi in tutto il territorio dall’entrata in vigore del cessate il fuoco. Israele ha sempre dichiarato che i suoi attacchi sono diretti contro i militanti che violano la tregua, nel rimpallo di accuse che fa da sfondo alla tenuta precaria dell’intesa. Lo stesso ministero della Salute ga2awo registra un totale di vittime oltre la soglia delle 70mila dallo scoppio ufficiale del conflitto il 7 ottobre del 2023. L’emittente qatariota al-Jazeera registra attacchi via terra e aria in varie zone della Striscia, configurando un’infrazione delle intese che puntellano la tregua. La tensione resta ai massimi anche in Cisgiordania, già bersagliata dal crescendo di violenze imputate ai coloni israeliani e ora nel vivo di nuovi blitz. L’esercito israeliano ha dichiarato «zona militare chiusa» un’area vicino alla città di Betlemme, a seguito di un attacco costato diverse vittime palestinesi. La Mezzaluna Rossa palestinese ha riferito che una delle persone ferite è stata colpita da un proiettile, mentre l’esercito ha dichiarato di aver ricevuto anche segnalazioni di lanci di pietre tra israeliani e palestinesi e di colpi di arma da fuoco diretti contro i palestinesi. La stessa Mezzaluna Rossa palestinese ha riferito di 10 palestinesi feriti nell’attacco al villaggio di Khalayel al-Loz, in parallelo a notizie dell’agenzia Wafa su sei civili feriti dalle aggressioni dei coloni nella città di Halhul, a nord di Hebron. Fra di loro, sempre secondo i media palestinesi, ci sarebbe anche una donna incinta. Le vittime hanno ricevuto cure mediche sul posto, mentre la donna è stata trasferita all’ospedale della Mezzaluna Rossa di Halhul per ulteriori cure. Il nervosismo cresce anche su altri due fronti aperti nella crisi mediorientale, quelli di Siria e Libano. Le autorità siriane, a quanto riporta il quotidiano Jerusalem Post, accusano Israele di voler «trascinare» Damasco in un conflitto a suon di provocazioni oltre il proprio confine. L’ultima si è materializzata con un raid in un villaggio, costato 13 vittime e giustificato da Israele come operazione anti-terroristica. «Israele sta commettendo un errore di valutazione quando pensa di poter imporre fatti compiuti sul terreno» ha detto Hamza al-Mustafa, dirigente dell’intelligence siriana. «Non saremo una piattaforma di lancio per minacciare i Paesi vicini – ha detto al-Mustafa ma non lesineremo mezzi per affrontare e scoraggiare l’aggressione israeliana». Le Idf hanno sferrato attacchi anche in Libano, spingendo gli islamisti di Hezbollah a chiedere a Papa Leone una condanna chiara della «ingiustizia» e delle «aggressioni di Israele» nella propria missione fra Turchia e Libano.
La nostra «civiltà»: genocidio e antisemitismo
Un testo puramente accusatorio: equipara le democrazie occidentali a un progetto di “genocidio” senza presentare fonti solide né riconoscere la minaccia armata che Hamas continua a rappresentare. L’articolo ignora contesto, diritto di autodifesa e complessità del conflitto, sostituendoli con una lettura ideologica che cancella i fatti. È il pezzo più distorsivo della giornata.
Leggi l'articolo
di Iain Chambers
La nostra «civiltà»: genocidio e antisemitismo
Ormai l’Occidente vede in Israele non tanto uno degli esiti violenti e dolenti del suo razzismo, il risultato contorto del suo antisemitismo storico, quanto il baluardo della civiltà occidentale. Così funziona come uno scudo contro qualsiasi critica allo stato coloniale sionista. E l’Olocausto viene trasformato in un monumento metafisico che blocca ogni critica all’autorità morale dell’Occidente. Ambedue – Israele e il custode occidentale (in particolare tedesco) dell’Olocausto – sono esclusi dai giudici della storia. Emersa dalla negazione del genocidio in atto nel Mediterraneo orientale, come quella della Nakba e dei tanti genocidi che hanno segnato la nostra modernità, si è instaurato un meccanismo, da destra a sinistra, che mira a controllare e indirizzare gli spazi della discussione pubblica. La questione dell’antisemitismo e l’insistenza sull’unicità (e non sulla specificità) dell’Olocausto servono sia a difendere le azioni di Israele e a blindarlo da ogni critica, sia a evitare qualsiasi risposta ponderata da parte delle istituzioni occidentali riguardo alle loro responsabilità in merito alla questione palestinese e alla storia dei genocidi moderni. In questo connubio di poteri ciechi e sensi di colpa irrisolti, la gerarchizzazione razziale del mondo, che ha sostenuto per secoli l’antisemitismo in Europa e l’identificazione della presunta inferiorità di altre vite, storie e culture in spazi coloniali, non viene mai affrontata. Sarebbe da creare una prossimità scomoda tra l’antisemitismo, l’islamofobia e il razzismo nei confronti dei corpi non bianchi, che includono quelli palestinesi. Alcune vite contano più delle altre. Questo è razzismo ed è svelato ogni giorno nel linguaggio dei politici, dei conduttori tv e di tutti gli apparati alle loro spalle. Ci si trova a confrontarsi con la difesa di un’egemonia che crede ancora nella supremazia razziale. Il genocidio in atto a Ga2a e il rifiuto politico di condannarlo e fermarlo ci ricordano questo passato, brutalmente presente e violentemente attuale, che irrompe tra di noi. La difesa oltranza dello Stato di Israele ci sta portando, attraverso la censura e la repressione di altre narrazioni e voci, allo scioglimento della nostra detta democrazia. Affrontare l’apparato razzista che ha sostenuto e giustificato la colonialità della modernità occidentale ci permetterebbe di vedere nell’antisemitismo e nel genocidio non tanto un’unica aberrazione del nostro ‘progresso’, quanto una parte strutturale della grammatica della nostra ‘civiltà’. Solamente quando venivano praticati su una parte razzialmente identificata della popolazione bianca sul suolo europeo, diventavano uno scandalo, come notava Aimé Césaire molti decenni fa. Qui siamo in bel mezzo del capitalismo razziale e della politica economica del mondo odierno. Nell’oscurità di questa storia profonda – dove il razzismo e il genocidio sono costituenti della modernità occidentale: chiedete ai nativi americani, agli aborigeni in Australia, ai milioni dei morti nel Congo che hanno spinto Conrad a scrivere Cuore di Tenebra – l’articolazione violenta dello stato nazione moderno e la macchina brutale del capitale che richiedevano e richiedono l’appropriazione unilaterale delle risorse del mondo per riprodursi espone la costanza razziale e coloniale della questione. L’accusa di antisemitismo rivolta a chiunque critichi la politica occidentale e le pratiche genocidarie di Israele ci consiglia ad affrontare il dispositivo del razzismo che giustifica la colonialità del potere e il suo esercizio sul pianeta. Questi sono i collegamenti che le autorità governative e istituzionali occidentali non vogliono né permettono di instaurarsi. È diventato il momento di accludere le persone e le organizzazioni delle comunità ebraiche che rifiutano di considerare l’antisemitismo come parte della sintassi del razzismo che determina gli assetti di potere del mondo odierno. Insistere sulla lettura dell’antisemitismo in questa chiave ci permette di distrarci dall’appoggio incondizionato allo stato coloniale d’apartheid che sta praticando la pulizia etnica nel Mediterraneo orientale, che è chiaramente dall’altra parte della linea di colore. Inoltre, in casa nostra, si intrecciano i tentativi attuali di svuotare la formazione educativa di ogni critica, con le proposte che la storia sia esclusivamente una proprietà occidentale e dove spesso, nei dipartimenti universitari, la presunta neutralità scientifica degli approcci disciplinari continua a rendere altre storie, culture e vite soltanto locali e di poco conto nella loro individualità antropologica rispetto alla grande narrazione del progresso liberale. Questo sarebbe il progresso, come insisteva il filosofo liberale John Locke, che richiede l’eliminazione degli indigeni – delle loro storie, culture e vite per potersi realizzare. Imponendo il proprio apparato di conoscenza (come se non fosse già ibrido e creolizzato nella sua formazione), si presenta hegelianamente come universale e come guardiano della dialettica della storia. Così si negano agli altri e alle altre il diritto di essere soggetti storici, di narrare, spiegare, proporre e vivere una modernità che non è soltanto nostra. Ancora una volta, e andando ben oltre i limiti del noto concetto di orientalismo di Edward Said, si tratta di un dispositivo che, proprio nel proporre e riprodurre saperi ‘neutrali’ e scientifici, sopra i giudizi altrui, espone un dispositivo coloniale e razzista.
L’attesa di una soluzione a due Stati
Leggi l'articolo
di Valerio Palombaro
L’attesa di una soluzione a due Stati
A 78 anni dalla risoluzione Onu sulla Palestina. L’attesa di una soluzione a due Stati. La risoluzione 181 del 29 novembre 1947 dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, da 78 anni, chiede l’istituzione di due Stati nella regione della Palestina, uno israeliano e uno palestinese, con Gerusalemme e Betlemme sotto un regime speciale. La data in cui venne adottata questa risoluzione non vincolante, dal 1977 coincide anche con la Giornata Onu di solidarietà con il popolo palestinese. Lo Stato di Palestina, con cui la Santa Sede ha firmato un accordo globale per il pieno riconoscimento dieci anni fa, è riconosciuto ad oggi da 156 Paesi membri dell’Onu: un’accelerazione significativa è stata registrata nel settembre di quest’anno con i riconoscimenti di Francia, Belgio, Lussemburgo, Malta, Monaco, Andorra, Regno Unito, Canada, Australia e Portogallo. Il popolo palestinese vive principalmente nella martoriata Gaza, in Cisgiordania, inclusa Gerusalemme est, in Israele, oltre che nei vicini Stati e nei campi profughi diffusi nella regione. «La Giornata internazionale di solidarietà con il popolo palestinese di quest’anno giunge dopo due anni di sofferenze indicibili a Gaza e all’inizio di un cessate il fuoco tanto necessario», ha dichiarato il segretario generale dell’Onu, António Guterres, nel suo messaggio per la Giornata odierna. Una tregua tanto necessaria quanto fragile, come riconosciuto dalla presidente dell’Assemblea generale dell’Onu, Annalena Baerbock, che lo scorso 25 novembre a New York ha ricordato come almeno 67 bambini siano stati uccisi dall’entrata in vigore del cessate il fuoco a Gaza. E pur in un contesto di rinnovata speranza, per una tregua lungamente attesa, anche stamane dalla Striscia arrivano notizie di nuove uccisioni: questa mattina, secondo l’emittente Al Jazeera, due adolescenti palestinesi sarebbero stati freddati dalle Forze di difesa israeliane a Bani Suheila, a est di Khan Younis, nella Striscia di Gaza meridionale. Bani Suheila si trova sul lato controllato da Israele della linea gialla del cessate-il-fuoco. In attesa di una soluzione più duratura, come sottolineato anche da Guterres, nella Striscia «fame, malattie e traumi dilagano, mentre scuole, abitazioni e ospedali giacciono in macerie». La tensione rimane alta anche nel resto dello Stato palestinese. In Cisgiordania, giovedì le Idf hanno condotto un’incursione militare nel quartiere Jabal Abu Dhahir di Jenin, uccidendo due persone. «Siamo sconvolti dalla sfacciata uccisione di due uomini palestinesi da parte della polizia di frontiera israeliana ieri a Jenin, nella Cisgiordania occupata, in un’altra apparente esecuzione sommaria», ha denunciato la portavoce dell’Alto commissariato Onu per i diritti umani, Jeremy Laurence, durante un briefing a Ginevra. Al di là delle modalità dell’uccisione, difficili da accertare, di questo ennesimo episodio di violenza fa riflettere un altro dato fornito da Laurence, in quanto denota la cronica situazione di insicurezza in questi territori: almeno 1.030 palestinesi sono stati uccisi in Cisgiordania, inclusa Gerusalemme est, dal 7 ottobre 2023 al 27 novembre di quest’anno; tra di loro 223 minorenni. Lo stesso Guterres ha sottolineato che «l’ingiustizia continua anche nella Cisgiordania occupata, con operazioni militari israeliane, violenze dei coloni, espansione degli insediamenti, sfratti, demolizioni e minacce di annessione». «Ribadisco il mio appello — ha concluso Guterres — alla fine dell’occupazione illegale del territorio palestinese, come affermato dalla Corte internazionale di Giustizia e dall’Assemblea generale, e per un progresso irreversibile verso una soluzione a due Stati, in conformità con il diritto internazionale e le pertinenti risoluzioni dell’Onu, con Israele e Palestina che vivono fianco a fianco in pace e sicurezza entro confini sicuri e riconosciuti, sulla base delle linee precedenti al 1967, con Gerusalemme come capitale di entrambi gli Stati».
Ein EI Hilwe si scopre una piccola Gaza
Leggi l'articolo
di Michele Giorgio
Ein EI Hilwe si scopre una piccola Gaza
Ein El Hilwe, campo profughi palestinese in Libano da sempre cuore della resistenza armata, si scopre una piccola Gaza: un raid israeliano ha colpito un campo da calcio, facendo strage di ragazzini. E ora Anp e Beirut puntano al disarmo, messaggio chiaro per Usa e Israele. «Hai l’autorizzazione? E l’accredito stampa del ministero e il passaporto? Ok, resta qui e aspetta mentre controlliamo i tuoi documenti», ci dice uno dei soldati libanesi di guardia al posto di blocco militare che vigila su ogni movimento in entrata e in uscita da Ein El Hilwe. All’inizio ci dice che non siamo autorizzati a entrare, poi l’approvazione esce fuori e ci fanno passare. Non è mai stato facile entrare, ma le restrizioni si sono fatte ancora più rigide. Un tempo bastava qualche ora per ottenere il permesso. Ma questo campo profughi, nel cuore di Sidone, roccaforte storica della militanza palestinese – in passato controllato dal partito Fatah e dall’Olp e oggi senza una guida unica e con una presenza consistente di Hamas – è tornato di nuovo al centro delle notizie. Fecero scalpore nell’estate 2023 gli scontri a fuoco al suo interno, con morti e feriti, tra le principali fazioni palestinesi. LO SCORSO 18 NOVEMBRE Ein El Hilwe si è scoperto una piccola Ga2a dopo l’attacco aereo improvviso, il più letale compiuto da Israele sul territorio libanese dalla tregua siglata nel novembre 2024 con Hezbollah. Un missile sganciato tra le case del campo, udita in tutta Sidone, ha ucciso 13 palestinesi, in gran parte adolescenti che giocavano a pallone in un piccolo campo da calcio nei pressi della moschea Khalid bin al Walid. Per il portavoce militare israeliano sarebbe stato preso di mira un raduno di dirigenti locali del movimento islamico palestinese. Una versione che le foto delle vittime non convalidano. Ci accompagna in giro Mahmoud Abu Hamda, responsabile locale dell’associazione di assistenza ai rifugiati «Beit Atfal al Sumud». «Non siamo rimasti sorpresi dall’attacco israeliano, la vita dei palestinesi ovunque essi siano: colpiti e uccisi in continuazione, in ogni modo (da Israele), a Gaza, in Libano, in Cisgiordania, in ogni luogo», dice Mahmoud mentre ci porta sul luogo della strage dei ragazzi. Le loro foto sono dappertutto nelle strade e nei vicoli stretti del campo che percorriamo. I cavi della corrente elettrica sono come ragnatele che gravano sulla testa degli abitanti. Tutti i campi per rifugiati in Libano sono così: con servizi minimi, molto affollati, in totale degrado, prigioni a cielo aperto in cui le autorità libanesi tengono i palestinesi, che erano e restano ospiti indesiderati, senza possibilità di lavorare all’esterno (con rare eccezioni) e nessun diritto. Passiamo davanti alla moschea Khalid bin Al Walid. C’è un piccolo presidio armato. Le bandiere verdi di Hamas sventolano sugli edifici intorno. «Ecco, questo è il centro sportivo colpito da Israele», ci dice Mahmoud indicando un ampio cortile tra alcune palazzine. Il campo da calcio è già stato ripulito, la copertura danneggiata dall’esplosione è stata portata via e degli operai sono intenti a riparare la rete elettrica. A distanza di quasi due settimane, i segni più visibili del raid mortale sono le carcasse annerite di alcune auto. Facciamo foto e video sotto lo sguardo carico di sospetto di alcuni abitanti. Mahmoud ci fa capire che dobbiamo andare. A poche decine di metri, in una piccola abitazione, ci attende Aja Majda, 35 anni, conosciuta come Um Obaida. È la madre di uno dei ragazzi uccisi, Obaida Hutani, 17 anni. Porta il lutto, il volto è segnato dal dolore per la perdita del figlio, ucciso assieme a due cugini adolescenti come lui. «Il 18 novembre Obaida era andato a scuola come sempre, all’istituto dell’Unrwa (l’agenzia dell’Onu che assiste i profughi palestinesi, boicottata da Israele, ndr) ed era tornato a casa tranquillo», ci racconta tenendo in mano il telefono: sullo schermo c’è la foto del ragazzo. «Amava molto il calcio – aggiunge la donna sotto lo sguardo della madre, della figlia e del figlio più piccolo -, da quando hanno aperto il campetto vicino casa, non mancava occasione per andare a giocare con i suoi amici. E così è andata quel pomeriggio». OBAIDA NON SAPEVA che la partitella quotidiana si sarebbe trasformata in una trappola letale. «C’è stata una forte esplosione, ha fatto tremare la nostra e le altre abitazioni intorno – prosegue Um Obaida – Ho sentito urla, le sirene delle ambulanze, ero confusa. Sono arrivate delle persone a dirmi di essere forte e che Obaida era diventato un martire. Parole che mi hanno dato dolore e conforto allo stesso tempo. Ho amato mio figlio per come è stato quando era vivo e lo amo ora come martire, lui è vicino a Dio». Um Obaida, come Mahmoud, ci ripete che i palestinesi «sanno di essere nel mirino di Israele». Fonti palestinesi hanno negato la presenza di infrastrutture militari nella zona colpita, sostenendo che la versione israeliana altro non è che il tentativo di giustificare un bombardamento che ha ucciso tanti ragazzi. L’ufficio dell’Alto Commissariato dell’Onu per i diritti umani ha sollecitato un’indagine rapida e indipendente, ricordando che il bombardamento di un campo profughi popolato da civili può configurare un crimine di guerra. Da parte di Beirut le prese di posizioni sono state blande, poco incisive. La denuncia ha privilegiato l’aspetto dell’ennesima grave violazione della sovranità libanese. IL PREMIER Nawaf Salam e il capo dello Stato Joseph Aoun, come una buona fetta di libanesi, non hanno simpatia per il Ein El Hilwe, visto da decenni come fonte di problemi e non un luogo dove circa 60mila palestinesi (e non solo), forse 80mila, vivono in condizioni spaventose. Il disarmo delle milizie palestinesi – che sulla base di un accordo del 1969 hanno avuto sino ad oggi l’incarico di proteggere i profughi – a Ein el Hilwe e in altri campi, è l’obiettivo che Beirut si è data per dimostrare agli Stati uniti (e a Israele) di poter raggiungere anche l’obiettivo del disarmo di Hezbollah. Possibilità a dir poco remota. Anzi, il leader del movimento sciita Naim Qassem, due giorni fa, ha ribadito che le armi della Resistenza non si toccano e che Hezbollah ha il diritto di rispondere al momento più opportuno all’assassinio del suo comandante militare Haytham Tabatabai compiuto nei giorni scorsi da Israele. Nell’estate 2025 l’esercito libanese ha avviato – con il consenso dato il 21 maggio dal presidente di Fatah e dell’Olp, Abu Mazen – l’operazione per «riconquistare» il monopolio sulle armi presenti nei 12 campi profughi palestinesi del Libano. Delle armi – mitra, granate, lanciarazzi e pistole – sono state consegnate dai combattenti nei campi a Beirut. Altre consegne hanno riguardato le regioni meridionali come Rashidieh, Al-Bass e Burj al-Shamali. Infine armi sono state raccolte nei campi di Beddawi (nord di Tripoli) e Ein El Hilweh. Però diversi gruppi palestinesi, a cominciare da Hamas e Jihad hanno respinto la decisione di Abu Mazen. «FINO A OGGI sono state date solo armi vecchie, neppure quelli di Fatah vogliono consegnarle ci spiega un abitante di Ein El Hilwe vicino ai gruppi armati Le armi rappresentano non solo un mezzo di autodifesa, ma anche un legame identitario con la causa palestinese e con il diritto al ritorno per i profughi nella loro terra». La protezione autonoma dei campi, aggiunge «è un nostro diritto, a maggior ragione ora che siamo sotto attacco continuo di Israele».
Uk, decine di arresti ai cortei ProPal
Leggi l'articolo
di Andrea Fabozzi
Uk, decine di arresti ai cortei ProPal
Decine di persone sono state arrestate in Gran Bretagna ieri, nel corso delle manifestazioni in solidarietà con il popolo palestinese. A Bristol sono stati fermati in 31, a Manchester in 34 e altri 10 a Norwich, mentre a Londra in oltre 100mila hanno preso parte al corteo convocato da Palestine Coalition. Tra le ragioni della protesta c’era anche il sostegno a Palestine Action, il gruppo che a luglio è stato designato come terrorista. Diversi dei manifestanti arrestati reggevano cartelli di sostegno all’associazione. Anche in Francia si sono tenute manifestazioni lungo tutto il paese. A Parigi hanno partecipato in migliaia, chiedendo che venga rispettato il cessate il fuoco e la rottura dei rapporti con Israele.
Torna a scorrere il fiume della pace
Leggi l'articolo
di Michele Gambirasi
Torna a scorrere il fiume della pace
Torna a scorrere il fiume della pace «Per la Palestina», il fiume scorre ancora. Grande manifestazione a Roma e cortei in altre città. Non solo Ga2a ma anche no al riarmo europeo. «Non ci divideranno» Un mese e mezzo dopo la grande manifestazione del 4 ottobre, che aveva portato a Roma oltre un milione di persone, ieri la Capitale è tornata a riempirsi nella giornata internazionale di solidarietà con il popolo palestinese. Nel frattempo altre manifestazioni si sono tenute a Firenze e Milano, dove l’attenzione è concentrata sull’arresto dell’imam Mohamed Shahin, ora detenuto nel Cpr di Caltanissetta. In testa ci sono i movimenti palestinesi e i sindacati di base che venerdì scorso hanno scioperato contro la finanziaria di guerra del governo di Giorgia Meloni. Con loro anche la relatrice speciale dell’Onu per i Territori Palestinesi Francesca Albanese e Greta Thunberg. Tra gli spezzoni anche quello della rete «No Kings», che si sta organizzando per una nuova mobilitazione nazionale: l’appuntamento è fissato per il 24 e il 25 gennaio a Bologna, per un’assemblea nazionale in vista di una manifestazione a marzo. Un mese e mezzo dopo la grande manifestazione del 4 ottobre, che aveva portato a Roma oltre un milione di persone, ieri la Capitale è tornata a riempirsi nella giornata internazionale di solidarietà con il popolo palestinese. Nel frattempo altre manifestazioni si sono tenute a Firenze e Milano, dove l’attenzione è concentrata sull’arresto dell’imam Mohamed Shahin, ora detenuto nel Cpr di Caltanissetta. IL CORTEO romano si è mosso da Porta San Paolo, aperto dall’intervento di Guido Lutrario, dell’esecutivo dell’Usb. Tra gli obiettivi della manifestazione c’è anche il progetto di riarmo europeo, che rispetto a un mese fa ha fatto un altro passo avanti con le manovre di bilancio nazionali, tra cui quella italiana: «L’acquisto di armamenti sta portando a una perdita di risorse per la sanità, per i salari, le pensioni, mentre intere industrie chiudono e l’unica alternativa possibile è quella della riconversione bellica» dice il sindacalista Usb, che ieri insieme alle altre sigle di base si è mobilitata in sciopero generale contro la finanziaria. Prima di lui, mentre le persone stanno ingrossando le fila del corteo, dalle casse suona «Palestine will be free», la canzone che l’ex bassista dei Pink Floyd Roger Waters ha scritto per la giornata. A chiudere la manifestazione c’è lo spezzone organizzato dalla rete «No Kings», almeno cinquemila persone dietro lo striscione «Contro i re e le loro guerre». In mattinata si erano trovati a Roma 3, insieme a Francesca Albanese, Greta Thunberg e Thiago Avila e Maria Elena Della della Global Sumud Flotilla. «Le piazze e gli scioperi di questi mesi devono insegnarci una cosa, ovvero che la convergenza dà frutti concreti. Quando invece andiamo divisi la nostra forza si affievolisce» dicono dal camion che guida lo spezzone. L’obiettivo è quello di articolare uno spazio più aperto possibile in cui costruire una mobilitazione a partire dal rifiuto delle guerre: «Ga2a è il ground zero del mondo che verrà, e in modi diversi lo sarà anche l’Ucraina: i nuovi re sono predatori all’assalto del valore delle nostre vite. L’unico modo per rifiutare questo nuovo disegno del mondo in chiave fascista e bellicista è continuare a camminare tutte e tutti insieme. Se ci dividiamo, il fiume diventa stagno» scandiscono ancora. L’appuntamento fissato è per il 24 e il 25 gennaio a Bologna, per una due giorni di conferenza e assemblea nazionale in cui mettere in piedi la manifestazione prevista per fine marzo, all’inizio della primavera. Tra i cartelli dei manifestanti spiccano quelli con l’immagine di Marwan Barghouti manette ai polsi e segno della vittoria rivolto verso l’alto. Già leader di Fatah, Barghouti è prigioniero nelle carceri israeliane dal 2002 ed è riapparso in video dopo anni a metà agosto, quando il ministro israeliano della Sicurezza Itamar Ben Gvir ha pubblicato un filmato in cui lo dileggiava. Ieri decine di associazioni sono tornate a chiederne la liberazione insieme agli altri detenuti palestinesi: «Dal 7 ottobre 2023, Israele ha imprigionato più di 15.000 palestinesi provenienti da Gaza e circa 20.000 dalla Cisgiordania, di cui 1.560 bambini, 595 donne, 408 medici ed operatori sanitari, e 202 giornalisti» hanno detto le associazioni promotrici della campagna lanciata ieri. Tra tutti i prigionieri, Barghouti è il più noto e universalmente considerato come la figura potenzialmente in grado di riunire le diverse fazioni politiche palestinesi. «Quello tracciato nel ’47 fu un piano senza la partecipazione dei palestinesi, che sancì l’inizio del colonialismo. Lo stesso accade oggi con il piano di pace occidentale, mentre il cessate il fuoco sta facendo continuare il genocidio in altri modi» dice Maya Issa del Movimento studenti palestinesi quando prende la parola in piazza San Giovanni. Il piano Onu fu ratificato il 29 novembre, diventata poi Giornata di solidarietà con il popolo palestinese. «Potrei dirvi quanta repulsione provo e quanto devastata mi senta ogni volta che penso ai criminali di guerra al comando, compreso il vostro governo fascista», dice Greta Thunberg, «quindi voi avete la responsabilità di continuare a scendere in strada e boicottare».
Raid su Gaza e moine a Trump. Così Bibi si aggrappa al potere
Leggi l'articolo
di Davide Lerner
Raid su Gaza e moine a Trump. Così Bibi si aggrappa al potere
È noto come Netanyahu prediligga l’inglese all’ebraico come lingua di lavoro: fa parte della sua biografia nel periodo dell’infanzia, in quello della sua formazione accademica, nonché dell’ascesa come rappresentante israeliano all’Onu e come leader politico. Ma se dopo l’approvazione della risoluzione del Consiglio di sicurezza su Ga2a a metà novembre Bibì ha diffuso un comunicato di apprezzamento solamente in inglese non è certo per via della sua maggiore dimestichezza con la lingua adottiva, Piuttosto la scelta di evitare l’ebraico è emblematica della sfida politica che lo attende da ima parte rimanere nelle grazie di Donald Trump, assecondando i suoi piani per Ga2a e le comuni ambizioni per l’espansione degli Accordi di Abramo. Dall’altra, non perdere pezzi di elettorato in Israele , dando l’impressione di essere diventato morbido nella sua opposizione all’idea di uno stato palestinese per compiacere la Casa Bianca e i suoi alleati arabi. Le elezioni israeliane sono previste per ottobre, ma gli analisti non escludono il voto anticipato: Il governo cadrà se non riuscirà ad approvare la legge di bilancio entro la fine di marzo, e anche l’antica questione dell’arruolamento degli ultraortodossi rischia di spaccare la maggioranza. Per la prima volta da molti anni, il voto si giocherà anche, e forse soprattutto, sulla questione palestinese. Non a caso la disamina delle responsabilità del 7 ottobre, che ha pesanti ricadute politiche, sta provocando scintille fra i guardaspalle di Netanyahu e i vertici delle forze armate. Il ruolo di Trump gode di una popolarità immensa in Israele. Non solo perché si è rivelato deus ex òàñÛïà nel rendere possibile il ritorno degli ostaggi e l’archiviazione seppur parziale e imperfetta della guerra di Ga2a. Ma anche perché durante il suo primo mandato (2016-2020) autorizzò una serie di concessioni storiche, dallo spostamento dell’ambasciata a Gerusalemme al riconoscimento della sovranità israeliana sul Golan. Per Bibi poter vantare un rapporto privilegiato con il presidente Usa è fondamentale in vista della campagna elettorale, nella quale deve compensare il contraccolpo del 7 ottobre. Un recente sondaggio di Channel 12, la principale emittente televisiva israeliana, ha concluso che oggi l’opposizione otterrebbe 68 seggi, contro i 52 della coalizione di Netanyahu. Ma Bibi potrebbe essere comunque il candidato primo ministro con più chance di formare jl governo, ottenendo il sostegno di 61 deputati su 120: il Likud rimane il partito più grande, con 27 seggi, seguito da quello dell’ex primo ministro Naftali Bennett con 22. E i partiti di opposizione non sarebbero in grado di formare una maggioranza senza includere i partiti arabi, che detengono 10 seggi alla Knesset, cosa che lo stesso Bennett ha più volte escluso di fare Per Bibì vincere vuoi dire anche poter affrontare i guai giudiziari da una posizione di forza, e sfuggire a un epilogo avvilente per la sua parabola politica trentennale: finire in galera- II ruolo di Trump anche in questo è centrale, S=?-s= ISEas à é ‘ SSsg SS g come dimostrano le sue ripetute richieste al presidente Isaac Herzog di varare un’amnistia a suo favore, alle quali Herzog ha risposto esponendo, timidamente, gli eventuali meccanismi procedurali. L’editorialista di Haaretz Yossi verter ha commentato che Herzog «ha assunto un atteggiamento da ebreo della diaspora», un modo di tacciarlo, usando un linguaggio tipico della peggiore arroganza israeliana, di debolezza e viglìaccheria- n silenzio di Bib j II voto Onu a favore della creazione di una Forza intemazionale di stabilizzazione (Isf) a Ga2a è stato una nuova occasione per Netanyahu di compiacere il sodale americano: per Bibi, il suo opera
to è stato «da applausi » e la sua squadra si è dimostrata «instancabile e devota». Ma Netanyahu ha invece passato sotto silenzio il passaggio della risoluzione che auspica «un percorso credibile verso l’autodeterminazione e la sovranità dello Stato palestinese», un fatto rilevato sia dagli alleati di destra che dalle opposizioni. Per rimanere nelle grazie di Trump, Bibi sta ingoiando diversi rospi che pesano nei suoi rapporti con gli alleati di destra e messianici. Dapprima ha accettato controvoglia la tregua entrata in vigore in ottobre, dopo la quale il ritmo dei massacri di Gaza si è notevolmente abbassato. Anche se i circa 350 palestinesi uccisi e i quasi mille feriti a Gaza dall’entrata in vigore del cessate il fuoco sono un numero enorme, sono meno rispetto al centinaio di vittime al giorno che l’Idf mieteva nella fase precedente l’intervento usa . Bibi ha anche dovuto accettare di offrire scuse plateali al Qatar per aver autorizzato un raid contro Hamas a Doha, e di coinvolgerlo insieme alla Turchia, un altro stato che ha rapporti con Hamas, nelle discussioni sul futuro di Gaza. Si è dovuto altresì tappare la bocca a fronte della decisione di Trump di procedere con la vendita dei jet militari F-35 al principe ereditario saudita Mohammed Bin Salman, che violerebbero il vantaggio qualitativo che Washington tradizionalmente garantisce a Israele nella regione, senza neppure far avanzare il processo di normalizzazione. Escalation su più fronti. In questo contesto di difficili equilibrismi politici il governo di Bibi, per serrare le file , sta nuovamente aumentando la pressione militare sui principali fronti della guerra del 7 ottobre. Non solo a Gaza, ma anche in Libano, dove IDF ha fatto 13 morti nel campo profughi palestinese di Ain al-Hilweh ed è tornato ad alzare il tiro contro Hezbollah, la milizia sciita accusata di riorganizzarsi in seguito alla batosta subita nell’autunno 2024, uccidendo l’esponente di spicco Ali al-Tabtabai a sud di Beirut. Quanto alla West Bank , secondo l’agenzia Ocha, in ottobre si sono verificati oltre 260 casi di aggressioni sui palestinesi da parte dei coloni , il numero più alto in assoluto da quando il conteggio viene effettuato. Parallelamente, sono scese del 73 per cento le indagini aperte dalla polizia israeliana, guidata dall’estremista Ben Gvir, per questo tipo di crimini: erano state 245 nel 2023, ma sono scese a 150 nel 2024 e a sole 60 quest’anno. In sostanza, ci sono sempre più casi e sempre meno sforzi per . Dopo lunghi silenzi, Bibi e l’ambasciatore americano Mike Huckabee hanno condannato il fenomeno, ma sminuendone con gli stessi argomenti la reale importanza. «Anche gli israeliani possono compiere atti terroristici», ha affermato Huckabee. «Ma la maggior parte di queste persone non sono veri e propri coloni che vivono lì. Si tratta di un numero molto esìguo, per lo più giovani arrabbiati e scontenti che non vivono nemmeno in Giudea e Samaría». L’Idf, insomma, difficilmente riceverà ordini di fare del problema una sua priorità. Piuttosto, mercoledì all’alba, ha lanciato una nuova “operazione anti terrorismo” nella zona di Tubas, nella west Bank settentrionale, minacciando i residenti di ridurla come i vicini campi prorughi di Tulkareme.
I suoi amici assaltano un giornale? Per la sinistra sono «squadristi»
Leggi l'articolo
di Francesco Bonazzi
I suoi amici assaltano un giornale? Per la sinistra sono «squadristi»
I suoi amici devastano un giornale, la sinistra li chiama «squadristi» Assalto alla «Stampa», solidarietà senza attaccare i centri sociali Albanese: «Sbagliato, ma sia di monito…». Meloni: «Parole gravi» I suoi amici assaltano un giornale? Per la sinistra sono «squadristi» Solidarietà bipartisan alla «Stampa» per l’aggressione. Ma i progressisti glissano sugli antagonisti e usano il loro lessico. Albanese: «Sbagliato, ma sia un monito». Meloni: «Parole gravi». La replica: «Vi faccio paura. Solidarietà alla Stampa dopo l’aggressione a Torino dei manifestanti pro Pal. La sinistra, però, non nomina mai i centri sociali, e parla di «squadristi». Francesca Albanese: «Assalto sbagliato, ma sia di monito ai giornalisti». Meloni: «Parole gravi». E dal giornale partono accuse… alle forze dell’ordine. Alla fine, meno male che ci sono i social, dove impazzano le foto delle scritte sui muri della redazione della Stampa. «Free Palestine», «Giornali complici di Israele», «Free Shamin» (l’imam di Torino espulso), «Stampa complice del genocidio». Si può vedere questo e altro anche sui canali web di Intifada Studentesca Torino. Vedere la saldatura tra alcuni ambienti antagonisti e la frangia violenta dei pro Pal è ormai alla portata di tutti. Ma anche ieri gran parte della sinistra che ha espresso solidarietà alla redazione del quotidiano degli Elkann ha faticato a fare il più classico dei 2+2. E lo stesso vale anche per i giornalisti di Stampa e Repubblica, che nei loro comunicati ufficiali hanno completamente sorvolato sulla matrice dell’irruzione di venerdì, per nascondersi dietro espressioni generiche come «squadrismo» e «manifestanti». Le bandiere della Palestina e le scritte contro Israele sono un fatto difficile da negare. A meno che le indagini della Procura di Torino scovino decine di infiltrati nel corteo di venerdì, la matrice della «bravata» sembra evidente. La Digos ha già identificato una trentina (su circa 50) delle persone che hanno forzato due porte della redazione e hanno buttato libri e carte per terra. E dalle prime indagini sarebbero tutti appartenenti all’area antagonista. Nei resoconti del foglio torinese appaiono invece delle allusioni alle negligenze da parte delle forze dell’ordine nell’evitare l’assalto. Ieri è stato ancora un giorno di ampia espressione di solidarietà istituzionale e politica alla redazione della Stampa. Il presidente Sergio Mattarella ha fatto arrivare al direttore Andrea Malaguti la sua solidarietà, unita alla «ferma condanna per l’accaduto». E il premier Giorgia Meloni ha telefonato a Malaguti per esprimere la vicinanza del governo, definendo l’irruzione «un fatto gravissimo che merita la più assoluta condanna». Sembrano parole ovvie, ma non per tutti. L’ex relatrice Onu per i Territori palestinesi occupati, Francesca Albanese, a un convegno ha fatto una domanda polemica ai giornalisti: «Avete dato la notizia della Stampa nonostante lo sciopero, ma perché non avete coperto anche quello che è successo a Genova e in altre 50 città con migliaia di persone scese in piazza?». Dopo di che ha ricordato che i giornalisti, oltre a raccontare i fatti, dovrebbero fare anche un po’ di analisi e contestualizzazione». Dei distinguo che hanno costretto la Meloni a tornare sul tema attraverso X: «È molto grave che, di fronte a un episodio di violenza contro una redazione giornalistica, qualcuno arrivi a suggerire che la responsabilità sia – anche solo in parte – della stampa stessa. La violenza non si giustifica. Non si minimizza. Non si capovolge». In serata la replica di Albanese ad Accordi e disaccordi, rispondendo ad una domanda sul tweet di Meloni: «Secondo me mi criticano perché faccio paura, rappresento il cambiamento e il risveglio delle coscienze». Il sindaco di Torino, Stefano Lo Russo (Pd), ha stigmatizzato l’episodio e ha tenuto a sottolineare che «quanto è accaduto non ha nulla a che vedere con il diritto di manifestare pacificamente ed è ancora più grave perché colpisce un simbolo della libera informazione, uno dei pilastri della nostra democrazia». H
a scelto i toni del predicozzo fine e non impegna anche Elly Schlein, per la quale il fattaccio di venerdì «è un atto grave e inaccettabile perché ogni sede di giornale è presidio di libertà e democrazia». Se dalla politica arrivassero anche meno querele temerarie sarebbe già un fatto concreto. Chi si è illustrato veramente è il senatore del Pd Walter Verdini, capace di scrivere su X: «Chi assale i giornali è sì antagonista, ma della democrazia e della libertà. Come i fascisti che assaltavano la libera informazione, bruciavano libri. Solidarietà a La Stampa, ai giornalisti. Isolare questi falsi pacifisti, delinquenti che fanno male anche alla causa della pace». A distanza di 82 anni dalla caduta del fascismo, nascondere così gli striscioni rossi e le bandiera della Palestina è veramente un’impresa epica. Ma se ai politici può essere perdonata, a volte, una certa vaghezza, non così per i giornalisti, ai quali è richiesto nel Dna il coraggio. Nella nota del comitato di redazione (il sindacato interno) della Stampa, si parla genericamente di «manifestanti» e si afferma che l’irruzione «è ancora più vile perché accade nel giorno dello sciopero nazionale dei giornalisti per il rinnovo del contratto di lavoro e a difesa della qualità dell’informazione democratica, libera e plurale». Ma chi sarà stato e perché? Non si sa. I «cugini» di Repubblica però hanno indagato e nel loro comunicato sindacale parlano di «un gruppo composto da decine di manifestanti, staccatosi da un corteo in solidarietà con la Palestina». Ottimo indizio. Salvo cadere nello stesso «errore» di Verdini, quando descrivono il fatto di venerdì come una «pratica squadrista». Un altro bell’assist negazionista prontamente raccolto in serata da Nicola Zingaretti, che in una nota parla pure lui di «azioni squadristiche». Il tempo passa, ma c’è ancora una bella fetta di sinistra che quando vede la violenza di qualcuno che in qualche modo conosce prende il pennello e le cambia colore.
Si rafforza l’asse tra falce, martello e Corano
Leggi l'articolo
di Fabio Amendolara
Si rafforza l’asse tra falce, martello e Corano
li antagonisti, tra cui qualche ex brigatista, manifestano insieme a imam radicalizzati e maranza. Come Boutere, italo marocchino ricercato dopo gli scontri a Torino, ritrovato a casa della leader di Askatasuna. Una saldatura evidente che preoccupa gli inquirenti n La saldatura che preoccupa investigatori e i nt e l l i ge n c e ormai non è più un’ipotesi, è una fotografia scattata nelle piazze: gli antagonisti, compreso qualche indomito ex brigatista, manifestano contro Israele, marciano accanto agli imam radicalizzati comparsi in inchieste sul terrorismo jihadista e applaudono a predicatori salafiti che arringano la folla tra le bandiere rosse e quelle palestinesi. È tutto lì, in una sola immagine: anarchici, jihadisti, vecchio terrorismo rosso e sigle filopalestinesi fusi negli stessi cortei, con gli stessi slogan, contro gli stessi nemici. Una convergenza che non è spontanea: è il risultato di un’ideologia vecchia di 20 anni, quella di Nadia Desdemona Lioce, che aveva già teorizzato che «le masse arabe e islamiche espropriate e umiliate sono il naturale alleato del proletariato metropolitano». Oggi quella frase non è più teoria. È cronaca. Quella dell’altro giorno, quando un gruppo di attivisti di Askatasuna, del Collettivo universitario autonomo e del Kollettivo studentesco autorganizzato, riconducibili sempre al centro sociale, hanno fatto irruzione nella redazione torinese del quotidiano La Stampa. Circa 30 di loro sono stati identificati dopo aver lasciato sui muri dell’open space del quotidiano piemontese slogan d’antan: «Giornalista terrorista, sei il primo della lista». Ma soprattutto: «Giornalisti complici dell’arresto in Cpr di Mohamed Shahin». Ovvero l’imam di Torino ristretto nel Cpr di Caltanissetta con un decreto di espulsione del questore approvato dalla Corte d’Appello. La Questura ha messo in fila ciò che negli ambienti progressisti fingono di non vedere: «Nel marzo 2012 veniva fermato a Imperia insieme a Giuliano Ibrahim Del Nievo (genovese, ndr), trasferitosi quello stesso anno in Siria per unirsi alle formazioni jihadiste e morto in combattimento nel 2013». Non solo. Nel 2018, durante un’indagine su Elmahdi Halili (condannato per terrorismo islamico con sentenza passata in giudicato) «veniva registrata una conversazione in cui questi consigliava ad altro soggetto di rivolgersi a Shanin presso la moschea di Torino». È tutto in quei due episodi: una parte di Italia scende in piazza per difendere un uomo che negli atti giudiziari compare come interlocutore di personaggi del circuito jihadista. E che in pubblico ha detto di essere «d’accordo con quello che è successo il 7 ottobre». Ma nell’ambiente torinese agitato da Askatasuna si muoveva anche Omar Boutere, il liceale italomarocchino diciottenne finito nei guai per gli scontri del 15 novembre per il «No Meloni Day» (durante i quali otto agenti sono rimasti feriti). Dopo le botte negli uffici della Città metropolitana, Boutere scappa. E dove va a nascondersi? A casa della leader di Askatasuna, Sara Munari. È lì che la Digos lo scova. Il giudice del Tribunale gli concede l’obbligo di firma, ma dopo aver riconosciuto il rischio di recidiva per «l’indole violenta». La fotografia simbolo è la sua: profilo Facebook, mano destra alzata, gesto della P38 accanto a una bandiera palestinese. Non è un dettaglio. Gli ambienti che proteggono i protagonisti delle piazze violente sono gli stessi che scendono in strada per difendere imam espulsi per ragioni di sicurezza nazionale. Al centro della piazza di Bologna, tra bandiere rosse e palestinesi, infatti, c’era un personaggio che nemmeno gli ambienti islamici moderati tolleravano: Zulfiqar Khan, imam salafita. L’uomo che in tv diceva che «gli ebrei sono ingannatori», quello beccato dalla Verità mentre convertiva un minorenne in diretta Facebook e che parlava davanti alle telecamere
del centro culturale Iqraa pubblicando i suoi sermoni, è stato espulso esattamente un anno fa. Le sue frasi sono testuali, e basta leggerle per comprenderne il taglio: «Questo governo americano e questo governo israeliano e la loro agenda portano il terrorismo e mettono nei cuori il terrorismo». E ancora: «Questa storia nasce cento anni fa, quando si diceva “vedrete che i palestinesi non saranno sulla terra della Palestina”. Questa è la loro agenda». E poi l’appello più preoccupante di tutti: «I libri sacri sono l’unica via per radunare tutti quanti». Un comizio salafita, nel cuore di un corteo antagonista. Nessun imbarazzo, ma tanta solidarietà. Per capire la saldatura, però, bisogna tornare al mondo anarco-insurrezionalista. Il 30 novembre 2022 il Gom della polizia penitenziaria registra un colloquio in cui Alfredo Cospito, l’arruffapopoli in 41 bis, avrebbe detto che «alla protesta in corso (quella contro il carcere duro alimentata dallo sciopero della fame del leader della Federazione anarchica informale/Fronte rivoluzionario internazionale, ndr) avrebbero aderito anche i detenuti “musulmani jihadisti”». Il panorama della «A» cerchiata con gli ambienti jihadisti: la saldatura, già teorizzata, prende forma. Nelle piazze del 2024, a Milano, c’è infatti un volto che chi ricorda la cronaca italiana degli anni Settanta non può ignorare: Francesco Giordan o, Brigata XXVIII Marzo, condannato per l’omicidio di Wa lte r Toba g i , guidava un corteo per la «Palestina libera» mentre reggeva uno striscione che invitava al boicottaggio di Israele: «Non finanziare l’Apartheid israeliana». Il 25 aprile scorso, invece, a bordo di un camion, c’era un altro ex brigatista rosso: Paolo Maurizio Ferrari, 79 anni. Sfilava davanti alla componente antagonista, insieme ai giovani palestinesi e alle sigle pro Palestina. Ma in molti hanno finto di non vedere la convergenza tra veterani del terrorismo rosso e attivisti della causa palestinese. Anche quando sul sito del Nuovo partito comunista italiano è comparsa una foto di Marco Carrai con la bandiera di Israele dietro. Sopra, un banner insanguinato: «Criminale di guerra». Sotto: «Agente sionista complice del genocidio». Chiude la falce e martello accompagnata dallo slogan: «Non aspettarsi giustizia ma essere giustizia». È diventato un bersaglio. Un simbolo perfetto per una galassia che unisce estremismo ideologico e radicalismo etnico-religioso. L’ex docente parigino Gilles Kepel, già giovane trozkista poi fine studioso dei movimenti arabi in lotta contro le dittature del Medio oriente e del jihadismo, minacciato di morte dai gruppi pro Isis, spiega il cuore del fenomeno: «La bandiera palestinese sventolata nelle piazze è assurta a simbolo della lotta contro tutte le ingiustizie. Lo vedete benissimo anche in Italia, le manifestazioni per Ga2a diventano un pretesto per qualsiasi tipo di rivendicazione politica o sociale». La questione palestinese, insomma, è diventata una cornice in cui poter infilare qualsiasi cosa. Davanti al Tribunale dell’Aquila, infatti, gli antagonisti si sono mobilitati per chiedere la liberazione del palestinese Anan Yaeesh, accusato di terrorismo internazionale sulla base di indagini israeliane, arrestato nel 2023 e rinviato a giudizio con altri due attivisti. C’è il presidio, ci sono gli slogan. Lui ha attaccato l’Italia, definendo l’arresto «illegittimo secondo il diritto internazionale» e valutando il suo processo come «influenzato dai rapporti diplomatici dell’Italia con Israele». La macchina del dissenso trova il suo carburante. Yaeesh viene trasferito nel carcere di Melfi. E il comitato Free Anan parla di trasferimento «arbitrario», denunciando che gli «incontri con i legali» sarebbero «sempre più difficili e rari». Anche lui, come Cospito, avvia uno sciopero della fame. Anche la strategia, a questo punto, coincide perfettamente con quella antagonista.
Ancora minacce a Il Tempo dal predicatore di Torino. Fa gli eventi con la Cgil e difende l’imam Shahin
Leggi l'articolo
di Giulia Sorrentino
Ancora minacce a Il Tempo dal predicatore di Torino. Fa gli eventi con la Cgil e difende l’imam Shahin
Brahim Baya, l’uomo che elogia la vita del terrorista Yaya Sinwar ora ha anche l’appoggio della Cgil. Quello che dovrebbe essere lo storico sindacato italiano, si unisce a Baya nella sua nuova iniziativa: «Nasce ufficialmente NUR, narrazioni umane di resilienza. La nostra prima iniziativa in collaborazione con Cgil Torino è dedicata a Ga2a», ha scritto il predicatore su Facebook. Baya che proprio lo stesso giorno ha lanciato l’ennesima pesante accusa contro Il Tempo: «Stanno preparando il terreno per la mia deportazione dal mio paese». Ma non siamo stati noi a definire Sinwar un «la voce della resistenza. Metteva in guardia da anni l’occupazione dalle conseguenze dei suoi atti criminali». E ancora «Yahya Sinwar è caduto come vivono gli uomini liberi: affrontando l’invasore, ferito, con le mani spezzate, circondato dalle rovine, ma ancora capace di scagliare il suo bastone contro il drone del nemico», commenta celebrandolo a «un anno dal suo martirio, ricordiamo l’uomo che disse con il suo silenzio: “Siamo qui, restiamo qui”. Il suo nome, come quello dei suoi fratelli, rimane inciso nella pietra della Storia» insieme a «tutti i resistenti del mondo. Il mondo non dimentica i suoi eroi. La Resistenza non muore». Insomma, se non si conoscesse il soggetto sarebbe complesso pensare che si tratti di un uomo di Hamas, verrebbe più semplice ritenerlo un benefattore dell’umanità, una povera vittima uccisa da criminali, non un assassino. Ed è lo stesso Baya che difende Mohamed Shahin, della moschea Omar Ibn Al Khattab di via Saluzzo detenuto in un cpr per motivi di sicurezza nazionale. E per questo Baya ieri era alla manifestazione dell’Api di Mohammad Hannoun, ritenuto dal dipartimento del Tesoro Usa l’uomo di Hamas in Italia. Chissà se il segretario Maurizio Landini sarà contento che la sezione torinese del sindacato organizzi eventi con chi apertamente sostiene Sinwar. E qui siamo oltre l’appoggio del 7 ottobre. Siamo all’esaltazione della figura che si cela dietro un attentato. E quello che Il Tempo ha fatto è stato solo raccontare le sue parole. E dalla piazza di Milano di Hannoun ha pensato bene di prendersela anche con l’esecutivo, definendo Mohamed Shahin «un prigioniero politico del governo Meloni. Non c’è un’altra definizione possibile per un uomo perseguitato non per ciò che ha fatto, ma per ciò che ha detto: per aver denunciato un genocidio, per aver difeso la dignità di un popolo, per aver alzato la voce dove altri hanno scelto il silenzio. Oggi divide la sorte di tante persone che, in Italia, pagano un prezzo altissimo solo per aver espresso un’opinione scomoda al potere. E questo dovrebbe inquietare tutti: credenti e non credenti, italiani e non». Ha ovviamente omesso i legami dell’imam con gli esponenti del terrorismo, facendo passare come censura quella che non è censura. Perché son o centinaia i cortei ProPal in cui il dissenso è la regola numero uno. Ma Shahin non è uno dei tanti, è un esponente della frangia politica dell’islam, la fratellanza musulmana, ed è ritenuto un pericolo per la sicurezza nazionale, tanto che la Corte d’Appello ha rigettato la sua richiesta di rifugio.
Partiti per aiutare, finiti per essere salvati. Boldrini&Co rifugiati in casa di un palestinese
Leggi l'articolo
di Gianni Di Capua
Partiti per aiutare, finiti per essere salvati. Boldrini&Co rifugiati in casa di un palestinese
Partiti per aiutare il popolo palestinese sono finiti per essere aiutati. È l’epilogo tragicomico della delegazione dei sei parlamentari del Partito democratico in Cisgiordania. Mentre stavano tornando dal viaggio diplomatico sono rimasti bloccati per alcune ore, sulla strada che da Gerico va a Gerusalemme, a causa di un blocco stradale effettuato dalle forze di sicurezza israeliana durante un’operazione anti-terrorismo. Ma cosa è successo? La delegazione mentre era nel van fermo nel traffico ha sentito delle esplosioni e così ha abbandonato il veicolo per riparare nella casa di un cittadino palestinese. A quel punto si attiva la Farnesina che, su richiesta del ministro Antonio Tajani, contatta l’ambasciata italiana che a sua volta ha allertato il servizio di sicurezza israeliano Shin Bet e il comando militare Cogat per la messa in sicurezza della delegazione. I parlamentari sono stati recuperati con due automobili blindate dal console generale a Gerusalemme con la sua scorta e un ufficiale israeliano del Cogat. I parlamentari sono stati portati in un albergo a Gerusalemme. Poi due giorni fa Laura Boldrini, Mauro Berruto, Ouidad Bakkali, Sara Ferrari, Valentina Ghio e l’ex ministro Andrea Orlando hanno ripreso l’aereo in direzione Roma. «In questi giorni in Cisgiordania abbiamo visto con i nostri occhi e sperimentato come vive il popolo palestinese sotto il regime del terrore instaurato da Netanyahu: blitz dell’esercito, esecuzioni sommarie quotidiane, espropri delle case, città intere assediate per giorni con le persone prigioniere dentro. La tortura nelle carceri è diventata sistematica, anche ai danni dei minorenni arrestati senza accuse formali e incarcerati in regime di detenzione amministrativa: un abominio che può andare avanti per anni» ha raccontato Laura Boldrini intervenento alla kermesse della minoranza del Partito democratico a Montepulciano. All’evento in Toscana c’era anche Andrea Orlando e anche lui ha voluto dare una testimonianza del viaggio appena compiuto: «Con Laura Boldrini siamo stati in Cisgiordania: sono finiti i bombardamenti, ma non è finita la persecuzione sul popolo palestinese. Andare a sfasciare le redazioni dei giornali non è il modo per aiutare il popolo palestinese» ha detto facendo riferimento all’irruzione di due giorni fa nella sede de La Stampa. Certo sfasciare le redazioni non aiuta il popolo palestinese, meno male che ci sono le visite dem a farlo.
Assaltano il giornale che la pensa come loro
Leggi l'articolo
di Fausto Carioti
Assaltano il giornale che la pensa come loro
Se i collettivi pro-Pal torinesi se la prendono con La Stampa vuol dire che lì dentro non la leggono, e i pochi che per sbaglio la leggono non la capiscono. Ritardo culturale o intellettuale, poco cambia: quello che hanno preso d’assalto è anche il loro giornale. «Genocidio» di Israele, contestazione delle leggi sulla sicurezza, persino il “diritto” di Askatasuna, il centro sociale da cui proviene la gran parte dei vandali rossi, ad avere la sede garantita dal Comune: non c’è tema su cui il quotidiano degli Elkann non abbia lisciato il pelo alla bestia che venerdì, per ricompensa, le ha morso la mano. Il karma, appunto. Il 28 ottobre la testata diretta da Andrea Malaguti ha dedicato un commento alla storia della polizia «che ha portato via, in manette, un ragazzo del collettivo» al liceo Einstein di Torino. Lo ha firmato Fabrizia Giuliani, filosofa ed ex parlamentare del Pd. Concludendo che «i luoghi della formazione non sono il covo dell’antagonismo e dell’estremismo, come a volte sembra affermare il governo, ma il ter- Rula Je reno dove nasce il vaccino». Anche la cronaca della vicenda era schierata dalla parte del minorenne: «Sedicenne ammanettato a Torino. I genitori scrivono al preside: “Nessuno è intervenuto per evitare gli scontri e proteggerlo”». Colpa di altri, insomma, non del ragazzo che aveva colpito un poliziotto. Quel sedicenne ieri è stato identificato dalla Digos: è uno dei militanti che hanno devastato la redazione della Stampa. È il giornale su cui Rula Jebreal scrive sempre lo stesso articolo. Quello per cui «Israele sta commettendo atti genocidari a Ga2a: dall’uso della fame come arma di guerra, ai bombardamenti indiscriminati, alla distruzione totale delle infrastrutture civili…». Una “mostrificazione” di Israele, del suo governo e del suo popolo perfettamente sovrapponibile a quella che si legge nei proclami degli «antisionisti». Sulle stesse pagine il magistrato Gian Carlo Caselli e l’avvocato Vittorio Barosio paragonano la campagna militare israeliana a Ga2a ai «lager, i gulag, le deportazioni, gli stermini e le pulizie etniche di massa che ha conosciuto il secolo XX». La scrittrice Majd Al-Assar racconta che «denudare i detenuti, minacciarli di violentare i loro familiari, filmarli in posizioni umilianti e aggredirli con oggetti o animali sono pratiche ricorrenti nelle testimonianze» dei palestinesi prigionieri nelle carceri israeliane. La storica Alessia Melcangi spiega che l’appoggio degli Stati Uniti a Israele è motivato «dall’attività di lobby filo-israeliane che da sempre influenzano Capitol Hill». E questo senza qualcosa che assomigli lontanamente a un contraddittorio. Per la causa pro-Pal La Stampa fa molto più di chi ha fatto irruzione nei suoi uffici gridando «giornalista terrorista sei il primo della lista». Il quotidiano del gruppo Gedi è stato (e vedremo se ora smetterà di esserlo) morbido sino alla tenerezza nei confronti di Askatasuna. Quando il sindaco Stefano Lo Russo ha iniziato il percorso per il riconoscimento del centro sociale come «presidio antifascista» e dunque per la concessione della sede di corso Regina Margherita, occupata da trent’anni (la legalizzazione di un sopruso), il politologo Marco Revelli, ex di Lotta Continua, ha benedetto l’operazione. Questo «dialogo», ha spiegato, è «l’Abc della democrazia, come forma della gestione dialogica della convivenza». Sempre lui, Revelli, spiega ai lettori che il “decreto Sicurezza” e il resto della legislazione varata dal governo aprono «la strada a sanzioni sproporzionate e applicabili a livello di massa nei confronti delle libere manifestazioni di dissenso o di rivendicazione di legittimi diritti», e immagina processi celebrati «in qualche stadio trasformato in caserma». Le teorie del complotto securitario hanno il loro megafono in Luca Bottura. Pochi giorni fa, dopo gli scontri di Bologna per la partita di basket Virtus-Maccabi, è riuscito a scrivere che le violenze degli antagonisti sono pilotate da Matteo Piantedosi. «La tattica: lasciare quantomeno che gli incidenti si compiano, per la propaganda minuta contro un nemico immaginario e indistinto. La strategia: circonfondere l’aggettivo “pro-Pal” con la stessa volontà mestatoria applicata un quarto di secolo fa durante il G8 di Genova». Imbarazzante per gli standard del suo stesso giornale. Al punto che il giorno dopo, su quelle pagine, è dovuto intervenire il professor Alessandro De Nicola per spiegargli i fondamentali: «La polizia non ha “lasciato che gli incidenti si compissero” come scrive Bottura, sono stati i dimostranti a innescare le violenze senza bisogno di incoraggiamenti. (…) L’unica cosa da fare è arrestarli e metterli sotto processo». Si deve a Bottura, del resto, un commovente elogio di Francesca Albanese, dopo che costei se l’era presa con Liliana Segre: «Il curriculum e il coraggio di Albanese parlano per lei». La relatrice Onu ha ricambiato ieri, spiegando che l’aggressione alla Stampa deve essere «anche un monito» per i giornalisti che ci lavorano: «Tornate a fare il vostro lavoro, riportate i fatti al centro». Amore non corrisposto, pure lei.
Follia albanese: il blitz alla sede della stampa «è un monito alle redazioni»
Leggi l'articolo
di Tommaso Montesano
Follia albanese: il blitz alla sede della stampa «è un monito alle redazioni»
Su X, Francesca Albanese ha provato a metterci una pezza. Limitandosi ad esprimere «solidarietà alla Stampa» per gli «attacchi» di venerdì sera. Certo, ha premesso la rappresentante speciale dell’Onu per i territori palestinesi, «la rabbia verso un sistema mediatico che distorce la realtà in Palestina è comprensibile, ma la violenza» (…) segue a pagina 4 segue dalla prima TOMMASO MONTESANO (…) non va bene: «Finisce per rafforzare chi ci opprime». Albanese non era stata così diplomatica, scatenando un’ondata di indignazione culminata con la reazione di Giorgia Meloni, nel corso del suo intervento nell’aula magna della facoltà di Giurisprudenza dell’università RomaTre, dove in occasione della “giornata internazionale di solidarietà con il popolo palestinese” è andato in scena un evento – Rebuild Justice, “Ricostruire la giustizia” – dedicato alla «catastrofe umanitaria in Palestina e alle responsabilità della comunità internazionale». Alla presenza anche di Greta Thunberg. L’INVETTIVA DAL PALCO Da quel palco Albanese – partendo da quanto accaduto nella redazione del quotidiano torinese, preso d’assalto da un’ottantina di manifestanti Pro-Pal – ha usato toni incendiari all’indirizzo dei giornalisti. La premessa è sempre la stessa: «Condanno l’irruzione alla Stampa», ma stavolta c’è un “però” grosso come una casa. Quanto successo a Torino «deve essere anche da monito alla stampa per tornare a fare il proprio lavoro. Per riportare i fatti al centro e, se riuscissero a permetterselo, anche un minimo di analisi e contestualizzazione». Insomma, a leggere Albanese parrebbe che i colleghi della Stampa se la sono cercata. E che in fondo quanto accaduto potrebbe anche servire ad avere un’informazione non troppo sbilanciata a favore di Israele. Un concetto che Albanese ha ribadito quando, in un altro passaggio del suo intervento, ha denunciato la “congiura del silenzio” sui presunti crimini israeliani. «Io non ho paura che finisca la mobilitazione, ho paura che continui il genocidio, alimentato dal silenziamento della verità». E ancora: «Perché non avete coperto (il riferimento è sempre ai giornalisti, ndr) quello che è successo a Genova e in altre 40 o 50 città italiane dove sono scesi in piazza in tantissimi?». Inevitabile la pioggia di reazioni – bipartisan – contro l’inviata speciale dell’Onu. La prima a farsi sentire è la presidente del Consiglio. Dai suoi account social, Meloni ha definito «molto grave che, di fronte a un episodio di violenza contro una redazione giornalistica, qualcuno arrivi a suggerire che la responsabilità sia – anche solo in parte della stampa stessa. La violenza non si giustifica. Non si minimizza. Non si capovolge. Chiunque cerchi di riscrivere la realtà per attenuare la gravità di quanto accaduto compie un errore pericoloso». Nomi non ne fa, la presidente del Consiglio, ma non è difficile capire chi sia il bersaglio delle sue parole: quella Francesca Albanese che ieri pomeriggio è anche salita sul carro di testa del corteo Usb di Roma dal quale ha respinto gli addebiti: «A quanto pare stanno provando ad affossarmi. Non c’è stato nessuno scivolone: vergognatevi». «Ha bisogno di un bravo medico, ma di uno specializzato, di quelli con tanta esperienza sulle spalle», ha replicato in serata, usando l’arma dell’ironia, Matteo Salvini, vicepremier e leader della Lega. Invece Lucio Malan, capogruppo di Fratelli d’Italia, ha denunciato i toni da «regimi dittatoriali di ogni colore» utilizzati da Albanese. Ieri pomeriggio una delegazione del partito della premier – guidata dai capigruppo di Camera e Senato, Galeazzo Bignami e lo stesso Malan – si è recata nella redazione de
lla Stampa per manifestare la «piena solidarietà» al giornale. Fratelli d’Italia ha sottolineato «la matrice di estrema sinistra, legata al mondo Pro-Pal e dei centri sociali», della violenza di venerdì scorso. Origine «troppo spesso dalla sinistra sottaciuta o difficilmente riconosciuta». Già, perché l’irruzione nella sede del quotidiano, come ha ricordato Fabio Rampelli, vicepresidente della Camera, da «esponenti autorevoli della politica, del sindacalismo e del giornalismo» è stata attribuita ai «fascisti. Su, ditela questa parola scomoda: “Assalto comunista”, piantatela di nascondervi». MATRICE NASCOSTA Anche ieri in molte reazioni di condanna al blitz il “campo politico” degli aggressori o è stato omesso, o ribaltato. La Cgil, ad esempio, ha sì denunciato la «vile aggressione», l’«atto intollerabile», la «grave intimidazione», ma si è ben guardata dall’indicare chi ne è stato responsabile. Lo stesso ha fatto Annalisa Cuzzocrea, che della Stampa è stata vicedirettore, nel tweet in cui su X ha definito «vergognoso quanto stupido» l’assalto. E il colore politico degli assalitori? Mistero. Invece per Filippo Sensi, senatore del Pd, la matrice è chiarissima: «Aggressione fascista». Il suo collega Francesco Verducci, dem pure lui, ha cambiato di poco il lessico: «Un atto intimidatorio, un atto di squadrismo che va condannato con assoluta fermezza».
Assalto studiato alla Stampa, 34 identificati, c`è Askatasuna
Leggi l'articolo
di Massimo Malpica
Assalto studiato alla Stampa, 34 identificati, c`è Askatasuna
Un assalto premeditato, tutt’altro che estemporaneo. L’attacco alla redazione torinese della Stampa, ne sono certi gli investigatori, non è nato «per caso», a margine del corteo pro Palestina di venerdì a Torino, ma era già pianificato. Lo provano gli appelli social che invitavano a unirsi alla carica contro il quartier generale del quotidiano, «reo» di essere complice «dell’arresto in Cpr di Mohamed Sahir». Ossia Mohamed Shahin, imam della moschea Taiba di via Saluzzo a Torino, che è stato trasferito in un Cpr e rischia l’espulsione per aver definito «resistenza» l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023. Per il gruppo di 600 antagonisti che ha sferrato l’attacco, approfittando anche dello sciopero dei giornalisti che aveva lasciato la redazione deserta, la chiamata è stata più che sufficiente per fare irruzione forzando gli ingressi negli uffici della Stampa e saccheggiarli, rivoltando carte e documenti e lasciando sui muri insulti al quotidiano, scritte spray inneggianti alla Palestina e alla libertà dell’Imam a cui l’assalto era «dedicato». Molti avevano pensato a un attacco improvvisato poiché i 600, quasi tutti secondo gli inquirenti aderenti al centro sociale «Askatasuna», al termine della manifestazione hanno raggiunto la redazione zigzagando per le strade di corsa, per poi, giunti in via Lugaro, sfondare tutto e assaltare gli uffici. Ma è bastato poco a trovare sui social la traccia della «chiamata alle armi», che indicava proprio nel quotidiano l’obiettivo diretto dell’azione, iniziata intorno alle 14.20: «Tutti alla Stampa! Complice dell’arresto in Cpr di Mohamed Shair, in sinergia con la Digos». Così mentre centinaia di antagonisti scandivano slogan e versavano sacchi di letame oltre il cancello d’ingresso del quotidiano, un gruppo di circa 80 persone, forzate la porta di un bar adiacente agli uffici e poi quella del giornale, ha fatto irruzione al grido di «giornalista terrorista sei il primo della lista». Per allontanare i vandali sono arrivate le forze dell’ordine che presidiavano quelli che si temeva fossero gli obiettivi sensibili della giornata: stazione ferroviaria, sinagoga e sede della Regione. Alla fine l’assedio ha lasciato sul campo carte e documenti lanciati sul pavimento, scritte «Fuck Stampa» e pro Pal, oltre a tre porte danneggiate. Quasi la metà dei violenti – 34 persone – è già stata identificata dalla questura di Torino e denunciata in procura. Tra loro anche un sedicenne, studente del terzo anno al liceo Einstein del capoluogo piemontese, che a ottobre scorso era stato fermato dopo alcuni scontri nella sua scuola seguiti a un volantinaggio organizzato da ragazzi di destra: era stato accusato di aver preso a calci e pugni i poliziotti che avevano cercato di fermarlo. Mentre si lavora sulle immagini dell’attacco (postate su Instagram anche dal Cua, il collettivo universitario autonomo di Torino) per identificare tutti i responsabili, ieri mattina la riunione straordinaria del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza è stata allargata anche ai direttori di giornali e tv con sede a Torino. Il prefetto Cafagna ha rimarcato l’escalation di episodi violenti che hanno visto protagonisti gli antagonisti, annunciando un rafforzamento della vigilanza per le redazioni presenti in città. Colpisce, in effetti, come l’azione contro il quotidiano torinese ricada in una narrativa ideologica che vede il giornale e i suoi redattori non come elemento di un sistema di informazione essenziale per la democrazia, ma come parte del «sistema repressivo». E mentre si accendono le luci degli investigatori sulla galassia antagonista attiva a Torino, arriva la condanna istituzionale. Il Capo dello Stato Sergio Mattarella e la premier Giorgia Meloni esprimono solidarietà alla redazione vittima di un attacco inaccettabile alla libertà di stampa, e messaggi analoghi sono arrivati, trasversalmente, da esponenti d
i governo e opposizioni, dal sindaco di Torino e dalle associazioni dei giornalisti.
Intervista a Sepideh Farsi: “Fatma uccisa dall’Idf per le sue foto: è stata il mio occhio su Gaza”
Leggi l'articolo
di Roberta Zunini
Intervista a Sepideh Farsi: “Fatma uccisa dall’Idf per le sue foto: è stata il mio occhio su Gaza”
Sono trascorsi quasi otto mesi da quando due missili israeliani nel cuore della notte hanno sepolto sotto le macerie della sua casa a Ga2a City la fotoreporter ventiquattrenne Fatma Hassona, protagonista del commovente doc Put Your Soul on Your Hand and Walk della regista iraniana Sepideh Farsi, film presentato in anteprima mondiale allo scorso Festival di Cannes e poi alla Festa del Cinema di Roma, da giovedì nelle sale. Farsi – che ha lasciato l’Iran da giovanissima per liberarsi dall’oppressione degli ayatollah – durante un intero anno ha videochiamato la giovane fotografa Hassona. Fino a quando non è stata uccisa, proprio quando la regista stava cercando di organizzare il suo viaggio al festival in Francia, dove il film era stato selezionato per il concorso. Secondo Forensic Architecture – il think tank fondato dall’intellettuale israeliano Eyal Weizman, con sede alla Goldsmiths University di Londra, per indagare ingiustizie e abusi dei diritti umani a opera di società o Stati nazionali – le sue fotografie, che ritraggono i civili di Gaza inermi in mezzo alla devastazione, hanno scatenato la furia omicida dell’Idf, che per punirla il 15 aprile scorso ha colpito anche i suoi sei fratelli e il padre. Solo la madre di Fatma è sopravvissuta. “Non dimenticherò mai la sua voglia di non farsi abbattere dalle condizioni terribili in cui si trovava a vivere – sospira la regista Farsi –, e la determinazione nel documentare con la sua macchina Farsi he fotografica le sofferenze dei gazawi , ma Gaza anche la loro dignità. Fatma cercava la dignità in mezzo alla distruzione”. Quando ha visto Fatma perdere peso, con lo sguardo stanco e ogni volta più massacrato e spento, che faceva fatica a ricordarsi ciò che le aveva appena detto, come si è sentita? Colpevole e allo stesso tempo frustrata. Una sensazione terribile di impotenza. Mentre io potevo andare a comprare qualsiasi tipo di cibo, lei non poteva mangiare niente di niente. Alcuni giorni dopo che sua madre si era ripresa dal coma, dopo la morte di Fatma, aveva chiesto una mela ma non le era stato possibile trovarla e non perché non avesse i soldi per comprarla; la migliore amica di Fatma l’aveva cercata ovunque ma non ce n’erano. Non riuscire a trovare una semplice mela è qualcosa di in immaginabile per noi. Cosa pensava Fatma del proprio popolo? In una delle videochiamate che ho inserito nel documentario Fatma si era detta orgogliosa della capacità propria e dei palestinesi in generale di saper resistere a mani nude all’aggressore e all’occupazione. Aveva ragione a sentirsi così: orgogliosa di saper resistere in modo pacifico a un esercito armato fino ai denti. Israele continua a occupare Ga2a in molti modi, innanzitutto impedendo la libertà di movimento dei palestinesi, gestendo l’accesso alle risorse, dal cibo all’acqua, obbligando i gazawi a usare i soldi israeliani, come fa notare Fatma nel film, ‘‘ Il sorriso è spento dopo che il suo vo che dim distruzio obbligando alla rete internet ancora in 2G. Cosa pensa della tregua voluta dal presidente americano Donald Trump? Ci sono stati e ci sono ancora morti, l’Idf è ancora nella Striscia, gli aiuti alimentari e sanitari sono ancora troppo scarsi, Israele impedisce ancora ai giornalisti internazionali di entrare nella Striscia. La politica coloniale di Israele non è cambiata. Gli accordi sono uno show, una sorta di farsa, e, come sta emergendo, non porteranno la pace né a Gaza né in Cisgiordania dove l’occupazione è di giorno in giorno più crudele. I coloni assieme all ’esercito israeliano stanno cancellando la possibilità che nasca un reale Stato di Palestina. Israele da due anni viola il diritto internazionale non solo per quanto riguarda la Striscia di Gaza e la Cisgiordania ma anche, per esempio, nei confronti dell’Iran. Pur essendo io contraria al regime iraniano, ritengo che la guerra dei 12 giorni sia stata una violazione delle regole internazionali. L’Idf si comporta come un movimento terrorista, tanto quanto Hamas. Del resto è stato proprio Netanyahu a far crescere e rendere forte Hamas.
Fra Francesco Ielpo: “Il Medio Oriente in preda al virus dell’odio rende incapaci di vedere il dolore dell’altro”
Leggi l'articolo
di Nello Del Gatto
Fra Francesco Ielpo: “Il Medio Oriente in preda al virus dell’odio rende incapaci di vedere il dolore dell’altro”
«Violenza chiama altra violenza, dolore chiama altro dolore. Bisogna dare maggior spazio alla ragionevolezza, al dialogo. Abbiamo visto che non c’è un limite alla barbarie o alla sofferenza e che tutto questo produce sempre più polarizzazioni e separazioni. Ci aspetta un futuro dove la parola d’ordine è la pazienza di saper aspettare i tempi lunghi che non sono i nostri, sono i tempi della guarigione delle ferite, tempi non brevi». Ha una sua ricetta, sulla situazione in Terra Santa, Fra Francesco Ielpo, da giugno Custode di Terra Santa, a capo della speciale provincia francescana che, da più di ottocento anni, custodisce i luoghi sacri (e gestisce scuole, associazioni, attività, centri aggregativi) non solo a Gerusalemme, ma in Israele, in Cisgiordania, Libano, Siria, Giordania, Cipro, Rodi ed Egitto. Una ricetta basata sulla presenza «che non nasconde la propria identità, dichiarandola, ma nello stesso tempo cercando di costruire, direbbe Papa Francesco, un’amicizia sociale con tutti» e l’accompagnamento, se non alla guarigione, alla trasformazione delle ferite della guerra. «Tutto dipenderà – spiega – da un grande lavoro in campo educativo. Qualsiasi crisi, qualsiasi dramma nella storia è stato possibile superarlo ripartendo dall’educazione, quella che riconosca le ferite, che le prenda sul serio in considerazione, che non le banalizzi, poiché queste ferite hanno bisogno di essere lenite, curate nel tempo, con grande pazienza, con i modi giusti, con le professioni giuste. E queste ferite possono diventare feritoie attraverso le quali poter vedere con occhi nuovi tutta la realtà e anche l’altro». Realtà che qui sono polarizzate e in guerra perenne. «Ci vuole un tempo lunghissimo, richiede un lavoro in campo educativo che non sarà mai finito. Ci sono già dei progetti in corso, ci sono già delle organizzazioni che ci stanno aiutando e che ci stanno proponendo percorsi di questo tipo, stiamo partendo con i bambini dai tre ai sei anni proprio per educare da subito a come stare dentro, anche nel dolore del conflitto». Ielpo cerca di prefigurare un futuro diverso in questa situazione. «Se c’è un futuro buono, questo lo si costruisce insieme e deve essere per tutti allo stesso modo. E questa è la difficoltà più grande, perché ovviamente tutto questo male, queste atrocità, tutta questa violenza, tutti questi morti, tutto questo conteggio hanno quasi prodotto un’incapacità a riconoscere anche il dolore dell’altro. E un’esclusività del solo proprio punto di vista. E questo impedisce ogni forma di dialogo. Bisognerà aiutare a indicare, un po’ come Giovanni Battista, quei segni e quei germi di positività, di bene, di dialogo, di incontro possibili a livello proprio, quotidiano, di vicinato. Saper indicare, saper riconoscere, saper valorizzare quei piccoli passi». Da ottocento anni questa la speciale provincia francescana è una presenza mediana, fissa e riesce a lavorare in aree perennemente in guerra. «La presenza che genera speranza è la presenza che dice “Io sto accanto a te”. È la presenza che dice “Tu per me sei prezioso”, è la presenza che dice “io anche nel bisogno non ti lascerò”. Siamo accanto a tutti, ai santuari di pietra e a quelli di carne che sono in primo luogo i battezzati, ma poi tutti coloro che vivono qui, indipendentemente dalla religione che professano. Che ci vedono come punto di incontro di mediazione anche tra posizioni distanti o a volte anche conflittuali. Non è facile, perché è semplice cadere nel virus della polarizzazione dello schieramento, ma anche in questi pochi mesi vedo che tutti vengono per un colloquio, per un incontro perché tutti comunque vorrebbero avere noi o comunque vedono in noi quel punto col quale si può entrare in dialogo». Nel suo primo viaggio Papa Leone è in Libano, anche Fra Ielpo lo ha fatto prima di venire a Gerusalemme. «È una visita in Medio Oriente, nel Medio Oriente dove c’è una presenza cristiana. Il Libano è Terra Santa. È un primo viaggio scaturito da diverse circostanze però lo leggo come un’attenzione a questa parte del mondo che ha già manifestato dal primo giorno della sua elezione. Non ha mai dimenticato né la Terra Santa e Medio Oriente né l’Ucraina né tutti gli altri conflitti.
L’imam fermato: condanno la violenza. Dalla moschea solidarietà al giornale
Leggi l'articolo
di Redazione
L’imam fermato: condanno la violenza. Dalla moschea solidarietà al giornale
Recluso nel Centro di permanenza per i rimpatri di Caltanissetta, a oltre 1500 chilometri dalla sua famiglia e dalla moschea di via Saluzzo che guidava, parla Mohamed Shahin. «Condanno l’assalto a La Stampa e ogni violenza» dice attraverso l’avvocato che lo assiste, Fairus Ahmed Jama. Shahin è in Italia da vent’anni. A Torino ha cresciuto due figli e, da un decennio, è un punto di riferimento per la comunità musulmana. È nel Cpr da lunedì sera, dopo quello che ha detto lo scorso 9 ottobre in piazza Castello: «Sono d’accordo con quanto accaduto il 7 ottobre» (giorno dell’eccidio di Hamas, ndr). E ancora: «Non fu violenza». Frasi che gli sono costate un decreto di espulsione, firmato dal ministro Piantedosi, per «motivi di sicurezza dello Stato e di prevenzione del terrorismo». I suoi legali hanno fatto richiesta di asilo politico perché, dicono, se tornasse nel suo Paese d’origine, l’Egitto, rischierebbe la vita in quanto oppositore del governo di Al-Sisi. Hanno anche fatto ricorso contro il suo trattenimento nel Cpr, ma la Corte d’appello ha convalidato il provvedimento. A Shahin che ha una denuncia per blocco stradale e pare non abbia altri guai con la giustizia – è contestato anche l’aver avuto rapporti, nel 2012 e nel 2018, con persone indagate e condannate per apologia di terrorismo. Relazioni che lui, durante l’ultima udienza, ha negato, aggiungendo: «Non ho mai inneggiato ad Hamas». È gridando il suo nome che l’altro giorno i manifestanti hanno lanciato l’assalto al nostro giornale, accusando La Stampa di essere «complice» del suo arresto. Un episodio da cui la stessa moschea che Shahin guidava prende le distanze: «È in totale contrasto con il percorso di responsabilità, legalità e impegno civico che Shahin ha sempre incarnato. Chiunque abbia collaborato con lui – giornalisti, personale delle forze dell’ordine, membri della nostra comunità – conosce il ruolo attivo che ha svolto nella promozione dell’ordine pubblico durante le manifestazioni per la Palestina, per due anni consecutivi». Il centro islamico sottolinea che «La Stampa ha spesso dato voce alle numerose iniziative di convivenza, partecipazione democratica e apertura culturale svoltesi nella nostra moschea, riconoscendo il valore dei percorsi sociali costruiti negli anni dalla comunità». E conclude: «Continueremo a operare per la promozione di relazioni costruttive, per il rispetto delle istituzioni e per la tutela della coesione sociale nella convinzione che solo attraverso il dialogo e la pace si possano affrontare le sfide del nostro tempo».
A gaza il numero dei morti supera quota 70mila
Leggi l'articolo
di Redazione
A gaza il numero dei morti supera quota 70mila
I morti palestinesi nella Striscia di Gaza, dall’inizio del conflitto nell’ottobre 2023, ha superato quota 70mila. Secondo il ministero della Sanità di Gaza, controllato da Hamas, il bilancio è di 70.100 morti e le uccisioni sono continuate anche dopo la tregua raggiunta tra Israele e Hamas.
La protesta nel nome dell’imam espulso per le frasi sul 7 ottobre
Leggi l'articolo
di F. G.
La protesta nel nome dell’imam espulso per le frasi sul 7 ottobre
I guai di Mohamed Shahin sono cominciati il 9 ottobre: l’imam torinese, origine egiziana ma in Italia da oltre 20 anni, aveva detto in piazza «sono d’accordo con quello che è successo il 7 ottobre 2023, non è una violenza». Frasi che il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, ha riportato nel decreto che disponeva l’espulsione dell’imam per «motivi di sicurezza dello Stato e di prevenzione del terrorismo». Una decisione che sta scatenando proteste in tutta Italia, degenerate venerdì nell’assalto alla redazione de La Stampa, a Torino. Un assalto condannato dalla moschea guidata da Shahin e dallo stesso imam, che da metà settimana è recluso nel Cpr di Caltanissetta: «Come persona di fede ho sempre provato a trasformare il dolore della Palestina in manifestazioni pacifiche, dove non ho mai appoggiato iniziative violente. Ho sempre cercato di promuovere l’ordine pubblico tra i manifestanti». Le parole del 47enne egiziano avevano immediatamente suscitato polemiche, con la deputata Augusta Montaruli (Fdi) a chiedere per I prima la sua espulsione. E il 19 novembre è arrivato il decreto di Piantedosi, in cui si legge che Shahin «ha un ruolo di rilievo in ambienti dell’Islam radicale ed è messaggero di un’ideologia fondamentalista e antisemita». Eppure non ci sono indagini a suo carico per reati di istigazione o terrorismo, risulta incensurato e l’unica denuncia riguarda un blocco stradale del 17 maggio (quando gli attivisti pro Palestina avevano bloccato lo svincolo per l’aeroporto di Caselle). Quindi il motivo dell’espulsione sono le dichiarazioni del 9 ottobre, quando ha «difeso i terroristi di Hamas legittimando lo sterminio di inermi cittadini israeliani». Anche se, nel decreto di espulsione, Piantedosi definisce Shahin «un esponente della Fratellanza Musulmana in Italia» e fa riferimento a contatti «con soggetti noti per la loro visione radicale e violenta della religione». Rapporti che l’imam ha negato giovedì durante l’udienza di convalida del suo trattenimento. Collegato in videoconferenza da Caltanissetta, ha detto che «il popolo palestinese ha dovuto reagire. Ma io non sono un sostenitore di Hamas». Poi ha aggiunto di aver paura se dovesse essere rimpatriato in Egitto: «Questo decreto di espulsione significa morte o tortura certa per lui – sottolinea l’avvocato Gianluca Vitale, che assiste Shahin insieme alla collega Fairus Ahmed Jamain – Ma ha paura anche per la moglie e i suoi figli di 12 e 9 anni». I due legali hanno già fatto richiesta di protezione internazionale alla commissione di Caltanissetta, che l’ha respinta. Così è scattato il ricorso, che si aggiunge a quello in Cassazione contro la convalida del trattenimento nel Cpr, quello al Tar del Lazio contro il decreto di espulsione e quello al Tar Piemonte contro la revoca del permesso di soggiorno. «Shahin ha chiarito che il senso del suo discorso sul 7 ottobre non era giustificare ma contestualizzare un’azione terroristica e non condivisibile – riflette ora l’avvocato Vitale – Sono concetti espressi anche dal segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres».
Drone dell’Idf uccide due fratellini a Gaza, superati i 70mila morti
Leggi l'articolo
di Gabriella Colarusso
Drone dell’Idf uccide due fratellini a Gaza, superati i 70mila morti
Due fratellini palestinesi, Fadi Tamer Abu Assi, di 10 anni, e Juma, di 12, sono stati uccisi in un attacco di droni israeliano nella zona a est di Khan Yunis, Bani Suheila, in un giorno che segna un altro record drammatico per Ga2a: le vittime della guerra sono più 70mila, 70.100 è il conteggio del ministero della sanità di Ga2a. La notizia della morte dei fratellini Assi è stata confermata dai medici dell’ospedale Nasser. Lo zio dei bambini, Mohamed Abu Assi, ha detto alla Reuters che i bambini si erano allontanati dal centro sfollati in cui vivevano D con la famiglia per raccogliere legna da ardere, visto che il padre è in sedia a rotelle e non può muoversi: «Cosa hanno fatto? Non hanno missili o bombe, sono andati a raccogliere legna per il padre perché potesse accendere un fuoco». L’esercito israeliano parla di «due sospetti che hanno oltrepassato la linea gialla, condotto attività sospette sul terreno e avvicinato le truppe dell’Idf operanti nella Striscia di Ga2a meridionale», ma non menziona bambini. Immagini condivise da due account Instagram palestinesi mostrano i loro corpi avvolti in lenzuola bianche, circondati dai familiari. Nella stessa zona, venerdì, un altro raid israeliano aveva causato la morte di un uomo, identificato come Abdallah Wajdi Rizq Hamad. Stessa dinamica: l’esercito sostiene che avesse attraversato la linea gialla che delimita le posizioni controllate da Israele. Nei mesi scorsi, i soldati hanno piazzato dei blocchi gialli per indicare il nuovo confine dell’area di Ga2a che hanno occupato, ma non sono presenti su tutta la linea e decine di persone sono state uccise perché sono entrate nella zona vietata. Dall’avvio della tregua, almeno 352 palestinesi sono stati uccisi in raid dell’Idf, secondo il ministero della salute di Hamas che non distingue tra combattenti armati e civili. L’esercito sostiene che fossero tutte operazioni contro “terroristi”. Hamas ha convocato i mediatori perché facciano pressioni su Israele per mettere fine agli attacchi. La tregua è sempre più fragile, e il piano Trump si sta avvitando. I colloqui per l’avvio della cosiddetta fase due sono in stallo, e il rischio che non ci si arrivi mai è reale. Gli americani vorrebbero che il disarmo di Hamas fosse gestito dalla forza di stabilizzazione, ma faticano a reclutare paesi musulmani e arabi per costruire il contingente internazionale. Anche l’Azerbaijan e l’Indonesia, che avevano dato la loro disponibilità, hanno fatto parziale marcia indietro sul numero di soldati che sono disponibili a inviare e comunque, dice una fonte egiziana a conoscenza delle discussioni in corso, «nessun paese è disposto a partecipare a una missione di combattimento» contro il gruppo armato palestinese.
I vandali di Torino e il fondamentalismo. Chissà se lo sanno
Leggi l'articolo
di Michele Serra
I vandali di Torino e il fondamentalismo. Chissà se lo sanno
C’è da chiedersi se i pro Pal che hanno invaso la redazione della Stampa in difesa di un imam radicale conoscano il fondamentalismo islamista. A a pagina 14 C’ è da chiedersi se per i manifestanti pro Pal che hanno invaso e vandalizzato la redazione della Stampa, vuota per lo sciopero, in difesa di un imam radicale, sia totalmente trascurabile (o forse: del tutto ignoto) il ruolo politico che il fondamentalismo islamista ha avuto negli ultimi vent’anni (almeno). Un ruolo nefasto non tanto per il cosiddetto Occidente e in particolare per l’Europa (le cui sorti, per altro, sono del tutto indifferenti a questi giovani europei scontenti di esserlo); ma per i Paesi arabi e il mondo musulmano nel suo complesso, devastati dall’ossessione reazionaria e antimoderna di un clero oscurantista e patriarcale che, ovunque, ha lasciato segni tremendi nella carne dei popoli e delle donne in particolare. Dalla repressione delle primavere arabe alla teocrazia femminicida di Teheran, dall’orribile regime afgano, per il quale è proibito anche cantare, e per le bambine andare a scuola, alla torsione religiosa che Hamas ha imposto alla resistenza palestinese, un tempo laica e ora islamizzata, per arrivare al giro di vite contro i curdi (laici e di sinistra) per mano dell’islamista Erdogan, è mai possibile che i ragazzi pro Pal non vogliano o non possano mettere a fuoco quanto sia nemico della libertà il fondamentalismo islamico (tanto quanto il fondamentalismo cristiano dei Maga, tanto quanto il disgustoso suprematismo biblico dei coloni israeliani in Cisgiordania)? Davvero basta essere “contro l’Occidente” per giustificare qualunque paranoia reazionaria, da Putin al jihad? Ma se così stanno le cose, a che vale invocare la libertà e i diritti come bene universale? E con il patriarcato, che nell’Islam fondamentalista conosce il suo trionfo, come la mettiamo?