Rassegna stampa del 4 dicembre 2025
La rassegna di oggi mette in luce un quadro informativo eterogeneo, diviso tra analisi regionali, ricostruzioni operative a Gaza e riflessi politici interni. I contatti fra Israele e Libano, la questione del valico di Rafah e l’esposizione delle Ong infiltrate da Hamas sono tra i temi centrali.
Accanto a reportage più fondati compaiono articoli che ripropongono accuse non verificate, mentre parte della stampa italiana si concentra sull’impatto del conflitto nel dibattito pubblico e nelle università.
Emergono quindi approcci molto diversi: chi ricostruisce fatti con rigore e chi si affida a formule preconfezionate, spesso ignorando contesto e responsabilità. Il risultato è un panorama mediatico che alterna informazione accurata e narrazioni sbilanciate, in cui diventa essenziale distinguere tra analisi e retorica.
Scandalo a Gaza: affiliato di Hamas nella Ong italiana
Un’inchiesta solida che ricostruisce come Hamas abbia infiltrato una Ong italiana operante a Gaza, sfruttando finanziamenti europei e coperture umanitarie. Carioti utilizza documenti e verifiche incrociate, descrivendo un meccanismo ampio e strutturato che chiarisce la natura strumentale di molte accuse rivolte a Israele. L’articolo è il più forte della giornata: preciso, fondato e capace di ribaltare narrazioni superficiali sui rapporti tra Ong e milizie jihadiste.
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di Fausto Carioti
Scandalo a Gaza: affiliato di Hamas nella Ong italiana
Hamas, prima di compiere la strage del 7 ottobre 2023, aveva infiltrato e controllato decine di ong attive nella striscia di Gaza, incluse quelle finanziate dall’Unione europea. E anziché denunciare gli abusi dei terroristi palestinesi, queste hanno nascosto o minimizzato la situazione. È la denuncia contenuta nel rapporto pubblicato ieri dall’Institute for Ngo Research, un istituto di ricerca indipendente con sede in Gerusalemme, specializzato in indagini sulla trasparenza delle ong. Lo studio, lungo 53 pagine, analizza documenti in lingua araba del periodo 2018-2022 provenienti dal “Meccanismo di sicurezza interna di Gaza” (Moins), un’unità del ministero dell’Interno di Hamas. Questa aveva schedato 55 membri di 48 ong che operano nella Striscia, quasi tutte occidentali. Quei documenti sono stati recuperati e declassificati dalle Forze di difesa israeliane. Si è scoperto, così, che tra le ong in cui Hamas era riuscita a piazzare un proprio «affiliato» c’è l’italiana Fondazione Cesvi, con sede in Bergamo e attiva in tutto il mondo. Creata dal dirigente d’azienda Maurizio Carrara e conosciuta al grande pubblico anche per la notorietà dei suoi testimonial. In quei documenti, spiegano gli autori del rapporto, gli agenti di Hamas «descrivono come sorvegliano i funzionari e gli uffici delle ong, i metodi con cui manipolano i gruppi umanitari finanziati dall’estero e le considerazioni di natura militare e di intelligence con cui condizionano le attività delle ong». Le prove raccolte «confermano che le ong a Gaza non operano in modo indipendente o neutrale. Al contrario, sono inserite in un quadro istituzionalizzato di coercizione, intimidazione e sorveglianza funzionale agli obiettivi terroristici di Hamas». Lo strumento principale usato per controllare le ong è rappresentato dai «garanti». Funziona così: «Abitanti di Gaza, approvati dal Moins, fungono da punto di contatto tra le autorità di Hamas e le ong. Hamas richiede che tali “garanti” ricoprano posizioni amministrative di alto livello, come direttore, vicedirettore o presidente del consiglio d’amministrazione, assicurando così l’accesso ai livelli più alti delle filiali e delle operazioni locali delle ong». Hamas valuta tali personaggi «potenziali risorse di alto valore per l’intelligence, utili a ottenere accesso alle informazioni interne e alle operazioni delle ong». Per questo, come faceva la Stasi nella Germania “democratica”, ha raccolto informazioni dettagliate sui componenti degli staff delle ong e in particolare su questi garanti. Convinzioni politiche, pratiche religiose, legami familiari, abitudini quotidiane, relazioni sessuali, attività online, stile di abbigliamento, movimenti finanziari e situazione patrimoniale: tutto è stato schedato e usato quando necessario. La cosa più «inquietante» ricavata da un documento del dicembre 2022 riguarda «almeno dieci» di quei garanti, i quali «ricoprivano ruoli dirigenziali nelle ong», ma allo stesso tempo «erano membri o sostenitori di Hamas, oppure impiegati presso autorità affiliate ad Hamas». Tra costoro, con il nome coperto dagli autori del rapporto, appare un «membro di un organo di rappresentanza» della fondazione bergamasca che risulta essere «affiliato ad Hamas». La sua «situazione finanziaria eccellente» e altri dettagli pubblicati nello studio, non coperti dagli “omissis”, renderebbero peraltro facile identificarlo. Nei documenti di Hamas appare un altro garante della stessa ong, anch’egli in posizione di riguardo, che però non viene catalogato come associato. Stesso discorso per il rappresentante di un’altra ong italiana, Ciss (Cooperazione internazionale Sud-Sud), pure lui presente negli schedari dei terroristi. L’atteggiamento della Cesvi e della Ciss nei confronti di Hamas viene definito «neutrale», come quello di altre venti ong schedate; undici sono etichettate come «cooperative» e quindici come «non cooperative». Queste ultime, secondo gli autori del rapporto, sarebbero state convinte a farsi infiltrare con pressioni e intimidazioni. La conclusione è che le ong che operano a Gaza «sono pienamente consapevoli che la loro reale situazione sia lavorare sotto il controllo di Hamas». Ma «invece di rivelare le condizioni coercitive in cui sono costrette a operare, omettono sistematicamente o minimizzano le violazioni di Hamas, rifiutandosi di denunciare quanto profondamente il gruppo terroristico abbia infiltrato, distorto e sfruttato lo spazio umanitario». C’è un altro aspetto, che interessa in particolare gli europei, e riguarda l’uso dei fondi Ue. Alcune delle ong che risultano essere state infiltrate da Hamas, inclusa la Cesvi, sono finanziate dall’Unione. Come ricorda la testata Euractiv, prima a dare notizia del rapporto, nessun affiliato di Hamas o di un’altra organizzazione catalogata come terroristica può ricevere donazioni o avere legami economici con la Ue. I documenti recuperati a Gaza dall’esercito israeliano confermano ciò che già si sapeva: i controlli di Bruxelles sulla destinazione dei fondi e la trasparenza delle ong sono privi di qualunque efficacia. Le autorità europee devono rivederli integralmente, se non vogliono perdere la poca credibilità che ancora hanno.
L’alleanza fra la Turchia e l’Iran sta facendo precipitare il Medio Oriente verso una nuova guerra
L’articolo ricostruisce le nuove intese tra Ankara e Teheran e il loro impatto sugli equilibri regionali, evidenziando come l’asse potrebbe aumentare la pressione su Israele. La lettura, però, risulta parziale: il ruolo di Hamas e delle milizie filo-iraniane è solo accennato, e la postura israeliana viene collocata sullo sfondo senza un’analisi delle minacce dirette. Il pezzo offre spunti utili, ma resta incompleto e poco approfondito sul fronte israeliano
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di Roberto Motta
L’alleanza fra la Turchia e l’Iran sta facendo precipitare il Medio Oriente verso una nuova guerra
Il presidente Donald Trump ha lasciato Israele, dichiarando che la pace era imminente. Tutto ciò che restava da fare era il rilascio degli ostaggi e una forza di sicurezza internazionale per garantire il disarmo di Hamas. Il primo è avvenuto, il secondo deve ancora avvenire e probabilmente non accadrà mai. La maggior parte delle sfide che le persone hanno dovuto affrontare con il piano di pace si sarebbero verificate solo se Hamas si fosse disarmato o se fosse stata presente la Isf, Forza di sicurezza internazionale. Eppure, nulla di tutto ciò si è materializzato, e probabilmente non accadrà. Che Trump lo abbia capito fin dall’inizio o no, gli stati arabi sunniti non appartenenti ai Fratelli musulmani non sono mai stati a loro agio con il coinvolgimento di Turchia e Qatar nelle Isf di Gaza. Come ho accennato in un articolo precedente, sono stati gli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia Saudita a rifiutarsi di partecipare all’iniziativa qualora questa coinvolgesse le forze di terra turche. L’obiettivo di Benjamin Netanyahu in questa fase della guerra era recuperare gli ostaggi e lasciare Hamas in una condizione in cui non potesse più rappresentare una vera minaccia per Israele. L’avvento della linea gialla che attraversa Gaza, più che una semplice linea di armistizio militare, come una sorta di nuova area di confine, ha messo Hamas alle strette e, in definitiva, indebolito. È vero, c’è un’enorme pressione su Israele affinché consenta l’inizio della ricostruzione di Gaza, ma ancora una volta, la fiducia di Netanyahu nel ministro delle Finanze Bezalel Smotrich per congelare il bilancio israeliano stanziato per il progetto ha garantito che non ci siano fasi successive al piano di pace di Trump, finché Hamas non disarmerà, cosa che non farà volontariamente e poiché nessun altro è disposto a farlo, la situazione ano Ebrahim Raisi attuale rimane invariata. Israele mantiene in definitiva il controllo del 53% di Gaza, Hamas è tenuta in uno stato di degrado, incapace di lanciare una vera offensiva contro Israele, e Israele stabilisce un nuovo confine politico chiamato “linea gialla”, estendendo di fatto il controllo militare su Gaza per il prossimo futuro. Sebbene Trump non intendesse necessariamente che tutto ciò andasse come è andato, è chiaro che il primo ministro Netanyahu lo intendeva, e per la prima volta dal 7 ottobre ha surclassato sia il Qatar che la Turchia. Sebbene questo tipo di strategia abbia fatto guadagnare tempo e territorio a Israele, la manovra di Netanyahu nell’arena politica sarà considerata un capolavoro solo se lui e l’apparato difensivo israeliano riusciranno a prepararsi alla doppia minaccia di un’alleanza Turchia-Iran che sta rapidamente precipitando verso lo Stato ebraico.
Crimini di Israele senza fine: palestinesi in fosse comuni
Il pezzo presenta accuse di gravità estrema senza fonti plurali né verifiche indipendenti. Le presunte fosse comuni vengono descritte come prova di un disegno deliberato, ignorando il ruolo di Hamas, il contesto operativo e la necessità di distinguere tra propaganda e fatti. Il linguaggio è emotivo e costruito per evocare colpe a prescindere, rinunciando a ogni forma di contestualizzazione. È l’articolo più distorto della giornata.
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di Umberto De Giovannangeli
Crimini di Israele senza fine: palestinesi in fosse comuni
Un’inchiesta della Cnn svela che numerosi civili ammazzati in estate nei punti di consegna sono stati interrati o lasciati decomporre all’aperto. Corpi di civili palestinesi uccisi l’estate scorsa a Ga2a in punti di consegna di aiuti umanitari da militari israeliani sarebbero stati, in alcuni casi, sepolti «in fosse improvvisate e non contrassegnate» con bulldozer usati dalle Forze di difesa di Israele (Idf), oppure «lasciati in decomposizione all’aperto», senza poter essere recuperati: è quanto rivela un’inchiesta giornalistica della Cnn, basata principalmente su «video, immagini satellitari e racconti di testimoni». Questo tipo di sepoltura senza identificazione dei cadaveri o in tombe non appropriate, documentata almeno per quanto riguarda il varco di accesso alla Striscia nel nord a Zikim, potrebbe costituire «violazioni del diritto internazionale», puntualizza l’emittente statunitense citando esperti in questa materia legale. La Cnn spiega che ci sono «decine» di famiglie palestinesi attualmente in cerca di persone considerate disperse dall’estate scorsa nel nord della Striscia. In quel periodo, precedente alla tregua nel conflitto a Ga2a entrata in vigore lo scorso ottobre, ci furono diversi episodi di civili uccisi da colpi dei militari mentre si ammassavano in punti di consegna di aiuti. Tra le fonti che hanno confermato gli episodi di seppellimenti non appropriati a Zikim ci sono due ex militari israeliani e diversi autisti di camion con aiuti umanitari, segnala ancora l’emittente Usa. L’Idf, aggiunge, ha «negato di aver usato bulldozer per `rimuovere´ cadaveri, ma non ha chiarito se li abbia usati per seppellirli», pur riconoscendo che l’uso di questi mezzi nella zona «era una questione di routine» per «scopi operativi». In aggiunta, le Forze armate israeliane affermano che «non sparano intenzionalmente a civili innocenti» e, già in passato, hanno negato di aver seppellito palestinesi in «fosse comuni». Dall’inizio del cessate il fuoco, nella Striscia di Gaza, sarebbero stati uccisi oltre 340 palestinesi (oltre 70.000 dal 7 ottobre 2023, tra cui oltre 19.000 bambini). Da Gaza alla Cisgiordania. Il primo ministro Benjamin Netanyahu avrebbe sostenuto l’autorizzazione di avamposti agricoli illegali in Cisgiordania, alcuni dei quali hanno ospitato coloni estremisti che vivono sulle colline e hanno compiuto attacchi regolari contro i vicini palestinesi. Il primo ministro avrebbe anche chiesto misure educative per ridurre la violenza da parte dei giovani delle colline. Lo riferisce il sito di notizie Ynet, ripreso dal quotidiano Times of Israel, sulla base di un documento contenente la posizione di Netanyahu sull’attuale situazione in Cisgiordania, teatro di un’escalation di violenza. La linea del premier israeliano è venuta fuori durante una discussione a cui hanno partecipato anche il ministro della Difesa, Israel Katz, e il capo del comando centrale dell’Idf, il maggior generale Avi Bluth, che si è svolta mentre la violenza dei coloni aumentava in tutto il territorio. Il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, che sovrintende anche agli affari civili in Cisgiordania, e il ministro per gli Insediamenti e i Progetti Nazionali Orit Malka Strock – entrambi di estrema destra – hanno destinato decine di milioni di shekel alle fattorie, sempre secondo Ynet.
Esplosione del porto di Beirut, Hezbollah ha insabbiato la verità?
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di Paolo Crucianelli
Esplosione del porto di Beirut, Hezbollah ha insabbiato la verità?
Il 4 agosto 2020, alle 18:08 ora locale, Beirut fu scossa da una devastante esplosione nel suo porto. Un’esplosione talmente potente da essere considerata, da numerosi esperti e analisti militari, la più grande deflagrazione non nucleare mai avvenuta in un’area urbana nella storia moderna. Oltre 200 persone morirono, migliaia rimasero ferite, interi quartieri vennero rasi al suolo. Le immagini fecero il giro del mondo: un fungo bianco, simile a quello di un ordigno nucleare, che cancellava in pochi secondi la zona portuale. Sin dalle prime ore successive alla tragedia, molti osservatori puntarono il dito verso Hezbollah, nonostante il gruppo negasse ogni coinvolgimento. Il motivo era semplice: la sostanza esplosa — 2750 tonnellate di nitrato di ammonio — è la stessa utilizzata nella produzione dei missili e degli esplosivi impiegati dal gruppo filo-iraniano. Ma indagare su Hezbollah in Libano è quasi impossibile: il movimento sciita è profondamente infiltrato in ogni livello dell’apparato statale, dai ministeri all’esercito, dalla magistratura alle agenzie doganali, fino ai servizi di sicurezza. Ogni tentativo di far luce sul caso si è scontrato con un muro di silenzi, intimidazioni, sostituzioni di giudici, vere e proprie campagne di delegittimazione e, come vedremo, omicidi. Ed è proprio in questo contesto che, negli ultimi giorni, l’esercito israeliano ha diffuso una ricostruzione destinata a riaprire completamente il dossier. In una dichiarazione diffusa dal portavoce dell’IDF, Avichay Adraee, specialisti dell’esercito sostengono che l’Unità 121 di Hezbollah — una struttura d’élite incaricata di “eliminazioni mirate” — avrebbe assassinato almeno quattro personalità libanesi che possedevano informazioni cruciali in grado di collegare direttamente il gruppo allo stoccaggio del nitrato di ammonio nel porto di Beirut. Le vittime sarebbero, secondo l’IDF, funzionari delle dogane e giornalisti investigativi che, negli anni, avevano denunciato irregolarità o si erano avvicinati troppo al cuore del caso. Gli omicidi, riportati anche da Ynet, Jerusalem Post, Haaretz e i24News, si succedono in un arco temporale che va dal 2017 al 2021, e formano — se le accuse fossero confermate — una vera e propria campagna di eliminazione sistematica. Secondo la ricostruzione diffusa dall’IDF, la prima vittima di questa strategia di silenziamento sarebbe stata Joseph Skaff, ex capo delle dogane del porto di Beirut. Già nel 2017, tre anni prima dell’esplosione, Skaff aveva segnalato la presenza del nitrato di ammonio chiedendone ufficialmente la rimozione, denunciandone la natura sospetta, l’estremo pericolo di un tale stoccaggio, e i potenziali legami con Hezbollah. Poco dopo le sue denunce, morì in circostanze archiviate come “incidente”: secondo l’IDF, invece, sarebbe stato gettato da una finestra da membri dell’Unità 121 per impedirgli di andare oltre. Dopo la deflagrazione, le eliminazioni — sempre secondo l’intelligence militare israeliana — si intensificarono. Nel dicembre 2020, appena pochi mesi dopo l’esplosione, venne trovato ucciso Monir Abu Rajili, responsabile dell’unità anti-contrabbando delle dogane libanesi. L’uomo sarebbe stato in grado di fornire documenti interni che collegavano lo stoccaggio del nitrato di ammonio a reti riconducibili a Hezbollah. Fu trovato accoltellato nella sua abitazione: un omicidio rimasto ufficialmente irrisolto. Nello stesso mese, un’altra morte sospetta colpì chi aveva avuto un ruolo diretto nelle prime fasi dell’indagine. Il fotografo Joe Bejjani, tra i primi a documentare il luogo dell’esplosione e successivamente incaricato dall’esercito libanese di realizzare analisi tecniche sulle immagini del cratere, fu ucciso a colpi d’arma da fuoco mentre era in auto davanti casa sua. I suoi assassini non rubarono nulla, tranne il suo telefono: per l’IDF, un indizio certo che quel dispositivo contenesse immagini o dati sensibili che potevano mettere seriamente in difficoltà Hezbollah. L’ultimo caso, in ordine temporale, è
quello più noto anche all’opinione pubblica internazionale: l’assassinio di Lokman Slim, intellettuale sciita, editore, documentarista e una delle voci più apertamente critiche verso Hezbollah. Nel febbraio 2021, appena due mesi dopo l’uccisione di Bejjani e Abu Rajili, Slim fu trovato crivellato di colpi nella sua auto nel sud del Libano. Aveva da poco accusato pubblicamente Hezbollah e il regime di Bashar al-Assad di essere i responsabili dell’esplosione del porto. Per l’IDF, il suo omicidio rappresenta un messaggio intimidatorio esemplare: chiunque tenti di collegare Hezbollah al nitrato di ammonio rischia di fare la sua stessa fine. L’esercito israeliano inserisce questi casi in una lista più ampia di omicidi politici in Libano, mai risolti, tra cui quelli dell’ex primo ministro Rafik Hariri e della figura politica Elias al-Hajj. Di fatto, a cinque anni dall’esplosione, nessun responsabile è stato condannato. I giudici che hanno tentato di proseguire le indagini sono stati rimossi o minacciati. Le famiglie delle vittime parlano apertamente di “omicidio di Stato”. Beirut porta ancora le cicatrici del 4 agosto 2020. L’esplosione non fu solo una tragedia: fu la manifestazione dolorosa di uno Stato paralizzato, infiltrato e — come molti libanesi dicono — ostaggio di Hezbollah.
Hamas bluffa ancora sui corpi Bibi: «Viola il cessate il fuoco»
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di Giuseppe Kalowski
Hamas bluffa ancora sui corpi Bibi: «Viola il cessate il fuoco»
Una delle ultime salme restituite dai terroristi non appartiene ad alcun ostaggio: 4 soldati dell’Idf uccisi a Rafah. Netanyahu: «Israele risponderà di conseguenza». Israele è sottoposta a una pressione crescente su più fronti, non solo militari ma anche diplomatici. Dopo che i resti di un corpo restituito da Gaza non sono stati riconosciuti come appartenenti a uno degli ostaggi, la Jihad Islamica ha annunciato che dovrebbe consegnare un altro corpo, che si spera sia quello di uno dei due ostaggi uccisi e non ancora restituiti per una degna sepoltura. Intanto si fanno sempre più evidenti i disaccordi all’interno del Likud, il partito di Benjamin Netanyahu, sulla riforma della leva militare e sulla revisione della regolamentazione delle trasmissioni televisive. In questo contesto Bennett, il futuro competitor di Bibi, spinge sull’acceleratore approfittando della polemica interna del partito di maggioranza, polemizzando con toni aspri sulla proposta di legge che di fatto escluderebbe la maggioranza degli ebrei ultraortodossi dal servizio militare di leva. Parallelamente, I Israele invia, per la prima volta in Libano, diplomatici per partecipare alla riunione dell’organismo incaricato di monitorare il cessate il fuoco in vigore da un anno. A guidare la delegazione israeliana a Naqoura è Uri Resnick del Consiglio di Sicurezza Nazionale. Il Libano invia l’ex ambasciatore negli Stati Uniti, Simon Karam. Washington, attraverso il suo inviato Morgan Ortagus, ha insistito affinché nelle delegazioni fossero presenti anche figure civili, non soltanto militari. L’obiettivo è favorire una progressiva normalizzazione tra i due Paesi, con la creazione di forme di collaborazione e cooperazione economica tra Israele e il Paese dei Cedri, elementi indispensabili per rapporti stabili nel tempo. Netanyahu ha però fatto sapere a Ortagus di essere frustrato dal comportamento di Hezbollah. Senza un cambiamento netto da parte dell’organizzazione terroristica libanese e senza un suo disarmo, ha avvertito, una guerra nel nord di Israele sarebbe inevitabile. La deadline fissata è il 31 dicembre. Molto complessa appare anche la prevista riapertura, nei prossimi giorni, del valico di Rafah tra Gaza ed Egitto. Il primo nodo riguarda la posizione del Cairo, che respinge l’ipotesi che i palestinesi possano lasciare Gaza entrando in Egitto. La riapertura dovrebbe consentire la ripresa del transito degli aiuti umanitari e della mobilità delle persone nella Striscia, ma potrà avvenire solo con condizioni di sicurezza approvate dall’esercito israeliano e con un coordinamento con l’Egitto che, al momento, stenta a decollare. Le trattative tra Israele, Egitto e Stati Uniti continuano nel tentativo di arrivare a un’intesa. Ma in serata Netanyahu ha tuonato dopo che 4 soldati sono rimasti feriti negli scontri a Rafah: «Hamas continua a violare l’accordo di cessate il fuoco e a compiere atti di terrorismo contro le nostre forze. Israele non tollererà che vengano colpiti i soldati dell’Idf e risponderà di conseguenza». Intanto Israele ha concluso un accordo da 3,6 miliardi di dollari con la Germania per la vendita del sistema missilistico Arrow. Oggi inizieranno le prime consegne di un sistema capace di difendere la Germania e l’Europa dai missili balistici russi. Ancora una volta, nonostante tutto, la difesa dell’Europa passa anche da Israele.
L’Onu torna alla carica sul ritiro di Israele dalle Alture del Golan
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di Iuri Maria Prado
L’Onu torna alla carica sul ritiro di Israele dalle Alture del Golan
La risoluzione con cui l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, l’altro giorno, ha chiesto a Israele di ritirarsi dalle Alture del Golan non è altro che una stracca riedizione di analoghe iniziative reiterate di anno in anno. La differenza è che quest’ultima interviene non solo dopo che in Siria è caduto il regime di Bashar al-Assad (un irrilevante dettaglio sfuggito ai 123 Stati che hanno dato il loro voto favorevole alla risoluzione), ma mentre quel Paese è abbandonato all’azione di bande tribali e milizie terroristiche che operano a un tiro di schioppo dai centri abitati israeliani. Il fatto che il presidio militare israeliano lì, oggi, sia qualcosa di diverso da ciò che è – vale a dire un indispensabile dispositivo di difesa – può essere trascurato solo da chi pretende di occuparsi di quel che avviene laggiù facendo finta che si sia a prima del 1967 e non a due anni dall’evento, il 7 ottobre, che ha cambiato tutto. Se già il precedente stillicidio di risoluzioni relative al Golan peccava di aderenza, quest’ultima denuncia un desolante e abissale scollamento dalle mutate condizioni politiche e di equilibrio dell’area. Ed è difficile dare torto seriamente all’ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite, Danny Danon, quando, commentando quel voto, dice che “L’Assemblea generale delle Nazioni Unite dimostra ancora una volta quanto sia lontana dalla realtà”. È poi significativo quanto ha dichiarato il ministero degli Esteri siriano, compiaciuto perché una discreta lista di Paesi – tra cui l’Italia – è passata dalle precedenti astensioni al voto positivo dell’altro giorno. Votando favorevolmente, quei Paesi non sapevano forse come i diretti interessati – i siriani, appunto – avrebbero commentato la cosa. Adesso però lo sanno: quella risoluzione, dice la Siria, “Riflette anche i veri sforzi diplomatici per il ritiro di Israele dall’intero Golan siriano occupato alla linea del 4 giugno 1967”. Pensare che lo Stato ebraico abbia combattuto la guerra degli ultimi due anni contrastando chi, anche dalla Siria, lo attaccava, per poi lasciare sguarniti i fronti e ritirarsi di buon ordine in omaggio a vaghe istanze di normalizzazione non è né giusto né sbagliato: è semplicemente irrealistico. Se pure la presenza israeliana in Golan tradisse gli intenti di ulteriore annessione che in troppi frettolosamente denunciano, questo non toglierebbe verità al dato innegabile: vale a dire che, senza quel presidio, Israele sarebbe esposto non alla possibilità, ma alla certezza di subire attacchi. Significa necessariamente che quel dispositivo di difesa debba essere eterno? No, è chiaro, anche se gli israeliani sono indotti a dichiararlo. Ma negare che ora sia necessario significa non ricordare che cosa successe su quelle Alture e perché. Ci fu guerra, più volte: e tutte le volte perché chi le contendeva a Israele voleva distruggere Israele. Gli “sforzi” diplomatici di cui si blatera dovrebbero essere rivolti a far sì che quel presidio difensivo non sia più necessario, non a far finta che sia un capriccio espansionistico.
Intervista a Pierluigi Battista – Battista: « L`Italia non ha fatto i conti con l`antisemitismo»
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di Claudio Marincola
Intervista a Pierluigi Battista – Battista: « L`Italia non ha fatto i conti con l`antisemitismo»
Parla il giornalista e scrittore Italia ha fatto i conti con il fascismo ma non con l’antisemitismo, almeno a giudicare da episodi come lo sfregio alla sinagoga romana di Monteverde e le “censure” di cui gli intellettuali ritenuti vicini a Israele sono quotidianamente vittime. Ne è convinto Pierluigi Battista, giornalista e scrittore che fa riferimento alla vicenda di Tullio Terni, il medico e scienziato perseguitato due volte: prima dal fascismo e poi tradito e messo al bando dall’Accademia dei Lincei. a pagina XI è un’Italia che ama raccontarsi linda e antifascista, ma appena gratti la vernice riaffiora il rimosso, l’imbarazzo, quello che Pierluigi Battista definisce «il patto dell’oblio». La vicenda di Tullio Terni, scienziato di fama, docente universitario, è la cartina di tornasole: perseguitato due volte, prima dal regime e poi tradito e messo al bando dall’Accademia dei Lincei. Battista, giornalista e scrittore, la racconta e spalanca quella porta che molti avrebbero voluto tenere sprangata. Dentro c’è un odore stantio che somiglia alla nostra ipocrisia nazionale. Professori che giurarono al duce e poi si riciclarono come padri nobili della democrazia, vittime che diventano imputati, carnefici che scivolano nella nebbia comoda della memoria corta. Questa intervista è un viaggio nella zona grigia che non piace a nessuno: proprio per questo, è necessaria. Battista, Tullio Terni, viene prima umiliato e cacciato dalle leggi razziste del fascismo e poi — paradosso dei paradossi — bollato come “complice” di quel regime. A chi serviva questa seconda epurazione morale? «Terni venne cacciato in totale solitudine: dai suoi colleghi universitari non gli arrivò un briciolo di solidarietà. Come tanti ebrei per sfuggire alle discriminazioni razziali del regime, Terni aveva cercato appigli, si era difeso, aveva detto “io ho fatto la guerra”, “io sono stato fascista”. Questo non lo salvò dalla persecuzione ma divenne l’elemento di incriminazione in base al quale la commissione epuratrice di cui, oltre a Giovanni Levi, padre della Ginzburg, fanno parte professori – che anche loro, come tanti, aveva giurato fedeltà al fascismo – trasformò Terni in espiatorio di quello che io ho definito il patto dell’oblio». Perché questa storia è rimasta così a lungo nascosta? «È una storia talmente forte che viene appunto da chiederselo. Ci fu un patto tacito». Tra i “riciclati” vi furono anche nomi eccellenti? «Alcuni già si conoscono, potrei dire Eugenio Garin, Norberto Bobbio che insegnava a Padova; Galante Garrone scriveva su una rivista che si chiamava “Diritto razzista”». Quanto pesò in questo patto tacito l’imbarazzo di chi aveva occupato le cattedre lasciate libere dai professori ebrei espulsi? «Pesò totalmente. Fu il “peso”. Nessuno di questi professori restituì di sua volontà la cattedra usurpata ai professori ebrei. Stiamo parlando C’ dei migliori nomi della cultura anti-fascista. Bisogna considerare che i professori ebrei all’università erano il 7% del corpo accademico formato allora da circa 1200/1300 persone. Dopo la liberazione contrastarono il rientro degli ebrei espulsi e si tennero ben strette le cattedre e fu inventata la figura sei “soprannumerari”, una cattedra destinata a morire con l’uscita di chi la stava occupando. Ma non ci furono solo quelli che presero il posto. Ci furono pure quelli che scrissero nelle riviste che poi sarebbero passate per palestre di antifascismo e che scrissero cose antisemite avevano collaborato fino agli anni ‘42/43 con il Primato di Bottai o il Guf gli universitari fascisti, tutti entusiasti di denunciare l’elemento ebraico. Questi ebrei rimasero soli. E furono loro stessi a mantenere il silenzio. Gli altri avevano il senso di colpa da tacitare; loro, gli ebrei, il senso di vergogna di aver fatto di tutto per salvarsi. Viene in mente Primo Levi, il suo “Sommersi e salvati”. Ai sopravvissuti qualcuno poteva chiedere “perché tutti sono morti e tu no?”, cos’hai fatto per sopravvivere”? Chi aveva cambiato nome, chi si era comprato un certificato di battesimo, chi aveva tentato di “arianizzarsi”. Dinanzi a tutto questo scelsero il silenzio. L’unico che ruppe questo silenzio fu Benedetto Croce che parlò di “nefandezze” e a dargliene atto fu Vittorio Foa, come ricordo nel mio libro». Il “caso” Terni sembra il paradigma perfetto di un’Italia che prima espelle, poi dimentica e infine giudica: perché questo Paese riesce a trasformare le sue vittime in colpevoli, e i carnefici in figure ricomposte nella nebbia dell’oblio nazionale? «Certo, ci vedo anche questo. Ma sono contrario ad una cosa che spesso viene detta. E cioè che l’Italia non abbia fatto i conti con il fascismo. Io penso che quei conti più o meno siano stati fatti, non sono stati fatti i conti con l’antisemitismo. Prendere la cattedra di uno che è stato appena cacciato per questioni razziali, questo è non voler fare i conti. È questa una storia nascosta. Voglio ricordare il libro a cura del Senato italiano, con prefazione di Spadolini, allora presidente del Senato, che pure lui, detto tra virgolette, aveva qualcosa da farsi perdonare. Il titolo è “L’abrogazione delle leggi razziali in Italia (1945/1987)”. Erano passati 42 anni ma non c’era stata l’abrogazione integrale, c’erano ancora gli ultimi residui delle leggi razziali. Leggi terribili, piene di soprusi spaventosi, non si poteva andare nei luoghi di villeggiatura, non si poteva insegnare nelle scuole, persino in quelle di cucito, non si poteva avere un telefono, sebbene al tempo erano pochi quelli che già lo avevano. Nel 1955, dieci anni dopo la Liberazione, finalmente ci fu una norma che stabiliva l’equiparazione tra perseguitati politici e perseguitati per motivi razziali. Quei professori di cui abbiamo parlato prima non avevano i requisiti per chiedere un risarcimento per gli anni di allontanamento forzato dalla cattedra. Per 7 anni non avevano ricevuto lo stipendio ma per avere riconosciuti almeno i contributi dissero che avrebbe dovuto esserci un rapporto di continuità. Ma di quale continuità parliamo… erano stati cacciati via!». Ci furono 12 professori che contro tutto e tutti rifiutarono l’adesione al fascismo e non si “arianizzarono”. Perché questa minoranza eroica resta ancora oggi un’eccezione scomoda nel grande racconto autoassolutorio degli italiani brava gente? «Me lo chiedo anch’io. Come mai non c’è una targa, un vicolo, una galleria che li ricordi. Sono i veri eroi dell’antifascismo quelli che già nel 1931 per ragioni ideali si rifiutarono di firmare la loro fedeltà al regime fascista, perdendo lavoro, solidarietà affetto. Persero tutto ma nessuno li ricorda. Perché? Perché ricordarli vuol dire che qualcuno ha fatto cose che tu non hai fatto. Un altro patto dell’oblio. Uno di loro fu Gaetano De Santis che faceva parte della “commissione purificatrice” e difese Terni». Che cosa rivela questa rimozione ostinata, questa incapacità di distinguere tra la Storia e le polemiche del presente, tra la Shoah e Netanyahu, tra la Resistenza e Ga2a? Cosa c’è dietro le nuove pulsioni antisemite e la continua sovrapposizione tra comunità ebraica e politica israeliana? Siamo forse davanti a una riedizione — più subdola, più aggiornata — della stessa distorsione che colpì Terni? E che rapporto c’è tra questo libro e quello che sta accadendo anche da noi? «Questo libro lo avevo in testa da tanto tempo, la storia di Terni era citata in qualche nota a pie’ di pagina. Ma quello che mi ha spinto a scrivere non è quello che sta succedendo, e mi riferisco alle violenze dei pro Pal. Ma a quella cultura democratica che assiste da qualche tempo a questa parte alla nuova caccia all’ebreo come se non fosse accaduto niente. “Normale” che gli studenti ebrei a Torino vengono cacciati dall’Università o dalla pizzeria a Napoli o che in una libreria ci sia un cartello con scritto “vietato l’ingresso ai sionisti”. È normale, tutti zitti. Succede nel mondo, non solo in Italia. Ma da noi succede perché c’è stata ad un certo punto una retorica comune, siamo andati tutti ad applaudire Benigni o “Schindler’s list” e poi, dopo gli applausi, ce ne siamo dimenticati. Abbiamo dato una medaglia a chi, come Francesca Albanese, sostiene che il genocidio sia iniziato 80 anni Pierluigi Battista fa quando gli ebrei cacciarono i palestinesi dalle loro terre e considera il 7 ottobre una risposta alle vessazioni di Israele». A proposito della Albanese che ha definito l’assalto a “La Stampa” un monito per l’informazione: siamo all’inizio di una escalation è solo un episodio che non avrà un seguito? «Ci sono dei gruppi violenti antagonisti che fanno della violenza la loro pratica politica. Che hanno preso la causa della demonizzazione di Israele come il loro grande cemento ideologico. La storia di chi dice che sarebbero dei fascisti, infiltrati piccole minoranze, è ridicola. Sembra di essere tornati al tempo delle Brigate rosse “sedicenti”. Erano “fascisti” che si camuffavano da brigatisti. Certe cose non dobbiamo dimenticarle. Quando rapirono Aldo Moro alla Sapienza ci fu un boato di approvazione e non erano certo tutti brigatisti. Poi arrivò Rossana Rossanda, persona intellettualmente onesta e disse: “Io leggo nei comunicati delle Br qualcosa che mi ricorda l’album di famiglia”. Ecco, non c’è una Rossanda, purtroppo, oggi».
Criticare Israele è antisemitismo, se lo dice anche il Pd
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di Roberto Della Seta
Criticare Israele è antisemitismo, se lo dice anche il Pd
Chi contesta radicalmente i comportamenti dello Stato di Israele è antisemita. Questo è l’incredibile assunto di un disegno di legge «per la prevenzione e il contrasto dell’antisemitismo» presentato da senatori del Pd di area «riformista». Primo firmatario Graziano Delrio, con lui tra gli altri Simona Malpezzi e Pier Ferdinando Casini. La proposta, come altre già in discussione – della Lega, di Maurizio Gasparri, di Ivan Scalfarotto – adotta la definizione di antisemitismo elaborata molti anni fa dall’Ihra – l’International Holocaust Remembrance Alliance -, che qualifica come antisemita ogni critica radicale contro Israele e verso il sionismo quale sua ideologia fondativa. In particolare, per l’Ihra è antisemitismo sostenere che «l’esistenza dello Stato di Israele è un’espressione di razzismo», «applicare due pesi e due misure nei confronti di Israele richiedendo un comportamento non richiesto a nessun altro Stato democratico», «fare paragoni tra la politica israeliana contemporanea e quella dei nazisti». Tutte opinioni largamente discutibili – personalmente non le condivido – ma che con l’antisemitismo c’entrano zero. Nel 2021 un gruppo di storici dell’antisemitismo e dell’Olocausto ha elaborato e diffuso un documento, la Jerusalem declaration on antisemitism – nel quale si denuncia l’evidente intenzione dei promotori della definizione Ihra di allargare il concetto di antisemitismo comprendendovi, in modo abusivo, qualsiasi posizione radicalmente anti-israeliana. Diversamente dalla proposta di Gasparri e in analogia con quelle di Lega e Scalfarotto, il disegno di legge Delrio non punisce con la galera chi scrive o dice parole che in base alla definizione Ihra sono equiparate ad antisemitismo, ma in parte fa di peggio: all’articolo 2 delega il governo – questo governo, visto che la scadenza indicata è di sei mesi – a varare uno o più decreti legislativi con prescrizioni all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom) «in materia di prevenzione, segnalazione, rimozione e sanzione dei contenuti antisemiti diffusi sulle piattaforme on line di servizi digitali in lingua italiana». Gli articoli 3 e 4 della proposta si spingono ancora oltre: prevedono che ogni Università nomini una sorta di controllore che vigili su eventuali attività interne, anche didattiche, che suonino come illegittime sempre sulla base dei criteri definitori dell’antisemitismo fissati dall’Ihra. Il disegno di legge Delrio, per le sue premesse e per molti dei suoi contenuti, è davvero sconcertante, anche e tanto più visto che è opera di parlamentari di centrosinistra. L’antisemitismo è un problema serio e molto attuale, purtroppo se ne scorgono tracce anche in frammenti del movimento proPal per fortuna marginali ma comunque da contrastare con il massimo rigore. Proprio perché l’antisemitismo esiste ed esiste tuttora, le culture politiche progressiste che a differenza di quelle della destra oggi al governo e con rare eccezioni lo combattono da sempre non possono permettersi infortuni come questo. Se la proposta Delrio diventasse legge, non solo chi scrive ma tanti giornalisti e intellettuali autorevoli – Anna Foa, Gad Lerner, Stefano Levi della Torre… e questo giornale nella sua interezza – andrebbero, andremmo, sanzionati per le opinioni espresse sulla deriva nazionalista, razzista, illiberale dello Stato di Israele: del suo governo pro-tempore certo, ma anche degli altri suoi vertici istituzionali, delle sue forze armate e di sicurezza che compiono crimini quotidiani a Ga2a e spalleggiano le scorribande criminali dei coloni in Cisgiordania, del suo sistema carcerario. Infine. La confusione tra espressioni antisemite e anti-israeliane teorizzata in questo disegno di legge come negli altri analoghi cui si è affiancato, avvalora una confusione di segno opposto: tra «ebrei» e «Israele», che è uno dei canali principali attraverso i quali nell’attuale dibattito pubblico s’insinuano linguaggi, argomenti che tradiscono vero antisemitismo. Per contrastare questa minacciosa eterogenesi dei fini, sarebbe bene che il disegno di legge Delrio torni il più rapidamente possibile nel cassetto.
lntervista a Atef Abu Saif: «Oltre alle vite umane il genocidio distrugge arte e memoria»
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di Claudio Dionesalvi
lntervista a Atef Abu Saif: «Oltre alle vite umane il genocidio distrugge arte e memoria»
ROMANZIERE ED EX MINISTRO DELLA CULTURA PALESTINESE Atef Abu Saif: «Oltre alle vite umane il genocidio distrugge arte e memoria» II «Ci hanno distrutto 19 università e tutte le scuole che avevamo. Sin dal pomeriggio del 7 ottobre 2023, il primo museo bombardato è stato quello di Al-Qarara. Non a caso. Custodiva reperti attestanti la millenaria storia di Ga2a. Questo tentativo di annientamento militare della nostra memoria è ancora in atto». A parlare è Atef Abu Saif, ex ministro della Cultura palestinese, sfuggito decine di volte alla morte durante gli attacchi indiscriminati dei soldati israeliani: «Oltre a massacrare vite umane, il genocidio – aggiunge – annichilisce l’arte, la storia, la letteratura palestinese». Nato e cresciuto nel campo profughi di Jabalia, Abu Saif ha narrato l’orrore in Diario di un genocidio – 60 giorni sotto le bombe a Gaza, tradotto e pubblicato in Italia nel 2024 da FuoriScena libri. È autore di cinque romanzi, tra i quali Vita appesa, finalista del Premio Internazionale per la Narrativa Araba 2015, recentemente tradotto in italiano (Polidoro 2025), in cui riesce a intrecciare e armonizzare le storie individuali e le vicende collettive del suo popolo oppresso. Grazie a una scrittura che alterna crudo realismo e pause di simbolismo puro, l’autore ritrae l’orrore del genocidio senza lasciarsi trasportare da fughe retoriche e vittimismi. Ne emerge un racconto prospettico, che ricostruisce i nessi tra la presente tragedia e le sue radici storiche. È una narrazione carica di senso, autobiografica, tratteggiata da momenti stranianti che sospingono verso un’immedesimazione consapevole. Dottor Atef Abu Saif, in “Vita appesa” la descrizione delle violenze che il popolo palestinese subisce da decenni è accompagnata da un’efficace rappresentazione di sentimenti universali e situazioni comuni. Nella tragedia i rapporti interpersonali sembrano improntati a una commovente semplicità. La guerra, da sempre, è nemica della sopravvivenza. Chi ci fa guerra vuole distruggere le nostre esistenze, uccidere tutti i palestinesi. È naturale per noi insistere nella nostra voglia di continuare a esistere. La vita è come un albero che si alimenta e può crescere solo in virtù della speranza. Quindi se si prova a irrigarla di speranza, la vita migliora, mentre la tristezza genera odio e mostri. Forse anche per questo approccio, i suoi personaggi suscitano tenerezza, mentre le violenze che subiscono generano indignazione. Come può riuscire l’amore, nel senso romantico del termine, a non lasciarsi soffocare nei territori occupati da Israele? Noi reagiamo amando i bambini, ricercando la pace e la speranza. È importante raccogliere la memoria, interagire con le aspirazioni soggettive. Tuttavia la salvezza non può essere individuale. Ogni cambiamento, in senso filosofico, comporta una mutazione di noi stessi. Non è possibile migliorarsi attraverso il dolore e la rabbia. La comunità è sempre più importante dell’individualità. Ciò vale per tutti i popoli, non solo per noi palestinesi. In “Diario di un genocidio” descrive gli attacchi sferrati dalle navi israeliane sulla costa di Gaza. Sa che a sparare sono anche cannoni di fabbricazione italiana? Non sono a conoscenza del fatto che quelle armi specifiche siano state prodotte in Italia, ma so che è uno dei tanti Paesi europei sostenitori, insieme agli Usa, della macchina bellica israeliana. Le relazioni tra Italia e Israele includono anche la compravendita di armi utilizzate per il genocidio, l’uccisione di bambini, la distruzione di scuole e ospedali. È uno dei lati oscuri della politica del governo della signora Meloni: la cooperazione militare con Netanyahu si unisce alla negazione del genocidio in atto. Quanto le mobilitazioni dei movimenti ProPal e l’impresa della flotilla hanno condizionato le scelte dei Paesi arabi e dell’Autorità Nazionale Palestinese sul cessate il fuoco dello scorso 10 ottobre e sul cosiddetto “accordo di pace” siglato a Sharm el-Sheikh? Queste manifestazioni sono state importantissime per una serie di ragioni. Anzitutto per sollevare attenzione intorno ai crimini israeliani, per sensibilizzare tantissime persone su quanto sta accadendo. I mass media controllati dai governi, e in particolare quelli di destra, tentano di oscurare il massacro. Quindi, più si manifesta, più si boicotta e si protesta, maggiore è la sensibilità mondiale intorno alla questione palestinese. Quando mi trovavo a Rafah, appena ebbi accesso a internet vidi le manifestazioni a Roma, Parigi, Londra e nel resto del mondo. Provai sollievo. Per migliaia di persone private di cibo, acqua, medicine, è importante sapere di non essere sole. E grazie alla flotilla, alle donne e agli uomini che si sono imbarcati, improvvisamente il mondo ha capito che il mare per Ga2a non è una porta, ma un confine invalicabile che imprigiona milioni di esseri umani.
A Gaza Israele gioca con il tempo e la morte
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di Enrica Muraglie
A Gaza Israele gioca con il tempo e la morte
Il governo Netanyahu vuole riaprire il valico di Rafah solo in uscita. No dell’Egitto. Restituiti corpi martoriati di 345 palestinesi. «Il tempo qui non ha alcun valore», racconta alle telecamere di Al Jazeera Firyal Abu Rjeileh, residente a Ramallah. Anche gesti quotidiani come comprare un libro per i figli, che normalmente richiederebbero pochi minuti, si trasformano in ore a causa dei blocchi militari. Intanto a Gaza, giocando con il tempo e con la morte, il Cogat israeliano ha annunciato su X la riapertura nei prossimi giorni del valico di Rafah, al confine con l’Egitto, grazie al coordinamento con il Cairo e sotto la supervisione della missione europea. Chi vorrà lasciare la Striscia dovrà ottenere un’autorizzazione da Israele: il movimento sarà consentito solo da Gaza verso l’Egitto, e non viceversa. NEI TERMINI del cessate il fuoco di Trump sarebbe prevista invece la riapertura del valico di Rafah in entrambe le direzioni, permettendo a chi è rimasto bloccato all’esterno e vuole rientrare – decine di migliaia di persone – e a chi desidera partire o ricongiungersi con le famiglie di esercitare la propria libertà di movimento. La riapertura paventata da Israele non consente il ritorno a Gaza né il libero flusso di aiuti umanitari. E rischia di accelerare il processo di spopolamento della Striscia. Il servizio informazioni dello Stato egiziano ha già respinto l’annuncio israeliano di un’apertura unidirezionale del valico. Lo stesso senso unico che è stato mantenuto durante il primo cessate il fuoco, nel gennaio 2025, quando Rafah era stato riaperto brevemente. Ora, insieme ad altri quattro valichi, avrebbe dovuto funzionare regolarmente, e invece no. Non l’unica promessa rimasta inattuata: degli aiuti umanitari su larga scala, previsti nella prima fase del «piano di pace», non c’è ancora traccia. Nel frattempo, mentre Hamas e Jihad islamica ieri hanno consegnato la salma di un altro ostaggio deceduto, la morte a Gaza arriva congelata e numerata. Israele ha restituito i corpi di 345 palestinesi, molti difficili da identificare: bruciati, recisi, con incisioni ricucite. Solo 99 sono stati riconosciuti dai familiari, gli altri sepolti senza nome in fosse comuni. «Il corpo era bruciato e presentava circa sei o sette proiettili. Era completamente congelato», racconta Ramadan, che ha riconosciuto un parente. Per i medici legali di Ga2a è impossibile effettuare esami completi, mancano le attrezzature necessarie. NEL PROCESSO DI CONSEGNA Israele non fornisce nomi, rapporti forensi, informazioni sulle condizioni o sulla causa della morte alle autorità palestinesi e alle famiglie, che rimangono in un limbo anche dopo aver finalmente seppellito i propri cari, con la domanda senza risposta su cosa sia stato fatto ai loro corpi oppure cosa abbiano dovuto subire in vita. Di preservare la vita di molti palestinesi c’è estrema urgenza: Hani Isleem, coordinatore delle evacuazioni mediche da Gaza per Medici senza frontiere, denuncia un bisogno «davvero enorme» di trasferire un gran numero di malati e feriti. Nonostante i proclami di alcuni paesi, il numero dei pazienti accolti è per lo più insignificante: l’Italia ne ha ricevuti circa 200, la Francia 27. Soltanto l’Egitto ed gli Emirati Arabi Uniti ne hanno accolti in gran numero. Che rimane comunque «una goccia nell’oceano», avverte Isleem. Dall’inizio della guerra, l’Oms stima circa 8 mila evacuazioni: «I paesi stanno impiegando troppo tempo per decidere, ma non si può aspettare». Gaza resta intrappolata tra blocchi militari, valichi chiusi e un’emergenza medica senza precedenti, con famiglie che lottano per sopravvivere al freddo, identificare i propri cari e ottenere cure essenziali. Circa 42 mila palestinesi riportano lesioni gravi che hanno cambiato la loro vita, quasi il doppio rispetto al dato registrato un anno fa. A luglio 2024 erano già stati documentati più di 22 mila casi, un numero che ha continuato a salire con il protrarsi degli attacchi israeliani. Le lesioni più comuni includono traumi complessi agli arti, amputazioni, ustioni, danni al midollo spinale e al cervello, molti dei quali causano la perdita permanente della mobilità o della sensibilità. I bambini rimangono tra i più colpiti, con disabilità a lungo termine. Quando non li uccidono, le forze israeliane impediscono ai giornalisti di fare il proprio lavoro: accade ancora a Qabatiya, nel sud di Jenin, dove proseguono con ritmo chirurgico le perquisizioni delle abitazioni e gli arresti dei residenti. Durante una di queste operazioni è stato picchiato un bambino, mentre altri due palestinesi, 60 e 14 anni, sono stati feriti da soldati israeliani nel vicino villaggio di Misilyah. ALMENO 300 COLONI hanno fatto una nuova irruzione nella moschea di Al-Aqsa, a Gerusalemme est, celebrando rituali provocatori, mentre l’accesso dei fedeli palestinesi resta limitato. A Gaza City due palestinesi sono stati uccisi nel quartiere di Zaytoun, fuori dalla cosiddetta linea gialla, nell’ennesima violazione del cessate il fuoco.
L`arabo cristiano che combatte per Israele
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di Costanza Cavalli
L`arabo cristiano che combatte per Israele
Ci sono due modi di vivere nel nord di Israele e, che si sia chiamati all’uno o all’altro, bisogna essere pronti. «La questione non è se arriverà la guerra, ma quando», dice un ufficiale militare delle Forze di Difesa israeliane in forza al Comando settentrionale. Niente foto e tutto fuori taccuino, Hezbollah ha messo una taglia sulla sua testa: sul monte Adir, nell’Alta Galilea, a mille metri di altezza, si vive così. Di fronte, si sdipana il confine, segnato da un muro. Non ce ne sarebbe bisogno: di qua è tutto verde, ci sono le querce e gli arbusti della macchia mediterranea, di là è spoglio, rasato e terroso. «Le nostre montagne sono una riserva naturale», spiega l’ufficiale, «i libanesi invece lasciano pascolare le pecore». La cima della montagna è chiusa ai visitatori: c’è una base delle Idf, si vedono le antenne. A est si trovano le Alture del Golan, spostando lo sguardo verso nord c’è il Monte Hermon, al limitare tra Israele, Siria e Libano. Il Mediterraneo è a ovest. Da qui parte il fronte unico che, secondo gli ultimi report, Gerusalemme sta cercando di costruire per collegare il Libano meridionale al sud della Siria. Due teatri, un unico arco offensivo. L’ufficiale lo dice sul campo: «Se Hezbollah se ne andasse non avremmo più niente da fare qui, raggiungeremmo la pace nel giro di un’ora. Non abbiamo interesse a invadere o occupare il Libano, vogliamo solo che questa area diventi tranquilla. Ma Hezbollah è e rimarrà una minaccia». Sul fronte diplomatico, l’inviato speciale americano per la Siria, Tom Barrack, durante una visita in Iraq, ha avvertito di un’imminente operazione israeliana in Libano contro la milizia sciita filo-iraniana per disarmarla. Si avvicina la scadenza dell’ultimatum fissato dagli Stati Uniti e Israele perché il Libano presenti passi concreti sull’abbandono degli armamenti da parte dei miliziani e Washington è stata chiara: ogni futuro sostegno finanziario e militare a Beirut è legato alla smilitarizzazione di Hezbollah. Gli intoppi, però, sono tre. Il primo è che il nucleo dell’ideologia di Hezbollah sta nella “resistenza armata” contro Israele. La lotta non è un mezzo, ma l’identità. Il partito, cioè, per essere considerato un interlocutore affidabile, dovrebbe essere ricostruito dalle fondamenta. Il secondo, spiega la fonte, è che «le forze armate libanesi e Hezbollah fanno parte della stessa famiglia. In una famiglia libanese capita che un fratello si arruoli nell’esercito e un altro imbracci un mitra per il Partito di Dio». A disarmare Hezbollah si corre quindi il rischio di provocare una guerra civile. Il terzo è che a un anno dall’entrata in vigore del cessate il fuoco i miliziani stanno ricostruendo le proprie capacità, contrabbandando missili oltre il confine siriano e ripristinando posizioni e basi. Come? Oltre ai metodi di finanziamento tradizionali – traffico di droga, diamanti e riciclaggio di denaro – grazie ai soldi dell’Iran. La Forza Quds della Repubblica Islamica dell’Iran ha contrabbandato oltre un miliardo di dollari verso Hezbollah attraverso gli Emirati Arabi Uniti da gennaio di quest’anno, ha riportato giovedì il Wall Street Journal, citando il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti. La maggior parte dei denari arrivano dai guadagni delle vendite di petrolio iraniano e passano attraverso negozi di cambio, aziende, corrieri in stanza a Dubai. Da lì arrivano ai contrabbandieri in Libano. Altri fondi passano da Turchia e Iraq. E l’Onu? «Ci siamo fidati, ma a vent’anni di distanza (dalla seconda guerra del Libano, scoppiata nell’estate 2006, ndr), possiamo constatare che i Caschi blu, che dovranno abbandonare il Paese dei cedri l’anno prossimo, non hanno compiuto la loro missione. Le ostilità non sono cessate». L’ufficiale non è l’unico che non si fida. Jerry (sic.) saluta, chiacchiera, mangia, sorride, tutto con un M16 a tracolla: nel kibbutz Sasa, all’estremo nord dell’Alta Galilea, si vive così. È arabo, cristiano melchita, gestisce un pub irlandese, difende gli israeliani. Arriva dall’unico centro cristiano del Medio Oriente, Fassuta. Si vede dall’autostrada, su una collina, segnalato da una croce tutta lucine che potrebbe star bene a Las Vegas. A Sasa il 7 ottobre i missili Kornet di Hezbollah hanno danneggiato la biblioteca, una parte del liceo e l’Auditorium. Il confine con il Libano è distante poco più di un chilometro. «Le sirene della contraerea scattano dopo l’esplosione dei razzi, tanto i miliziani sono vicini», ha raccontato Angelica Edna Calò Livne, «In caso di attacco diretto avremmo sette secondi per entrare nel bunker: è come non averlo». È nata nel quartiere Testaccio, ma casa sua è qui da cinquant’anni, ha quattro figli, tre dispiegati nella Striscia, insegna Teatro all’università di Tel Hai a Kiryat Shmona. «Prima della guerra eravamo 450 abitanti, adesso siamo una cinquantina, tra responsabili della sicurezza e chi non se ne vuole andare». Lei è rimasta per suo marito Yehuda, un figlio del kibbutz, a capo della squadra di emergenza. La comunità ha una cassa comune in cui finiscono gli stipendi e i proventi delle attività, le decisioni sono prese dall’assemblea degli abitanti. La mensa, in cui si mangia a colazione e a pranzo, è gratuita. Le utenze vengono pagate attraverso il fondo. Tutti possono studiare fino al dottorato. Socialisti e collettivisti. «Non rinuncio a credere nella pace», ha detto Edna, «e non me ne vado». Ha le mele da raccogliere, «le pink lady, le più buone del mondo», e i kiwi. La frutta è la principale entrata del bilancio del kibbutz: 90 ettari, in media tremila tonnellate l’anno. La seconda voce è la Plasan, azienda leader mondiale nella progettazione, sviluppo e produzione di blindature per veicoli terrestri, aerei e navi delle forze armate.
Riaprendo il valico di Rafah Israele consentirà l’accesso in Egitto dei palestinesi bisognosi
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di Roberto Motta
Riaprendo il valico di Rafah Israele consentirà l’accesso in Egitto dei palestinesi bisognosi
Israele ha confermato la riapertura del valico di Rafah entro pochi giorni, consentendo ai residenti palestinesi di Gaza di partire volontariamente per l’Egitto. Questo sviluppo, annunciato dal Coordinatore delle Attività Governative nei Territori (COGAT), è in linea con la tregua con Hamas, mediata dagli Stati Uniti, e riflette l’impegno di Gerusalemme per gli aiuti umanitari, salvaguardando al contempo i suoi imperativi di sicurezza. Il valico, sequestrato dalle Forze di Difesa Israeliane (IDF) nel maggio 2024 per neutralizzare le reti di contrabbando di Hamas, opererà secondo rigidi protocolli, tra cui il controllo israeliano e la supervisione dell’Unione Europea, garantendo che solo i civili bisognosi, come coloro che necessitano di cure mediche o che fuggono da situazioni di difficoltà, possano attraversarlo. L’apertura del valico di Rafah è il risultato di un forte coordinamento presso il Centro di Coordinamento Civile e Militare guidato dagli Stati Uniti. Di conseguenza, i cittadini di Ga2a più vulnerabili avranno ora accesso più rapido e facilitato a cure mediche salvavita al di fuori di Ga2a. Dal punto di vista di Israele, questo passo non è meramente procedurale, una decisione che offre ai cittadini di Gaza una via di fuga dalle rovine causate dal regno del terrore di Hamas. Le atrocità del 7 ottobre 2023, che hanno massacrato 1.200 israeliani e ne hanno rapiti 250, rimangono impresse nella psiche nazionale, alimentando la determinazione a impedire qualsiasi rinascita dell’influenza di Hamas. «Facilitando le uscite volontarie, stiamo tendendo una mano a quei cittadini di Gaza stanchi di vivere sotto il giogo di Hamas», ha dichiarato un portavoce del COGAT al Jerusalem Post. «Questo non è uno sfollamento, è una liberazione dalla disperazione, coordinata con l’Egitto per rispettare la loro sovranità”. Il primo ministro Benjamin Netanyahu, il cui governo ha dovuto affrontare un intenso controllo internazionale sulla crisi umanitaria di Gaza, ha salutato la decisione come un adempimento delle clausole del cessate il fuoco. Parlando ai giornalisti dopo una riunione del gabinetto di sicurezza, Netanyahu ha sottolineato il collegamento con il rilascio degli ostaggi: «Israele procederà alla riapertura del valico di Rafah una volta che i resti degli ostaggi rimasti saranno stati restituiti da Gaza». Mi impegno affinché l’Egitto faciliti la partenza di qualsiasi cittadino di Gaza che scelga di andarsene, un diritto a lungo negato sotto il controllo di Hamas». Ha poi precisato: «Nessuno viene espulso; questo provvedimento infatti dà alle persone la possibilità di cercare una vita migliore altrove. Se l’Egitto adottasse questa strategia, potrebbe segnare una svolta per la stabilità regionale». I commenti di Netanyahu sottolineano il calcolo strategico di Israele: la limitata funzione unidirezionale del valico – almeno inizialmente – mitiga i rischi di rientro di armi o militanti a Gaza, una preoccupazione radicata nei passati sfruttamenti del confine. L’intelligence dell’IDF ha documentato come Rafah fungesse da arteria principale di Hamas per le armi fornite dall’Iran, giustificando l’operazione del 2024 che ha portato alla luce vasti sistemi di tunnel. Con la tregua che regge precariamente, Gerusalemme considera questa riapertura come una prova del rispetto da parte di Hamas; qualsiasi violazione potrebbe indurre una rapida ripresa delle operazioni. Il ministro della Difesa Israel Katz, che supervisiona i preparativi militari per il confine, ha rafforzato questa posizione con un fermo avvertimento. In una dichiarazione rilasciata martedì, Katz ha collegato il gesto a un’applicazione ferrea: «Se Hamas non dovesse rispettare i termini dell’accordo, Israele, lavorando a fianco degli Stati Uniti, riaccenderà il combattimento per sradicare la minaccia, ridisegnare il futuro di Gaza e garantire tutti i nostri obiettivi di guerra». Sotto la direzione di Katz, gli ingegneri dell’IDF stanno già ispezionando e rafforzando le infrastrutture sul lato di Ga2a, mentre le controparti egiziane sul fianco del Sinai si preparano agli afflussi. Il team di monitoraggio dell’Unione europea, in arrivo imminente, verificherà che gli attraversamenti diano priorità alle popolazioni vulnerabili, contrastando qualsiasi accusa di coercizione.
Norvegesi generosi: un terzo della finanziaria è pro-Pal
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Norvegesi generosi: un terzo della finanziaria è pro-Pal
Nel maggio 2024 la Norvegia annunciava il riconoscimento dello Stato di Palestina. Non fu, come si sa, il solo Paese europeo a farlo. Mentre infuriava il conflitto tra Israele e Hamas andava di moda, tra i governi di sinistra del Vecchio Continente, riconoscere una patria ai palestinesi pur sapendo che ciò (a differenza della diplomazia messa poi in campo dall’amministrazione Trump) non avrebbe portato né alla fine della guerra, né alla creazione di uno Stato palestinese. Ma ciò che il Paese scandinavo sta facendo in queste ore non ha pari, né precedenti nella storia. A Oslo, infatti, hanno messo a punto una legge di spesa dello Stato pro-Pal. E anti-Israele. Lo scorso lunedì, i due partiti di governo (laburisti e centristi) e i comunisti di Rodt hanno firmato un accordo che li impegna a votare una finanziaria 2026 nella quale dodici delle diciassette clausole di spesa sono inerenti ad aspetti consueti della vita pubblica di un Paese come l’assistenza sanitaria e sociale, il commercio, l’ambiente, l’istruzione, la difesa, mentre cinque riguardano Israele e Ga2a. L’interferenza nei rapporti tra due Stati terzi (considerato il riconoscimento che proprio la Norvegia ha accordato alla Palestina) inizia con la clausola 13 della legge, in cui si impegna il governo a spingere la Norges Bank (che gestisce il ricchissimo Fondo petrolifero e il Fondo pensioni connesso) ad assicurarsi che le azioni del Paese siano in linea con la Convenzione sul genocidio e che gli investimenti del Fondo petrolifero non contribuiscano a violazioni del diritto internazionale in Palestina. La clausola 14 chiede al governo di lavorare affinché sia riconosciuta la responsabilità di Israele nella ricostruzione della Striscia di Ga2a. La 15 ordina che il governo spinga Israele a prevenire o a punire le violazioni commesse dai coloni. La 16 introduce un divieto all’importazione di beni prodotti da insediamenti israeliani che violino il diritto internazionale e all’esportazione di prodotti norvegesi verso quegli stessi insediamenti. La 17, infine, chiede che il governo porti all’Assemblea dell’Onu una risoluzione che obblighi Israele a eliminare ogni restrizione alle operazioni dell’Agenzia per i rifugiati nella Striscia. Dopo questa roboante dichiarazione di intenti, passando ai fatti la legge di bilancio assegna a Ga2a anche dei fondi: in tutto 75 milioni di dollari, che sono una briciola pari allo 0,035% dei 214 miliardi di dollari che lo Stato norvegese prevede di spendere nel 2026. “Parole, parole, parole…”, canterebbe Mina ai vichinghi.
Bocciato Il ricorso dell`Imam
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di Redazione
Bocciato Il ricorso dell`Imam
Il Tar del Piemonte ha respinto ieri la sospensiva chiesta dall’imam di Torino, Mohamed Shahin, contro l’espulsione disposta dalla Questura di Torino in seguito alle frasi pro Hamas scandite in piazza in uno dei solito cortei pro-Pal e anti-Israele. La pronuncia dei giudici amministrativi ha respinto la richiesta di sospensione cautelare avanzata dai legali dell’imam sul ricorso proposto dallo stesso contro la revoca del permesso di soggiorno per soggiornanti di lungo periodo adottato dal questore di Torino. È una pronuncia che non incide sul trattenimento dell’imam all’interno del Cpr di Caltanissetta, per il quale era stata disposta la convalida da parte della Corte d’Appello. La trattazione collegiale avverrà in camera di consiglio il prossimo 14 gennaio 2026. Avs è al fianco dell’imam. Gli europarlamentari rosso-verdi hanno depositato un’interrogazione alla Commissione europea «affinché verifichi il rispetto degli obblighi dell’Italia e valuti il caso anche nell’ambito del monitoraggio annuale sullo Stato di diritto». «Il decreto di espulsione che ha colpito Mohamed Shahin, residente in Italia da oltre vent’anni, è un atto grave e immotivato che ha l’unico obiettivo di punire e intimidire il movimento per la Palestina», hanno spiegato in una nota.
“Non abbiamo paura”. Viaggio nella comunità ebraica di Monteverde
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di Nicolò Zambelli
“Non abbiamo paura”. Viaggio nella comunità ebraica di Monteverde
“Atto ignobile. C’è preoccupazione, ma non abbiamo paura. Questo clima lo affrontiamo con dignità e resilienza”. La comunità ebraica di Monteverde fa i conti dopo l’ultimo atto vandalico nei confronti della sinagoga di quartiere avvenuto qualche giorno fa. In seguito a una manifestazione pro Pal, alcuni vandali hanno imbrattato la targa dedicata a Michael Stefano Gaj Tachè, il bambino di due anni vittima del terrorismo palestinese e morto il 9 ottobre 1982. L’episodio ha avuto la condanna di molti esponenti politici e la comunità ha ricevuto il conforto del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. “Non c’è paura, c’è preoccupazione”, dice al Foglio, Sofia (il nome come quello delle altre voci di questo articolo è di fantasia), una residente del posto e che fa parte della comunità ebraica. “Lasciare il tempio il sabato mattina e ritrovarsi con un atto vandalico del genere il lunedì è stato uno shock. Si tratta di un’azione che potrei definire quasi terroristica”. Raggiungiamo dunque la sinagoga dov’è accaduto l’episodio. La targa è stata pulita il giorno stesso. Davanti all’edificio però resta ancora una scritta confusa, dove sembra leggersi “Monteverde SS”. Di fianco c’è il simbolo della svastica, che qualcuno ha coperto senza troppo successo. Giriamo per i diversi locali kosher del quartiere, cerchiamo di parlare con i proprietari per capire cos’ha significato quel gesto per loro. Ma gli esercenti sono spaventati: “Non dico niente, sei un giornalista, lo leggi anche tu quello che scrivono di noi certe persone”. “A Monteverde non sembrano essersi resi conto di quello che è successo”, dice al Foglio lo scrittore Fulvio Abbate, che qui vive e conosce il quartiere come le sue tasche. “Mi aspettavo più senso di comunità. Vorrei che ci fosse. Ma è difficile, anche perché Monteverde non ha una piazza. Può sembrare banale, ma è un ostacolo. Nulla giustifica questo gesto inaccettabile. Ritengo provenga da una subcultura antagonista che paragono al puro cascame”, aggiunge. La questione, precisa, è molto più ampia: “Da anni ormai, per i motivi che si sanno, quella sinagoga è presidiata. Ciò che hanno fatto quelle teste di cavolo, perché altro non si può dire, è da mentecatti”. Ma nel quartiere intanto la comunità reagisce: “Non ci siamo fatti abbattere, come al solito”, raccontano. “In risposta abbiamo organizzato una serata di studio in memoria del Gaj Tachè. Si è tenuta ieri (due giorni fa per chi legge, ndr). Abbiamo studiato la Torah”. Restano comunque la rabbia, la delusione e l’amarezza. “Vivo qui da sempre”, ci racconta Emma, una signora ebrea che vive a Monteverde da anni. “Oggi ho il vicino di casa che ha la bandiera palestinese sul balcone. Il che è strano. E non ci sarebbe niente di male se in quel simbolo, spesso e volentieri, non ci fosse accanto la delegittimazione di quello che è lo stato di Israele”. Episodi del genere invocano ricordi lontani, che in realtà non lo sono così tanto: “Torna la sensazione di sentirsi di nuovo stranieri in casa propria. Non possiamo permettercelo di nuovo. È troppo fresca la memoria del ’38”. La solidarietà del governo e, soprattutto, del Quirinale è stata apprezzata dai residenti del quartiere. Ma manca una vera iniziativa collettiva di zona. Soprattutto in una città come Roma, dove il quartiere non è solo il luogo di residenza, ma spesso molto di più. “Sono speranzosa, magari in futuro succederà”, ci racconta Letizia. “Ma per il momento la risposta è debole. Si vede anche nei gruppi Facebook: c’è un doppio standard che per altre situazioni internazionali non si è mai visto”. “C’è miopia politica”, ci dice di nuovo Fulvio Abbate. “Questi movimenti pro-Pal cercano nemici a cui additare tutti i mali del mondo. Ma le cose sono spesso più complesse”. Matteo, anche lui ebreo di Monteverde, racconta: “Fatti del genere sono preoccupanti: oggi sembra sia diventato
impossibile sostenere le proprie cause senza commettere atti violenti. Le comunità ebraiche dovrebbero essere interlocutori, oggi invece sono puri bersagli politici”. Ci racconta come Monteverde un tempo era proprio l’esempio di questo concetto: “Il nostro quartiere è stato sempre un luogo di aggregazione, a partire dalle scuole. Diverse realtà hanno sempre convissuto in pace, in un confronto democratico. Questo gesto cancella tutto il lavoro fatto. Non pensavo sarebbe mai successo qui. Ma andiamo avanti”.
Colloqui diretti tra Israele e Libano: Hezbollah è sempre più nell’angolo
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di Luca Foschi
Colloqui diretti tra Israele e Libano: Hezbollah è sempre più nell’angolo
Continua senza sosta l’azione diplomatica americana in Medio Oriente, la costruzione della grande architettura degli Accordi di Abramo. Ieri la base della missione Unifil II a Naqoura ha ospitato l’incontro fra due rappresentanti civili di Israele e Libano. Non accadeva da almeno 40 anni. Simon Karam, ex ambasciatore libanese a Washington, e Uri Resnik, membro del Consiglio nazionale di sicurezza israeliano, si sono uniti all’organismo di monitoraggio del cessate il fuoco, nato nel novembre del 2024 dopo un anno di combattimenti fra l’Idf e Hezbollah. Dell’organismo fanno parte Onu, Francia e Stati Uniti. A partecipare alle riunioni fino ad ora erano stati solo rappresentanti del comparto militare. Libano e Israele sono due Paesi formalmente in guerra che non intrattengono relazioni diplomatiche. Le repentine nomine di Karam e Resnik nascono dalla pressione che l’Amministrazione Trump sta esercitando per salvare il progetto di pacificazione regionale. Secondo l’esercito israeliano sono oltre 1.200 gli attacchi condotti in Libano nel corso dell’anno di “tregua”, 370 i «terroristi» uccisi. Le operazioni volute da Tel Aviv nascono dall’insoddisfazione per il mancato disarmo di Hezbollah, elemento fondamentale del cessate il fuoco. Il Partito di Dio, militarmente ridimensionato dal conflitto, resiste alla cessione del suo imponente e occulto arsenale. Nei mesi scorsi è arrivato minacciare una guerra civile nel caso il cui l’esercito libanese si spingesse troppo oltre nell’operazione, fortemente voluta dal presidente ed ex generale Michel Aoun ed estesa alle numerose milizie presenti in Libano. L’esile filo diplomatico stabilito ieri isola ulteriormente Hezbollah, membro del cosiddetto “asse della resistenza” che Israele ha colpito con efficacia strategica negli ultimi due anni: l’Iran, gli Houti yemeniti, Hamas, la Siria di Assad, collassata l’8 dicembre dell’anno scorso, e le milizie irachene. L’inviato americano Tom Barrack, in visita a Baghdad lunedì, ha ammonito il primo ministro al-Sudani che Israele è pronto a colpire i gruppi sciiti nel caso in cui questi cerchino di offrire supporto a Hezbollah. Lo stesso messaggio è da tempo arrivato a Damasco. Ieri le forze di sicurezza siriane hanno arrestato quattro presunti contrabbandieri impegnati a far entrare in territorio libanese un carico di mine. Il monito coinvolge anche il governo Netanyahu: «Nulla interferisca con l’evoluzione della Siria in uno Stato prospero. La Siria e Israele avranno una lunga e prospera relazione», ha intimato lunedì il presidente americano Trump. Venerdì scorso l’esercito israeliano aveva condotto un’operazione nel sud della Siria, conclusasi con l’uccisione di 13 uomini e la condanna di Damasco. «L’incontro in Libano è un primo tentativo di gettare le basi per una relazione e una cooperazione economica tra Israele e Libano», ha commentato Shosh Bedrosian, portavoce del governo israeliano, al termine dello storico incontro di Naqoura. «I colloqui diretti tenuti tra Libano e Israele non sono negoziati di pace politici», ha immediatamente replicato il premier libanese, Nawaf Salam.
L`appello del sindacato internazionale Ifj «Si aprano le porte di Gaza ai giornalisti»
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di Mimmo Mazza
L`appello del sindacato internazionale Ifj «Si aprano le porte di Gaza ai giornalisti»
Un nuovo appello per consentire ai giornalisti di tutto il mondo di entrare a Ga2a e negli altri scenari di guerra, ma anche un richiamo alla difesa dei diritti del lavoro giornalistico. Sono i due temi principali emersi nel corso dei lavori del Comitato esecutivo della Federazione internazionale dei giornalisti (Ifj), riunito per due giorni al Ciheam di Valenzano. Venticinque i giornalisti provenienti da tutto il mondo per partecipare ai lavori, tra questi anche Nasser Abu Baker, presidente del sindacato dei giornalisti palestinesi, che durante la conferenza stampa ha ricordato i «crimini di guerra perpetrati dall’esercito israeliano» con l’uccisione di oltre 256 giornalisti. «È stata dichiarata guerra alla libertà di stampa» ha affermato la presidente dell’Ifj, Dominique Pradalié, ricordando che il Sindacato dei Giornalisti Francesi ha presentato la scorsa settimana una denuncia legale contro Israele per ostruzione del lavoro dei giornalisti francesi nei territori palestinesi all’ufficio del procuratore anti-terrorismo di Parigi, appellandosi ad una norma del codice penale francese. «Israele apra Ga2a alla stampa internazionale» ha dichiarato il segretario di Ifj Anthony Bellanger, che ha manifestato supporto ai giornalisti italiani che hanno scioperato lo scorso 28 novembre. «Durante questi due giorni di lavori – ha detto Raffaele Lorusso, consigliere del Comitato esecutivo Ifj – si è parlato di questioni legate alla libertà di stampa, ma anche di difesa dei diritti del lavoro dei giornalisti, reduci da uno sciopero dell’intera categoria per il rinnovo del contratto nazionale». «Da gennaio del 2024 la Fnsi ha cominciato a scrivere all’ambasciata israeliana che i giornalisti non sono un bersaglio e devono poter lavorare tranquillamente – ha sottolineato Alessandra Costante, segretaria della Federazione nazionale stampa italiana – stiamo portando avanti una proposta da presentare alle istituzioni europee per equparare i giornalisti agli operatori della Croce Rossa».
L’Onu: Tel Aviv lasci Golan e Cisgiordania. Netanyahu: «Hamas colpisce, reagiamo»
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di Luca Foschi
L’Onu: Tel Aviv lasci Golan e Cisgiordania. Netanyahu: «Hamas colpisce, reagiamo»
L’Assemblea generale dell’Onu ha approvato due risoluzioni che chiedono a Israele di ritirarsi dalle alture del Golan, dalla Cisgiordania e da Gerusalemme Est. I provvedimenti, che ribadiscono i principi espressi nel 1967 con la risoluzione numero 282 e nel 1973 con la numero 338, sono stati approvati con maggioranze schiaccianti. Dura la replica di Danny Danon, ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite: «Invece di affrontare i crimini dell’asse iraniano e le pericolose attività delle milizie in Siria, si chiede a Israele di ritirarsi dalle alture del Golan, nostra linea di difesa vitale». Irriducibili sono le differenze anche per ciò che riguarda il valico di Rafah. Nella mattinata di ieri, Israele ha annunciato che sarebbe stato aperto ai residenti della Striscia di Ga2a intenzionati a entrare in Egitto. Il Cairo ha negato di averne concordato l’apertura: «Se si raggiungerà un accordo, il valico sarà aperto in entrambe le direzioni, in conformità con il piano di Trump». Dopo che in scontri a Rafah sono rimasti feriti quattro soldati, il premier israeliano Netanyahu ha dichiarato: «Hamas continua a violare l’accordo di cessate il fuoco. Israele risponderà di conseguenza».
La libertà di parola dell’imam estremista è sacra, quella degli editori sgraditi no
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di Francesco Borgonovo
La libertà di parola dell’imam estremista è sacra, quella degli editori sgraditi no
Quando non sanno più come cavarsela, boicottano, per via dell’antica regola per cui li si nota di più se non vanno. La parte di quello che si tira indietro tocca a Zerocalcare (a cui si è accodato l’assessore romano Massimiliano Smeriglio): «Ciao, purtroppo non sarò alla fiera romana Più libri più liberi», ha scritto. «Purtroppo ognuno c’ha i suoi paletti, questo è il mio. Quando l’ho deciso, quindici anni fa, mi pareva semplicissimo da applicare. Oggi è una specie di campo minato. Penso che questo ci costringa a rifletterne insieme, di più, e in modo più efficace. Gente a cui voglio bene ha fatto scelte diverse, sono sicuro che sapranno far sentire le loro voci e faccio il tifo per loro». Anche lo scorso anno era andata così: il fumettista rinunciò alla kermesse perché tra gli invitati c’era il filosofo Leonardo Caffo, coinvolto in una vicenda di maltrattamenti domestici per cui è stato condannato (in primo grado, in attesa di ulteriori passaggi: lui ha sempre definito ingiusta la condanna). Altri seguirono e ne scaturì una faida tutta interna alla sinistra. Quest’anno se non altro per i compagni della cultura la faccenda è più lineare, nel senso che non debbono salire sul piedistallo e prendere le distanze da qualcuno proveniente dal loro mondo: stavolta si tratta di fare gli antifascisti, e di protestare contro l’in clus io ne dell’editore Passaggio al bosco nella manifestazione libraria. La casa editrice è di destra estrema, dicono, dunque non può partecipare. Motivo per cui si sono tutti messi in fila a firmare l’appello rivolto all’Associazione italiana editori, chiedendo la rimozione del marchio sgradito. Per fortuna, almeno finora, l’Aie ha tenuto botta, ma in contemporanea si è scatenato il consueto psicodramma progressista. Ciascuno degli antifascisti di professione sta cercando di farsi notare sparandola grossa e alzando il più possibile l’asticella. Insomma è partita la gara a chi è più puro. Paolo Berizzi, fascistologo di Repubblica, si è scatenato contro Passaggio al bosco e ha rilanciato segnalando un altro marchio da censurare, ovvero Idrovolante edizioni. A questo punto, tanto verrebbe cambiare il nome della manifestazione in Più libri, più censura. O Meno libri più liberi, come gli amici sinistrorsi preferiscono. Berizzi tuttavia è superato a sinistra dai portavoce di Red Star Press, casa editrice dichiaratamente comunista, come si evince dal nome. I ragazzi della stella rossa non diserteranno la fiera come Zerocalcare, rimarranno al loro posto e rilanciano: i fascisti a loro fanno schifo, dicono, ma non è che i democratici siano poi tanto meglio. «Fa davvero specie che l’ex deputato dem Emanuele Fiano, presidente di Sinistra per Israele, si stupisca di presenze come quella di Passaggio al bosco a Più libri più liberi», scrivono sui social. «Assumendo come reale lo stupore di Fiano, sarà bene far notare al politico del Pd come, nel corso del genocidio in Palestina, le posizioni più estremisticamente a favore di Israele – i sionisti non abbiano fatto altro che trovare nella destra e nell’estrema destra i propri alleati più fedeli. II risultato, oltre all’im pu ni to massacro di decine di migliaia di palestinesi, è stato anche un ulteriore spostamento a destra dell’asse politico dell’intero Occidente, dove i governi si sono ostinatamente rivelati sordi alle oceaniche manifestazioni che hanno continuato a rivendicare giustizia e libertà per la Palestina, preoccupandosi solo dei modi per silenziare le voci dissonanti, aggredendo le persone comuni, il nemico interno». Capito? I fasci sono brutti, ma anche i sionisti della sinistra riformista fanno un po’ ribrezzo. Queste prese di posizione non stupiscono: quando parte la corsa all’epurazione c’è sempre qualcuno che si sente più puro degli altri e pensa di poter determinare chi debba parlare e chi no. Anche ai sinceri democratici tocca stare attenti, perché in assenza di destra sono loro i primi a passare per fascisti. Fiano ne sa qualcosa, visto come hanno cercato di zittirlo nelle aule universitarie, e in teoria chi subisce censura dovrebbe essere il primo a reclamare la libertà di parola per tutti. Ormai però sappiamo da tempo immemore che per i progressisti tale libertà vale a corrente alternata. I giornali liberal che strepitano contro Passaggio al bosco sono, per dire, gli stessi che prendono le difese dell’imam piemontese Mohamed Shahin, beccato a dichiarare in piazza che il 7 ottobre non c’è stata violenza né qualche tipo di violazione. Del predicatore invasato si vogliono tutelare pensiero e espressione, e a sinistra si giustificano pure (anche se con qualche distinguo) le intemerate di Francesca Albanese. C’è persino chi, come Annalisa Cuzzocrea di Repubblica, straparla in merito all’aggressione dei centri sociali alla Stampa e sostiene che gli antagonisti abbiano attaccato il giornale sbagliato. In buona sostanza nel variegato universo progressista ciascuno, in base alle sue convinzioni, si riserva il diritto di mettere il bavaglio a questo o a quell’altro. La possibilità di confrontarsi con l’altro e ascoltarne le ragioni, magari solo per confutarle, non è minimamente presa in considerazione. Si chiede la censura, si fa di tutto per oscurare, e se non ci si riesce, ci si leva di torno per non mescolarsi con gli sgradevoli inferiori: sia mai che si rischi di farsi sfiorare da qualche idea che possa riempire il vuoto mentale pneumatico.
Parigi mette in mostra gli inediti di “Shoah”, kolossal di Lanzmann
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di Luana Demicco
Parigi mette in mostra gli inediti di “Shoah”, kolossal di Lanzmann
Al Mémorial de la Shoah di Parigi arriva il dono di 95 cassette magnetiche originali di registrazioni che Claude Lanzmann realizzò tra il 1977 e il 1978 durante la preparazione di Shoah, il suo film monumentale sullo sterminio nazista degli ebrei, nove ore e 26 minuti, frutto di decine di viaggi, ricerche e interviste. Il regista francese vi lavorò per undici anni, dall’estate del 1974, e lo presentò in anteprima mondiale a Parigi nella primavera del 1985. Per S hoah, Lanzmann non ricorse ad archivi filmati d’epoca, ma costruì un racconto orale raccogliendo le testimonianze senza filtri di sopravvissuti dei ghetti e dei campi, di carnefici ed ex SS, di intellettuali e contadini polacchi che vedevano passare nei loro villaggi i treni carichi di ebrei destinati alle camere a gas. Voci inedite, tra cui quelle dello storico israeliano Yehuda Bauer, del grande poeta yiddish Avrom Suskever, e dello scrittore e giornalista Erich Kulka, sopravvissuto ai campi di Dachau e Auschwitz (e morti rispettivamente nel 2024, 2010 e 1995), che tornano ora a parlare e alle quali il regista, dovette talvolta e a fatica rinunciare. Testimonianze che cioè, o perché non poterono essere filmate, o perché non si adattavano alla struttura narrativa del film, non entrarono nel montaggio finale. Il materiale iniziale era del resto colossale: si parla di almeno 220 ore di nastri audio, un archivio che, insieme al film, è stato iscritto nel 2023 al registro della “Memoria del mondo” dell’Unesco. Il dono a Parigi della Lanzmann Collection, conservata al Jüdisches Museum di Berlino, arriva in occasione del centenario della nascita di Claude Lanzmann, il 27 novembre 1925 (e morto nel 2018). I nastri verranno digitalizzati e diventeranno accessibili a studenti e ricercatori. Intanto, il Mémorial de la Shoah offre al pubblico parigino la possibilità di ascoltare queste registrazioni inedite in una mostra temporanea (dall’11 dicembre al 29 marzo 2026), accompagnate da documenti d’archivio, lettere e appunti di lavoro che servirono a Lanzmann a rivoluzionare il genere del film documentario.
Hamas e le Ong finanziate dalla Ue per aiutare Gaza. Un report svela le interferenze
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di Dario Martini
Hamas e le Ong finanziate dalla Ue per aiutare Gaza. Un report svela le interferenze
Le Ong che operano a Gaza e che al tempo stesso prendono finanziamenti dall’Unione europea sarebbero state infiltrate da membri di Hamas. A denunciarlo è Ngo Monitor, associazione no profit che sorveglia l’operato delle organizzazioni non governative. Se confermata, si tratterebbe di un’inchiesta clamorosa che rivelerebbe pericolosi legami tra il gruppo terroristico e le ong occidentali che operavano nella Striscia. Ngo Monitor sta pubblicando numerosi documenti interni di Hamas, rilanciati anche dal sito paneuropeo Euractiv, che descrivono un presunto «imponente sistema di collegamenti formali dell’organizzazione con le principali Ong internazionali presenti a Gaza». Inoltre, Hamas avrebbe manipolato «Ong internazionali altamente rispettate come Medici Senza Frontiere (MSF), Oxfam, Save the Children e il Consiglio Norvegese per i Rifugiati». Ovviamente, si tratta di accuse pesanti, tutte da provare. Quindi, fino a prova contraria, le suddette ong non hanno commesso ciò che viene loro contestato. Al massimo si può supporre che siano le vittime di questo meccanismo. Fatto sta che Hamas avrebbe richiesto che referenti fidati collaborassero con le organizzazioni, molte delle quali ricevono finanziamenti diretti dall’UE. I ricercatori di Ngo Monitor, si legge nell’inchiesta, «hanno affermato che Hamas si avvaleva dei cosiddetti “garanti”, ovvero cittadini di Gaza che fungevano da punto di contatto tra Hamas e le rispettive Ong. A questi cosiddetti garanti venivano spesso affidate posizioni amministrative influenti all’interno delle ong, come quella di direttore o presidente del consiglio di amministrazione. Mentre alcuni di questi individui erano membri di Hamas, altri sono descritti come simpatizzanti fidati o come affiliati ad Hamas», riporta Euractiv. Inoltre, un documento del dicembre 2022 elenca i dati personali di diversi «garanti», affermando inoltre che questi individui potrebbero essere «sfruttati per motivi di sicurezza al fine di infiltrarsi in associazioni straniere, nel loro personale dirigente straniero e nei loro movimenti». L’ampia sorveglianza dei garanti ha portato anche a descrizioni dettagliate del loro comportamento religioso, del loro abbigliamento, della loro attività su Internet e delle loro convinzioni politiche. Ngo Monitor scrive anche che «gli sforzi di Hamas, come descritto in questi documenti, integrano una miriade di altri stratagemmi e attività per requisire gli aiuti internazionali e indirizzarli ai suoi membri, simpatizzanti e altri che l’organizzazione desidera ingraziarsi. Come precedentemente riportato da Ngo Monitor, questi includono l’inserimento di agenti di Hamas in posizioni amministrative all’interno di ong internazionali che operano a Gaza; la creazione di elenchi di beneficiari per l’assistenza in denaro, che vengono poi utilizzati dalle Nazioni Unite e dalle organizzazioni umanitarie; e veri e propri furti». In un altro documento datato 16 giugno 2021, Hamas avrebbe rivelato che l’organizzazione Oxfam «ha collaborato con un gruppo locale legato ad Hamas per realizzare un progetto di irrigazione per alberi da frutto. Il gruppo terroristico ha affermato che il progetto avrebbe contribuito ai propri obiettivi militari. Il progetto idrico di Oxfam si è svolto in una “zona di confine ed è sensibile alla sicurezza”, ha osservato Hamas, aggiungendo che gli alberi da frutto “sono noti per essere una copertura per le attività di resistenza nelle zone
di confine”». Visto che queste Ong sono finanziate dalla Ue, a chiedere chiarezza è Stefano Cavedagna, eurodeputato di Fratelli d’Italia-Ecr e vicepresidente della Commissione speciale sullo scudo europeo per la democrazia (Euds): «I nuovi documenti pubblicati da Euractiv gettano un’ombra gravissima sull’Unione europea: emerge infatti che alcuni finanziamenti destinati a Ong potrebbero aver sostenuto attività collegati a una cellula terroristica di Hamas. Se confermato, si tratterebbe di uno scandalo senza precedenti, che mette in discussione la credibilità dell’intera Ue e mina la fiducia nei suoi meccanismi di finanziamento. Non è tollerabile che fondi europei possano finire, anche indirettamente, nelle mani di veri e propri terroristi. Abbiamo chiesto di aprire una indagine nella Commissione Euds».
L’università «nemica» dei militari ospita i ProPal nell’aula occupata per boicottare la squadra israeliana
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di Giulia Sorrentino
L’università «nemica» dei militari ospita i ProPal nell’aula occupata per boicottare la squadra israeliana
Sono sempre loro, i giovani palestinesi italiani. Parliamo del gruppo che ha organizzato una piazza che inneggiava al 7 ottobre e che ieri si sono riuniti nell’aula occupata “Capecchi” della facoltà di Filosofia dell’Università di Bologna per organizzare la strategia con la quale boicottare il match del 12 dicembre contro l’Hapoel Tel Aviv, come hanno già tentato di fare in occasione della gara di Basket Virtus-Maccabi Tel Aviv, ma che si è regolarmente svolta grazie alla ferma posizione del ministro dell’interno Matteo Piantedosi. «Pretendiamo che, almeno questa volta, l’Amministrazione Comunale si schieri dalla parte giusta della storia e ascolti la voce delle masse popolari, usando i suoi poteri per non far giocare la partita. Non ci faremo abbindolare dallo sport-washing di Israele e dalla normalizzazione del genocidio da parte del Governo italiano», scrivono. E il dato significativo è che ci riferiamo allo stesso ateneo che ha impedito che prendesse forma presso il dipartimento di Filosofia il corso di laurea riservato a una quindicina di ufficiali per «sviluppare il pensiero laterale» dei militari italiani. «I professori dell’ateneo di Bologna, che hanno rifiutato di avviare un corso di laurea per alcuni ufficiali dell’esercito italiano, temendo (così dicono) la (presunta) “militarizzazione” della loro università, possono stare tranquilli: quegli ufficiali che loro oggi rifiutano sdegnati, domani e sempre saranno pronti a difenderli ugualmente, ove e in caso fosse necessario», aveva detto il ministro della Difesa Guido Crosetto. Insomma, fuori i militari ma non chi inneggia a un atto terroristico o difende imam come Mohamed Shahin di Torino, ritenuto un esponente della Fratellanza Musulmana. A commentare l’ennesimo episodio di occupazione è Matteo Di Benedetto, capogruppo della Lega a Bologna: «Quanto annunciato dai giovani palestinesi è inaccettabile. Un’aula occupata abusivamente non può diventare la base logistica per organizzare nuove proteste che rischiano di replicare quanto accaduto venerdì scorso, quando la città è stata messa in ginocchio da disordini e devastazioni». Ed è per questo che si chiede «un intervento immediato delle autorità competenti per lo sgombero dell’aula occupata, il monitoraggio rigoroso delle riunioni annunciate, l’individuazione preventiva di eventuali promotori di azioni violente e l’attivazione di tutte le misure necessarie per impedire che Bologna venga nuovamente ostaggio di frange estremiste. L’università chiarisca la sua posizione: dicono no ai corsi per i militari, ma non si fanno problemi ad avere un’aula occupata in cui vengono organizzate queste manifestazioni?». Insomma, una Bologna in ostaggio dei ProPal, soprattutto se consideriamo la nuova operazione di boicottaggio che i gruppi “C.U.A. Bologna” (Comitato Autonomo Studentesco) e Sumud Unibo (il cui mantra è “blocchiamo tutto”) hanno deciso di indire. Si tratta di una nuova protesta contro il corso per militari per martedì 9 dicembre in una sorta di chiamata alle armi per «discutere insieme, costruire un fronte ampio e dare forza a questo percorso invitiamo tutt3 a partecipare ad un’assemblea di ateneo martedì. Consapevoli dei tempi stretti, crediamo che sia necessario immaginare un percorso ampio e trasversale che nei prossimi mesi sappia contrastare la crescente militarizzazione delle nostre aule, anche in vista dell’imminente riforma Bernini». Attaccano il dissenso, si oppongono a chiunque osi criticare e spostarsi anche solo di un millimetro da quella forma di pensiero unico che loro fingono di voler combattere in un mix tra causa palestinese, aiuto dei lavoratori o studenti e no al riarmo. Protestare per il gusto di dissentire e creare disordine. Il tema, però, è che a discostarsene dovrebbe essere una sinistra che invece resta silente. E, infatti, Di Benedetto si appella proprio al sindaco bolognese in quota Pd Matteo Lepore: «Chiediamo a lui e alla maggioranza di smettere di fare opposizione al governo e di iniziare finalmente a fare la loro parte: difendere la città, sostenere le forze dell’ordine e garantire sicurezza ai cittadini. Bologna non può e non deve diventare terra franca per illegalità e intimidazioni».
Su Albanese il Pd avvitato nell`ipocrisia
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di Antonio Padellaro
Su Albanese il Pd avvitato nell`ipocrisia
Lasciar perdere la cittadinanza onoraria, ma limitarsi a esprimere solidarietà alla Palestina e alla Relatrice speciale dell’Onu per i territori palestinesi dopo le sanzioni americane. L’esilarante “punto di caduta” escogitato dalla maggioranza di Palazzo Vecchio a Firenze (Pd e Avs) sulla onorificenza negata a Francesca Albanese la dice tutta sul costante testacoda della classe politica dem (e affini). Che come certi ragazzini viziati vuole sempre averla vinta e se non ci riesce si porta via il pallone. Il caso è noto: Albanese pur condannando l’assalto a Torino della squadraccia ProPal con devastazione della redazione de La Stampa lo ha definito, con espressione sconsiderata, un “monito”ai giornalisti “perché tornino a fare il proprio lavoro”. E qui comincia il teatrino grottesco a cui danno vita la sindaca progressista di Firenze Sara Funaro e, per certi versi, Matteo Lepore a Bologna. Che dopo avere sgomitato per essere i primi a consegnare alla Albanese cittadinanze onorarie, chiavi della città, medaglie e collari vari (erano i giorni delle grandi manifestazioni a favore della Palestina, un richiamo irresistibile per i “buoni” a caccia di consenso) adesso che lei è diventata “cattiva” se ne vogliono liberare. Forse perché toccata da inaspettata (e insperata) popolarità ad Albanese capita di straparlare (Liliana Segre definita “poco lucida”, il sindaco di Reggio Emilia cazziato mentre la omaggiava per avere osato citare gli ostaggi nelle mani di Hamas), però delle due l’una. O parliamo di un personaggio la cui opera a favore del popolo palestinese e contro la pulizia etnica attuata dal governo Netanyahu resta meritoria. In tal caso la cittadinanza onoraria va mantenuta, pur nella critica sacrosanta al “monito”. Perché se bastasse una parola sbagliata, sbagliatissima a cancellare di colpo un encomiabile e coraggioso lavoro, allora vorrebbe dire che tutti quei riconoscimenti erano falsi, falsissimi. Così come il cinismo si addice alla destra, l’ipocrisia della sinistra può raggiungere delle vette abissali.
Intervista a Valentina Ghio (Pd): «Coloni usati come un’arma. Così deportano i palestinesi»
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di Francesca Forleo
Intervista a Valentina Ghio (Pd): «Coloni usati come un’arma. Così deportano i palestinesi»
«Ho visto ragazzi con i segni fisici delle torture subite in carcere, parlato con i familiari di ragazzini uccisi mentre andavano a comperare un’aranciata nel loro villaggio, di uomini arrestati, dopo l’uccisione da parte di un colono di un loro fratello, perché tentavano di difendere le loro case dagli espropri illegittimi». La parlamentare ligure del Pd Valentina Ghio, racconta la missione della settimana in Cisgiordania a cui ha partecipato insieme al collega ligure Andrea Orlando, in una delegazione composta anche da Laura Boldrini, Sara Ferrari, l’ex coach dell’ItalVolley Mauro Berruto, Ouadid Bakkali. Com’è andata? «All’aeroporto di Tel Aviv siamo stati trattenuti due o tre ore e abbiamo subito un vero e proprio interrogatorio sulla missione: non avevamo firmato un foglio in cui era richiesto l’impegno a non partecipare a manifestazioni contro il governo israeliano. Poi abbiamo assistito a un attacco dei coloni a circa 500 metri da dove ci trovavamo. Agiscono come una sorta di milizia, uno strumento nelle mani del governo, per allontanare i palestinesi dalle comunità rurali». Poi siete rimasti bloccati, perché c’è stata polemica con la Farnesina? «La nota della Farnesina sulla nostra messa in sicurezza non corrispondeva alla realtà: nessuno è venuto a prenderci con l’esercito israeliano, l’unico esercito che abbiamo visto è quello che ha causato la nostra “sosta” forzata». Cosa stavate facendo prima dello stop? «Eravamo andati a incontrare il sindaco di Gerico e alcune persone vittime di espropri, abbiamo parlato con il fratello di un uomo arrestato per aver fatto un post su Facebook a favore di Ga2a: quando dico che il carcere duro viene usato come strumento repressivo e di tortura, anche con la fame, è perché quest’uomo in carcere ha perduto 50 chili». Avete anche lanciato l’appello per boicottare Israele alle Olimpiadi come fu fatto per il Sudafrica contro l’Apartheid. «Il tema dello sport, è stato uno dei motori del viaggio grazie all’ex coach dell’ItalVolley, il parlamentare Mauro Berruto». Cosa seguirà a questa missione? «Abbiamo in programma una serie di atti parlamentari, tra cui chiedere al ministro Tajani cosa intende fare per assicurare la nostra cooperazione in un contesto dove più sottotraccia che a Ga2a è in corso un’operazione di controllo e deportazione sistematica di un intero popolo, contro le leggi e il diritto internazionale».
Intervista a Hadar Sharvit: «Così sono scampata all’inferno del 7 ottobre»
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di Francesco Margiocco
Intervista a Hadar Sharvit: «Così sono scampata all’inferno del 7 ottobre»
Alle 6 e 29 dell’alba del 7 ottobre 2023, la musica a Re’im si è fermata. «Sono saliti sul palco e ci hanno detto di sdraiarci per terra». Con centinaia di altri giovani, Hadar Sharvit era al Nova Music Festival il giorno dell’attentato terroristico di Hamas a Israele, un massacro che solo al Nova, in poche ore, è costato la vita a 378 persone, e a più di 1.200 nel Paese. Nata 29 anni fa, Sharvit insegna matematica in un liceo e vuole tenere viva la memoria di quel giorno. Ieri era a Genova, ospite di Angelo Vaccarezza, consigliere regionale di Forza Italia e presidente onorario dell’associazione Italia-Israele di Savona. In serata, al teatro Gassmann di Borgio Verezzi, ha assistito alla proiezione del documentario “We Will Dance Again”, il racconto di quel dramma attraverso le immagini riprese dagli smartphone di chi c’era. In mattinata ha visitato il Secolo XIX. «Io stessa lo vedrò per la prima volta. È la storia di quel massacro al Nova e della voglia di combattere l’oscurità, di tornare a ballare e a vivere». Cosa l’aveva portata lì, quel giorno di ottobre di due anni fa? «Era la quarta edizione del Nova in assoluto e la terza volta che ci andavo. È un evento speciale, davvero di alto livello musicale. La musica trance è molto forte in Israele, dove abbiamo tanti produttori, ballerini, e appuntamenti: piccoli party e grandi festival. Abbiamo i migliori deejay. Almeno il 30% dei deejay di trance sono israeliani. La trance, lo dice il nome, ti porta in uno stato mentale diverso, come se stessi facendo meditazione. Per noi, che tutti i giorni dobbiamo confrontarci con il nemico, è una distrazione. Ero andata lì con quindici miei amici. L’avevamo organizzata da tempo. Per miracolo, siamo tutti sopravvissuti». Come ha fatto a mettersi in salvo? «La mia prima reazione non è stata di panico. Siamo abituati a subire attacchi. Re’im è vicina al confine con la Striscia, i lanci di razzi sono abbastanza normali. Ma quando abbiamo capito che non era normale, siamo corsi alle macchine. Dopo poco, però, la polizia ha bloccato il traffico: i terroristi erano entrati in Israele. Era il caos, nessuno capiva più niente». Lei riusciva a orientarsi? «Grazie a mio papà, che mi parlava dal telefono. Ma la situazione precipitava. Arrivavano continui messaggi su Telegram. I terroristi si muovevano liberamente in Israele, con mitragliatrici, ammazzando civili, proprio vicino all’area del Nova. Eppure continuavo a pensare che tutto sarebbe finito in un’ora. Siamo abituati ad avere a che fare con attentati ogni giorno. Abbiamo fiducia nell’esercito». Quando ha capito che non sarebbe andata così? «Quando la polizia ha detto che non poteva aiutarci, perché era impegnata a combattere i terroristi. Mio padre, che mi informava su tutto, mi ha detto di scappare. Siamo usciti dalla macchina e abbiamo cominciato a correre. Mi sono nascosta in un frutteto. Ho visto e sentito ogni cosa. Razzi che cadevano al suolo, e altri razzi più piccoli sparati dai droni. Ho sentito urlare “ammazzate gli ebrei” e ho visto corpi cadere. Ho sentito i kalashnikov e le urla degli stupri. Ho visto gente morire nel peggiore dei modi. Tutto vicino a me. Aver fatto due anni di servizio militare, anche se ero solo nel reparto istruzione, mi è servito. Sapevo riconoscere gli spari. Loro sparano con le mitragliatrici, noi mai. E quando mi sono nascosta tra gli alberi, sapevo muovermi nella natura». Israele è più debole da quel giorno? «No. Israele è il più importante Paese del Medio Oriente. È in prima linea nella lotta al terrorismo. Conosce la realtà degli Stati che, dietro le quinte, finanziano le organizzazioni terroristiche. Dobbiamo raccontarlo». È la missione che si è data anche lei? «Trascorro parte del mio tempo in Europa e nel mondo a raccontare come siamo sopravvissuti, a condividere quello che è successo e a cercare di spiegare, agli altri e a me stessa, come possiamo uscire da un trauma. Abbiamo conosciuto l’odio, siamo vivi, dobbiamo reagire con amore. E dobbiamo raccontare la verità su cosa sta accadendo». In Medio Oriente? «Nel mondo. Il terrorismo agisce anche a un livello inconscio. Trova uno strumento nei social media, che riducono la questione israelo-palestinese a una questione di male contro il bene, diffondendo l’idea che per il bene dell’umanità bisogna combattere Israele». Ma come giudica la reazione di Israele al 7 ottobre, con decine di migliaia di morti? «Cosa deve fare una madre a cui violentano e uccidono la figlia? Un ragazzo a cui massacrano i fratelli? Abbiamo tecnologie che ci proteggono dai loro razzi. Ma loro nascondono le armi nelle scuole e negli ospedali. Organizzano attentati nei quartieri più popolosi, così che la gente non possa scappare. Non dimentichiamolo. Conosco molti palestinesi, vivo accanto a loro. Molti sono più fedeli alla bandiera d’Israele che a quella della Palestina. Molti sono integrati nella nostra società, sono medici, professionisti. Noi aiutiamo i bambini di Ga2a. Li curiamo nei nostri ospedali. Diamo a loro e alle loro famiglie l’elettricità. Loro prendono il denaro e lo usano per comprare armi. E usano i civili come scudi umani». Ritiene che la soluzione dei due Stati sia possibile? «Preferirei non rispondere». Ha fiducia in un futuro migliore? «Per forza. Un mese dopo l’attentato, ero già tornata a insegnare a scuola. Avevo una classe di tredicenni. Non potevo abbandonarli. Sentivo di doverli educare alla compassione, al rispetto degli altri e a fare il possibile per migliorare la società. Non voglio che crescano nella rabbia e nell’odio. Il contrario di quello che accade a Ga2a, dove i libri di scuola insegnano a odiarci. Anche in Europa, e nel mondo, l’antisemitismo sta crescendo. A Berlino una donna, dopo una vita vissuta in Germania, mi ha detto che non si sente più sicura. Io porto al collo questa stella di David, e non è una cosa ovvia. Immagini se un cristiano avesse paura di indossare un crocifisso».
Libano e Israele tornano a parlarsi dopo 80 anni
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di Fabiana Magrì
Libano e Israele tornano a parlarsi dopo 80 anni
Emissari di Israele e Libano non sedevano allo stesso tavolo – e alla luce del sole – dalla conferenza di Madrid del 1991. I funzionari Uri Raznik del Consiglio di sicurezza nazionale israeliano e l’ex ambasciatore libanese negli Stati Uniti, l’avvocato Simon Karam – due diplomatici, nessuno dei due di rango militare – si sono incontrati a Naqura, sotto una forte pressione americana, per fare il punto sul cessate il fuoco proprio in uno dei momenti di rinnovata massima tensione su quel fronte. L’obiettivo, secondo gli analisti, è di creare almeno l’apparenza di un percorso verso la normalizzazione tra i due Paesi, nel reciproco «interesse strategico», secondo l’inviato speciale degli Stati Uniti per il Libano, Morgan Ortagus e l’ambasciatore Usa a Beirut, Michel Issa. L’incontro «si è svolto in un clima favorevole» per l’ufficio del primo ministro Netanyahu. E si è concordato che sarebbero state formulate «idee per promuovere una possibile cooperazione economica». Il primo ministro libanese, Nawaf Salam ha precisato che il dialogo economico è subordinato al piano di pace arabo del 2002: «La normalizzazione seguirà, ma non ci siamo ancora arrivati». Israele ha ribadito che il disarmo di Hezbollah è «obbligatorio», indipendentemente dall’avanzamento del dossier sul business. Entrambe le parti si sono impegnate per colloqui di follow-up. Mentre si rincorrono annunci (del Cogat israeliano) e smentite (dell’intelligence egiziana) su un’imminente riapertura del valico di Rafah – per consentire ai palestinesi di lasciare Ga2a secondo i primi, ma non finché potrà essere garantito il traffico in entrambe le direzioni in conformità con il piano Trump secondo gli altri – cinque soldati israeliani di stanza nell’area più meridionale della Striscia sono stati feriti da terroristi di Hamas sbucati fuori da un tunnel. Netanyahu ha convocato una riunione d’urgenza per discutere la risposta all’imboscata. Secondo una dichiarazione del Segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, a Reuters: «l’obiettivo (di Israele, ndr) era distruggere Hamas. Ga2a è distrutta, ma Hamas non ancora. Quindi c’è qualcosa di fondamentalmente sbagliato nel modo». Una nuova inchiesta della Cnn accusa l’esercito israeliano di aver sepolto cadaveri di ga2awi uccisi mentre aspettavano aiuti umanitari «in fosse comuni improvvisate e non contrassegnate» oppure di averli «abbandonati in decomposizione all’aperto». L’esercito israeliano ha sempre sostenuto di non aver sparato «intenzionalmente a civili innocenti» e ha negato di aver seppellito palestinesi in fosse comuni. Dopo aver verificato che i resti consegnati martedì da Hamas non appartenevano a nessuno degli ultimi due ostaggi trattenuti a Ga2a, l’istituto forense di Tel Aviv sta esaminando le spoglie di un ulteriore corpo, dato ieri.
Primi colloqui diretti tra Israele e Libano ma Beirut frena su apertura
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di R. Es.
Primi colloqui diretti tra Israele e Libano ma Beirut frena su apertura
Prima l’apertura, poi la frenata dal fronte opposto. Il governo israeliano ha confermato, ieri, colloqui diretti con funzionari libanesi nell’ambito del «meccanismo di verifica»: il sistema di monitoraggio sull’accordo di cessate il fuoco siglato nel 2024 nel conflitto con i miliziani sciiti di Hezbollah, presidiato da funzionari militari di Israele, Libano, Usa e Francia e membri delle forze di pace Onu. Il faccia a faccia si è svolto nella sede delle Nazioni Unite di Naqoura e ha rappresentato il primo confronto diretto fra i due Paesi dopo decenni di rottura diplomatica, lasciando trasparire ipotesi di una apertura nei rapporti. Nel tardo pomeriggio è arrivata la frenata del primo ministro libanese Nawaf Salam: i legami con Tel Aviv sono «lontani» dall’essere normalizzati, ha dichiarato, scontrandosi con gli annunci del premier israeliano Benjamin Netanyahu sull’invio di un diplomatico per trattative su un «tentativo iniziale di creare le basi per relazioni e una cooperazione economica». I rapporti sul fronte economico, ha detto Salam, potrebbero ripristinarsi dopo un processo di normalizzazione vincolato da Beirut all’adesione del piano arabo di pace del 2002. «Ma non ci siamo per niente», ha chiarito Salam, aprendo comunque su altri fronti di dialogo. Uno è la disponibilità a lasciare che le truppe statunitensi e francesi «verifichino» le proprie preoccupazioni su depositi di armamenti di Hezbollah nel sud del Libano. Il secondo è l’assenso alla proposta egiziana di una de-escalation di tensioni fra Libano e Israele, anche se sempre sul versante militare e senza la normalizzazione accennata da Israele e ricompresa nell’agenda mediorientale spinta dal presidente Usa Donald Trump. L’altro scenario che ha tenuto banco ieri è la proposta israeliana di riapertura del valico di Rafah, uno snodo vitale per l’afflusso di aiuti umanitari e il transito di richiedenti asilo fra la Striscia e il Cairo. Tel Aviv ha annunciato la riapertura del valico nei prossimi giorni e la possibilità di fuoriuscita dei gazawi alla volta dell’Egitto, in «coordinamento» con il Cairo, dopo il via libera delle autorità israeliane e sotto il monitoraggio dell’Unione europea. Le autorità del Cairo, citate dai media israeliani, hanno smentito qualsiasi interlocuzione con Tel Aviv in materia e posto un «veto» sulla riapertura «unilaterale» di Rafah. Le tensioni rimangono anche su campo, fra gli ultimi scampoli della vicenda sulla restituzione dei (due) cadaveri degli ostaggi ancora nelle mani di Hamas e nuove vittime sul fronte. La Croce Rossa ha consegnato alle Forze di difesa israeliane e allo Shin Bet presenti nella Striscia di Ga2a la salma dell’ostaggio rinvenuto da Hamas e Jihad islamica nel nord dell’enclave palestinese, dopo che i «resti» delle vittime consegnate martedì non sono stati attribuiti né al cittadino thailandese Sudthisak Rinthalak né all’ufficiale di polizia Ran Gvili. Ora, scrive l’ufficio del primo ministro, «la bara sarà trasferita in Israele, presso il Centro nazionale di Medicina legale del ministero della Salute», e che dopo «l’identificazione, e in base ai risultati, verrà fatto un annuncio ufficiale alla famiglia». Sul campo, il ministero della Salute di Ga2a ha parlato ieri di 357 palestinesi uccisi solo nei primi 50 giorni dall’avvio della tregua lo scorso 10 ottobre. Le Israel defense forces dichiarano che cinque soldati israeliani sono rimasti feriti, di cui uno in modo grave, negli scontri a Rafah, nel sud della Striscia di Ga2a. Netanyahu promette vendetta: «Hamas ha violato la tregua – ha dichiarato – Risponderemo».
Con Israele lotta un arabo cristiano
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di Costanza Cavalli
Con Israele lotta un arabo cristiano
Ci sono due modi di vivere nel nord di Israele e, che si sia chiamati all’uno o all’altro, bisogna essere pronti. «La questione non è se arriverà la guerra, ma quando», dice un ufficiale militare delle Forze di Difesa israeliane in forza al Comando settentrionale. Niente foto e tutto fuori taccuino, Hezbollah ha messo una taglia sulla sua testa: sul monte Adir, nell’Alta Galilea, a mille metri di altezza, si vive così. Di fronte, si sdipana il confine, segnato da un muro. Non ce ne sarebbe bisogno: di qua è tutto verde, ci sono le querce e gli arbusti della macchia mediterranea, di là è spoglio, rasato e terroso. «Le nostre montagne sono una riserva naturale», spiega l’ufficiale, «i libanesi invece lasciano pascolare le pecore». La cima della montagna è chiusa ai visitatori: c’è una base delle Idf, si vedono le antenne. A est si trovano le Alture del Golan, spostando lo sguardo verso nord c’è il Monte Hermon, al limitare tra Israele, Siria e Libano. Il Mediterraneo è a ovest. Da qui parte il fronte unico che, secondo gli ultimi report, Gerusalemme sta cercando di costruire per collegare il Libano meridionale al sud della Siria. Due teatri, un unico arco offensivo. L’ufficiale lo dice sul campo: «Se Hezbollah se ne andasse non avremmo più niente da fare qui, raggiungeremmo la pace nel giro di un’ora. Non abbiamo interesse a invadere o occupare il Libano, vogliamo solo che questa area diventi tranquilla. Ma Hezbollah è e rimarrà una minaccia». Sul fronte diplomatico, l’inviato speciale americano per la Siria, Tom Barrack, durante una visita in Iraq, ha avvertito di un’imminente operazione israeliana in Libano contro la milizia sciita filo-iraniana per disarmarla. Si avvicina la scadenza dell’ultimatum fissato dagli Stati Uniti e Israele perché il Libano presenti passi concreti sull’abbandono degli armamenti da parte dei miliziani e Washington è stata chiara: ogni futuro sostegno finanziario e militare a Beirut è legato alla smilitarizzazione di Hezbollah. Gli intoppi, però, sono tre. Il primo è che il nucleo dell’ideologia di Hezbollah sta nella “resistenza armata” contro Israele. La lotta non è un mezzo, ma l’identità. Il partito, cioè, per essere considerato un interlocutore affidabile, dovrebbe essere ricostruito dalle fondamenta. Il secondo, spiega la fonte, è che «le forze armate libanesi e Hezbollah fanno parte della stessa famiglia. In una famiglia libanese capita che un fratello si arruoli nell’esercito e un altro imbracci un mitra per il Partito di Dio». A disarmare Hezbollah si corre quindi il rischio di provocare una guerra civile. Il terzo è che a un anno dall’entrata in vigore del cessate il fuoco i miliziani stanno ricostruendo le proprie capacità, contrabbandando missili oltre il confine siriano e ripristinando posizioni e basi. Come? Oltre ai metodi di finanziamento tradizionali – traffico di droga, diamanti e riciclaggio di denaro – grazie ai soldi dell’Iran. La Forza Quds della Repubblica Islamica dell’Iran ha contrabbandato oltre un miliardo di dollari verso Hezbollah attraverso gli Emirati Arabi Uniti da gennaio di quest’anno, ha riportato giovedì il Wall Street Journal, citando il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti. La maggior parte dei denari arrivano dai guadagni delle vendite di petrolio iraniano e passano attraverso negozi di cambio, aziende, corrieri in stanza a Dubai. Da lì arrivano ai contrabbandieri in Libano. Altri fondi passano da Turchia e Iraq. E l’Onu? «Ci siamo fidati, ma a vent’anni di distanza (dalla seconda guerra del Libano, scoppiata nell’estate 2006, ndr), possiamo constatare che i Caschi blu, che dovranno abbandonare il Paese dei cedri l’anno prossimo, non hanno compiuto la loro missione. Le ostilità non sono cessate». L’ufficiale non è l’unico che non si fida. Jerry (sic.) saluta, chiacchiera, mangia, sorride, tutto con un M16 a tracolla: nel kibbutz Sasa, all’estremo nord dell’Alta Galilea, si vive così. È arabo, cristiano melchita, gestisce un pub irlandese, difende gli israeliani. Arriva dall’unico centro cristiano del Medio Oriente, Fassuta. Si vede dall’autostrada, su una collina, segnalato da una croce tutta lucine che potrebbe star bene a Las Vegas. A Sasa il 7 ottobre i missili Kornet di Hezbollah hanno danneggiato la biblioteca, una parte del liceo e l’Auditorium. Il confine con il Libano è distante poco più di un chilometro. «Le sirene della contraerea scattano dopo l’esplosione dei razzi, tanto i miliziani sono vicini», ha raccontato Angelica Edna Calò Livne, «In caso di attacco diretto avremmo sette secondi per entrare nel bunker: è come non averlo». È nata nel quartiere Testaccio, ma casa sua è qui da cinquant’anni, ha quattro figli, tre dispiegati nella Striscia, insegna Teatro all’università di Tel Hai a Kiryat Shmona. «Prima della guerra eravamo 450 abitanti, adesso siamo una cinquantina, tra responsabili della sicurezza e chi non se ne vuole andare». Lei è rimasta per suo marito Yehuda, un figlio del kibbutz, a capo della squadra di emergenza. La comunità ha una cassa comune in cui finiscono gli stipendi e i proventi delle attività, le decisioni sono prese dall’assemblea degli abitanti. La mensa, in cui si mangia a colazione e a pranzo, è gratuita. Le utenze vengono pagate attraverso il fondo. Tutti possono studiare fino al dottorato. Socialisti e collettivisti. «Non rinuncio a credere nella pace», ha detto Edna, «e non me ne vado». Ha le mele da raccogliere, «le pink lady, le più buone del mondo», e i kiwi. La frutta è la principale entrata del bilancio del kibbutz: 90 ettari, in media tremila tonnellate l’anno. La seconda voce è la Plasan, azienda leader mondiale nella progettazione, sviluppo e produzione di blindature per veicoli terrestri, aerei e navi delle forze armate.
Hamas restituisce un altro corpo attesa per il riconoscimento
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di Redazione
Hamas restituisce un altro corpo attesa per il riconoscimento
I resti di quello che dovrebbe essere un ostaggio israeliano sono stati consegnati ieri da Hamas alla Croce rossa, che li ha trasferiti all’esercito israeliano. Il processo di identificazione potrebbe durare fino a due giorni. Se sarà confermato che il corpo appartiene a un ostaggio, a Ga2a resterebbe quello di un solo prigioniero del 7 ottobre. Finora sono stati restituiti tutti i corpi, a eccezione di quelli del sergente maggiore Ran Gvili e del cittadino thailandese Sudthisak Rinthalak. Il piano Trump prevede che solo dopo la restituzione di tutti corpi si passi alla fase due della tregua.