Rassegna stampa del 5 dicembre 2025
La rassegna odierna offre un quadro articolato del dibattito italiano e internazionale su Israele.
Il Giornale apre con l’analisi di Fiamma Nirenstein sull’asse Germania-Israele, letta come un nuovo pilastro della sicurezza occidentale. Sul fronte politico interno, Repubblica e Corriere convergono sullo scontro nel Pd attorno alla proposta Delrio contro l’antisemitismo, sottolineando tensioni e reticenze. Il Messaggero e Gazzetta del Mezzogiorno raccontano invece il clima nelle città italiane, tra iniziative civiche e nuove forme di attivismo. In parallelo, Libero e La Verità proseguono il lavoro di ricostruzione delle reti legate a Hamas e delle infiltrazioni nelle Ong. Sul fronte più critico spiccano Fatto Quotidiano e l’Unità, che insistono su narrazioni marcatamente ostili verso Israele.
La giornata mostra dunque un ventaglio che va dall’analisi geopolitica alle letture più radicalizzate, riflettendo un panorama informativo altamente polarizzato.
L`asse tra Germania e Israele per difendere il mondo libero
Nirenstein ricostruisce la scelta tedesca di rafforzare l’alleanza con Israele come atto di responsabilità strategica verso l’Europa e la sicurezza globale. L’articolo intreccia memoria storica, minacce contemporanee e necessità di cooperazione, smontando le narrative che isolano Israele e lo rappresentano come attore destabilizzante. Preciso, argomentato e ricco di contesto: è il contributo più solido e utile della giornata, capace di restituire una lettura realistica dell’assetto geopolitico.
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di Fiamma Nirenstein
L`asse tra Germania e Israele per difendere il mondo libero
Se mai un segno nel cielo, un simbolo, dovesse segnalare all’Europa la magnitudine dell’orrore in cui è caduta con l’antisemitismo che la scuote tutta come in una crisi epilettica, esso viene dalla base aerea di Holzdorf, in Germania, non lontano da Berlino. Là si è svolta la cerimonia in cui il direttore generale del ministero della difesa israeliano, Amir Baram, ha consegnato al capo della difesa tedesca Generale, Holger Neumann, il sistema di difesa Arrow, venduto al governo tedesco per 3,6 miliardi di dollari. La Germania, che nel passato ha avuto la maggiore responsabilità nella più terribile persecuzione del popolo ebraico, l’eccidio dei sei milioni della Shoah, segnala a tutta Europa, anche dopo un periodo di incertezze umanitarie non lineare durante la guerra e prima con Angela Merkel, che la migliore difesa, e l’Europa ne discute ogni giorno senza concludere, la si organizza quando l’occidente giudaico cristiano si coalizza: qui, si tratta dell’acquisto da parte della Germania, cuore dell’Europa e parte della Nato, dell’arma geniale inventata dal popolo ebraico per ripararsi dal gesto genocida che la perseguita ormai da anni, il lancio di missili: il sistema anti missili balistici Arrow. Il sistema Hetz la Germania l’aveva già comprato, ripara dai missili a lungo piovuti su Israele: quelli di Hamas, di Hezbollah, degli Houthi. Il nuovo sistema è quello che ha riparato dai missili balistici dell’Iran e degli Houthi, nella maggior parte ridotti in cenere prima di toccare terra. Il sistema li intercetta e distrugge a grande altitudine, fuori dell’atmosfera, perché non possano avere ricadute di inquinamento radioattivo e chimico. Molte potenze desiderano il sistema, provato da migliaia di ore operative: è il pinnacolo di una ricerca di 30 anni che oggi crea persino un nuovo sistema laser, l’Iron Beam, che si impianta in questi giorni in Israele. L’Arrow fornirà investimenti, centri di ricerca, posti di lavoro. Israele ha deciso di darlo solo alla Germania: il sistema non è vendita tecnologica, è una partnership con Gemania e Nato. Lo spiega bene Ran Cochavi ex capo dell’aviazione: «La guerra in Ucraina ha provato che l’Europa ha bisogno di difendersi, e Arrow è l’unica soluzione». La Germania, durante la durissima guerra di difesa di Israele dopo il 7 ottobre, non si è lasciata andare alle menzogne sui crimini di guerra e sul genocidio. Non si può dire che sia stata di sostegno ma ha dimostrato di non soffrire di una perdita di capacità cognitiva come tutti gli accusatori antisemiti che si sono dedicati a criminalizzare Israele basandosi su numeri, informazioni, personaggi fasulli. Un episodio solo apparentemente marginale connette i puntini della difesa del mondo giudaico cristiano: la Germania aveva dichiarato che, se Israele non fosse stata ammessa all’Eurovision, non avrebbe partecipato né avrebbe trasmesso il programma ai suoi 82 milioni di cittadini. Ieri sera, bella sorpresa, a Ginevra dove si discuteva, la decisione è stata di non votare, e quindi Israele entra nella gara. La Gemania sotto banco ha vinto: invece la Francia, l’Irlanda, l’Olanda, la Slovenia, l’Islanda, che avevano minacciano di non partecipare se Israele fosse stata ammessa, che faranno adesso? I loro 74 milioni di telespettatori non vedranno la tv? Ma nel caso disgraziato di bisogno, certo saranno ben lieti di essere protetti dalla difesa di Arrow.
Israele confermata all’Eurovision. E quattro Paesi lasciano la gara
La cronaca racconta la conferma di Israele all’Eurovision e il ritiro di alcuni Paesi per protesta, senza adottare toni militanti. Il pezzo espone i fatti in modo lineare ma rinuncia ad approfondire le ragioni politiche e mediatiche dietro le defezioni, ignorando il ruolo delle campagne anti-israeliane che hanno accompagnato il dibattito. Corretto ma superficiale: non ostile, non schierato, ma privo del contesto necessario.
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di Davide Frattini
Israele confermata all’Eurovision. E quattro Paesi lasciano la gara
Israele partecipa all’Eurovision dal 1973, l’anno in cui aveva rischiato di perdere una delle sue tante guerre. È stato il primo Paese non europeo a essere ammesso alla competizione, da allora l’ha vinta quattro volte. Adesso quattro nazioni tra le fondatrici del festival canoro internazionale si rifiutano di partecipare all’edizione dell’anno prossimo dopo che un voto segreto ha confermato l’ammissione dello Stato ebraico: l’invito era stato messo in dubbio dopo gli oltre due anni di guerra a Gaza e gli oltre 70 mila palestinesi uccisi. La Spagna, l’Irlanda, la Slovenia e l’Olanda hanno già annunciato il boicottaggio, il Belgio e l’Islanda ci stanno pensando. Isaac Herzog, il presidente israeliano, ha elogiato la decisione di permettere la presenza israeliana: «La nostra nazione merita di essere rappresentata su qualunque palcoscenico nel mondo». Alla sua esuberanza fin troppo ottimista replicano le parole degli olandesi: «La cultura unisce, ma fino a un certo punto. Questo lungo periodo di guerra ha testato i limiti di quello che è accettabile. Il rispetto dell’umanità e della libertà di stampa sono stati danneggiati». L’Irlanda ha definito la partecipazione «moralmente impossibile». Mentre la Germania e l’Austria, che ospita l’edizione avendo vinto l’anno scorso, hanno minacciato di essere loro ad andarsene, se venisse impedita l’esibizione di Israele. La Spagna è tra gli sponsor finanziari più grandi dello show e la sua assenza metterebbe a rischio tutta l’organizzazione. «Eurovision è una competizione, ma i diritti umani non lo sono», hanno commentato i dirigenti della tv pubblica da Madrid. «Il governo a Gerusalemme continua a fare un uso politico dello spettacolo per ripulire la sua immagine sulla scena internazionale». In un Paese da sempre in guerra, le edizioni dell’Eurovision si sono già sovrapposte a un conflitto in corso. Sette anni fa, nel giorno in cui l’israeliana Netta Barzilai ha vinto il concorso, oltre cento palestinesi sono stati uccisi dai cecchini mentre marciavano contro la barriera che li divide da Israele. Sugli schermi televisivi divisi a metà si era creato un effetto distopico in diretta: i ragazzi che si gettavano nella fontana più grande di Tel Aviv tra le bolle di sapone per festeggiare la cantante, mentre i coetanei arabi morivano a 50 chilometri di distanza.
“Boicottare israele, gli studenti fanno bene”
Il pezzo legittima apertamente il boicottaggio accademico contro Israele, presentandolo come scelta “giusta” e senza alcuna analisi delle responsabilità di Hamas, delle manipolazioni informative o del contesto di sicurezza. L’articolo propone una lettura militante e unilaterale, priva di fonti plurali e costruita su slogan che ignorano la complessità reale del conflitto. È il testo più sbilanciato e ideologico della rassegna di oggi.
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di S. C.
“Boicottare israele, gli studenti fanno bene”
Se chiedi a Massimo D’Alema di dire una cosa di civiltà, oggi non avrebbe dubbi: “Boicottare Israele”. L’ex primo ministro, oggi fuori dal Pd, chiudendo il convegno organizzato dall’associazione bersaniana Compagno è il mondo, su questo è netto: “Ho visto al supermercato una signora che ha riposto sullo scaffale un prodotto made in Israele. Mi sono complimentato: si fa così!”. E non meno netto è stato sulle proteste giovanili a fianco della Palestina: “I ragazzi che lo dicono, che protestano nelle università e che vengono aspramente rimproverati, hanno perfettamente ragione: sono l’ultimo baluardo della civiltà europea”. Pressando da sinistra il Pd, D’Alema e compagni spiegano che sulla Palestina “molti giovani decideranno se andare a votare, i Dem Usa se ne sono accorti” e poi invita a sfruttare i varchi offerti dal piano Trump su Ga2a: “La forza di interposizione e la possibilità di un governo palestinese, per quanto traballante ”. Servono volti nuovi “e credibili” fuori anche dalla “logorata le adership dell’Anp”. Peppe Provenzano, responsabile Esteri del Pd, rivela che un possibile premier tecnico potrebbe essere Nasser al Qudwa, nipote da Arafat e poi invita anch’egli a “sfruttare l’accordo di Trump per sconfiggere Hamas e Netanyahu”. Ma D’Alema alza ancora l’asticella: l’unica possibilità di pace mondiale sarebbe data da un’intesa Ue-Cina. Ma Pechino è oggi “una potenza riluttante”. E l’Europa non è pervenuta.
Economia del genocidio, Ormai c`è chi ne parla
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di Umberto De Giovannangeli
Economia del genocidio, Ormai c`è chi ne parla
L’Unrwa fa sapere che i palestinesi superstiti sopravvivono tra 7mila tonnellate di ordigni inesplosi. Otto su dieci vivono in tende o tra le macerie U.D.G. Le condizioni di vita a Gaza sono tornate indietro di 20 anni, come conseguenza della guerra tra Israele e Hamas. Lo ha dichiarato l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi (Unrwa), sottolineando di aver bisogno di «tutte le risorse e le capacità possibili» per rispondere agli «immensi bisogni» di Gaza. Otto persone su dieci tra i sopravvissuti, vivono in tende o tra le macerie, in mezzo a 7mila ordigni inesplosi e 60 milioni di tonnellate di dretiti. Le condizioni di vita a Gaza sono tornate indietro di 20 anni, come conseguenza della guerra tra Israele e Hamas. Lo ha dichiarato l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi (Unrwa), sottolineando di aver bisogno di «tutte le risorse e le capacità possibili» per rispondere agli «immensi bisogni» di Gaza, le cui condizioni di vita «si stima siano tornate indietro di oltre 20 anni». L’agenzia ha assicurato di continuare a lavorare «senza sosta» nell’enclave e ha sollecitato l’ingresso dei suoi aiuti umanitari, ai quali Israele, a suo dire, non ha consentito l’ingresso diretto a Gaza per nove mesi. Nei due anni di massicci bombardamenti israeliani, 70.000 tonnellate di esplosivi sono state sganciate su Gaza. Secondo l’agenzia Onu per l’Azione contro le Mine (Unmas) il 5-10 percento di queste munizioni, lanciate da Israele o abbandonate da Hamas, non sono ancora esplose: tra 3.500 e 7.000 tonnellate di ordigni rimangono sparse tra case, ospedali e scuole. Per i palestinesi sfollati all’interno dell’enclave che stanno tornando a casa con il cessate il fuoco, ciò significa imparare a vivere tra i resti della guerra che minacciano di esplodere da un momento all’altro. Per il rappresentante dell’Unmas, Julius Van Der Walt, i rischi associati agli ordigni inesplosi sono «immensi», non solo per i due milioni di abitanti dell’enclave, ma anche per le operazioni umanitarie e gli sforzi di recupero. «Gli ordigni non esplosi sono una delle minacce più indiscriminate in qualsiasi conflitto, poiché non distinguono tra un operatore umanitario, un civile o un soldato – ha detto Van Der Walt – la loro presenza mette tutti a rischio allo stesso modo». Oggi, secondo l’Unmas, più di 60 milioni di tonnellate di macerie coprono Gaza e, nascosti in queste rovine, le migliaia di ordigni inesplosi rappresentano un pericolo costante, soprattutto per i bambini. Secondo l’Onu, quasi tutti gli edifici residenziali sono stati danneggiati o distrutti dagli attacchi israeliani. In queste condizioni, quasi l’80% della popolazione ora vive in tende improvvisate o in mezzo alle macerie e la carenza di rifugi sicuri sta spingendo molte famiglie a stabilirsi vicino ad aree sospettate di contenere esplosivi. In totale, più di 400 persone sono state coinvolte in incidenti causati da ordigni inesplosi, secondo l’Unmas. Almeno sei persone sono rimaste uccise nei raid israeliani di mercoledì sera a Khan Younis, nel sud della Striscia di Gaza, secondo quanto riportato da media palestinesi. Dall’inizio del cessate il fuoco, nella Striscia di Gaza, sarebbero stati uccisi oltre 340 palestinesi. Almeno 11 palestinesi sono rimasti feriti in diversi attacchi da parte di coloni in Cisgiordania. Lo ha riferito l’agenzia di stampa palestinese Wafa, rilanciata da Times of Israel. Un episodio di violenza è stato registrato a nord di Hebron, dove coloni dell’insediamento di Karmei Zur hanno aggredito contadini palestinesi con pietre, manganelli e gas lacrimogeni, ferendone sette che sono stati trasportati all’ospedale di Halul. E la chiamano pace.
Non vogliamo censurare i pro-pal
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di Andrea Fabozzi
Non vogliamo censurare i pro-pal
Caro Direttore, le critiche di Della Seta mi permettono di chiarire alcune cose. Intanto fa piacere che si riconosca con forza l’importanza e l’urgenza di affrontare il problema serio dell’antisemitismo. Un fenomeno in crescita esponenziale che non riguarda una minoranza ma la qualità stessa della democrazia. Quando una persona è costretta a nascondere la propria identità, la propria religione e le proprie idee per paura di essere insultata o emarginata come successo a tanti italiani di origine ebraica in questi anni il problema va contrastato con il massimo rigore. Almeno su questo siamo d’accordo e auspico un lavoro comune del parlamento che è la sede giusta per affrontare questo problema. Poi però viene sostenuto che con l’utilizzo della definizione della Ihra io spalancherei la porta della censura alle critiche contro il governo criminale di Netanyahu. La definizione di antisemitismo è da noi usata perché assunta dal Parlamento Europeo nel 2017 e dal governo Conte nel 2020: peraltro non le diamo forza di legge, a differenza degli altri progetti, proprio perché molto discussa sia da chi la giudica debole e da chi la giudica eccessiva. È però la definizione che la Repubblica Italiana sta utilizzando nelle strategie contro l’antisemitismo. Non introduciamo nulla di nuovo. Se si è potuto criticare Israele e se voci autonome come quelle citate di Foa o Lerner si sono levate liberamente (anche modestamente la mia nella aula del Senato più volte) lo si potrà continuare a fare legittimamente. Sinceramente dovremmo guardare alla luna, l’antisemitismo, e non al dito cioè alla definizione. E parlando della luna Della Seta dice: «diversamente dalla proposta di Gasparri il disegno di legge Delrio non punisce con la galera chi scrive o dice parole ma in parte fa di peggio: …delega il governo a varare uno o più decreti legislativi con prescrizioni all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom)». Qui proprio non si capisce come la galera possa essere ritenuta meglio rispetto alla rimozione o segnalazione di una foto o di un video on line. Sono sicuro che non sfugge la differenza tra libertà di espressione e hate speech/incitamento all’odio. Quest’ultimo è già illegittimo, in particolare, quando riguarda contenuti antisemiti sia nel nostro ordinamento che in tutta Europa. Semplicemente il disegno di legge dettaglia meglio i doveri delle piattaforme on line e i diritti degli utenti, per rafforzare gli strumenti di contrasto previsti nella Strategia nazionale, vista la diffusione enorme di contenuti antisemiti. Come ha ricordato la Commissione Segre «gran parte dell’antisemitismo si è spostato sul web, dove appare meno visibile, ma è più capace di entrare nel linguaggio dominante, inserendosi nella quotidianità e normalizzando il linguaggio d’odio». Certo questo intervento legislativo garantisce un intervento tempestivo su un fenomeno illegale non una censura di opinioni. Il secondo aspetto di cui si occupa il nostro progetto di legge riguarda la scuola e l’università. Non si introduce affatto, come sostenuto, un controllore delle opinioni, anzi. Le figure previste sono deputate a aiutare le azioni previste dalla Strategia nazionale contro l’antisemitismo già in vigore. A conferma di ciò si dice all’articolo 3 che vogliamo la tutela e la «promozione dell’esercizio della libertà della ricerca e di insegnamento in ambito universitario», ossia una libertà garantita dalla Costituzione. La scienza non può diventare un passaporto o essere giudicata dalla nazionalità, ma creare comunicazione e incontro fra diversi. Un investimento per garantire che le Università siano il tempio del confronto e del dialogo e non della censura. Quindi ciò che «suona illegittimo» sono le forme di ostracismo che subiscono i professori universitari che vogliono confrontarsi: lezioni interrotte, interventi sabotati o disertati, inviti ritirati. L’antisemitismo, come tutte le discriminazioni razziali, è un attacco all’edificio democratico perché colpisce l’idea
che ogni essere umano, indipendentemente dalla sua origine e religione, abbia diritto alla dignità e alla libera espressione della propria identità. Va combattuto presto e insieme. Nessuno vuole censurare le critiche e le opinioni più che legittime contro le politiche inaccettabili del governo israeliano, critiche che si sono levate libere dalle piazze di Israele e di tutto il mondo. Graziano Delrio II Caro Delrio, la ringrazio per l’attenzione, ha a disposizione un archivio gratuito di 55 anni e non è certo dall’ultimo articolo che abbiamo pubblicato, tantomeno se a firmarlo era Roberto Della Seta, che può scoprire quanto l’antisemitismo sia per il manifesto odioso e vada contrastato a fondo. Con gli strumenti adeguati: la definizione che lei ha scelto – e ha richiamato nel testo di legge – non lo è. È invece utilissima a contrastare ogni tipo di critica allo stato di Israele e al suo governo nonché ad accusare di antisemitismo il movimento di solidarietà con la Palestina e contro il genocidio. È per questo che viene continuamente richiamata ed è per questo che esiste una definizione alternativa, redatta da storici ebrei, che distingue nettamente l’una dall’altra. Alzare la voce, manifestare, battersi in ogni modo contro il governo genocida di Netanyahu non è una possibilità da concedere con le dovute cautele. È l’unica opzione umana che abbiamo a disposizione e confonderla con l’antisemitismo, così come equiparare in tutto l’antisemitismo con l’antisionismo, vuol dire alienarsi questa opzione. Precisamente quello che vogliono Netanyahu e i suoi complici. È la luna, non il dito. Per me non ci sono dubbi: il governo Conte II ha sbagliato ad adottare a livello di Consiglio dei ministri la definizione Ihra. Quell’adozione è rimasta sulla carta, tant’è che la sua non è l’unica proposta di legge che parte con il proposito di renderla effettiva (le altre sono di Forza Italia, Lega e renziani). Fatto quello, non c’è buon proposito che sia credibile: ogni critica allo stato di Israele fuori o dentro l’Università rientrerebbe per legge nella categoria dell’antisemitismo. Che è un orrore, come tutti i razzismi, che per essere combattuto non ha bisogno di confusioni. Ma di qualche riflessione sincera, magari a partire dalla repulsione che suscita l’impunità che viene garantita al governo di Israele, io credo di sì.
I corpi dei palestinesi spianati dai bulldozer
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di Chiara Cruciati
I corpi dei palestinesi spianati dai bulldozer
I corpi dei palestinesi spianati dai bulldozer. Inchiesta della Cnn sui centri della Ghf: sfigurati e gettati in fosse comuni dai soldati israeliani. Ucciso il collaborazionista Abu Shabab. Un’inchiesta della Cnn svela le orribili pratiche di occultamento dei corpi del palestinesi uccisi l’estate scorsa nei centri della Ghf statunitense: i cadaveri spianati dai bulldozer e seppelliti in fosse comuni. Intanto a Gaza è stato ucciso il collaborazionista Yasser Abu Shabab. La più grande, Ghada, aveva 46 anni; il più piccolo Bilal appena otto. E poi Fatehi, 36 anni, Israa, 30, e Mohammed, dieci. Tutti i membri della famiglia Abu Hussein, cancellata da un raid israeliano che ha centrato la loro tenda nel campo profughi di Al-Mawasi, nel sud di Gaza. Li ha sorpresi di notte, tra mercoledì e ieri. Quattro missili sganciati da un drone e «spiegati» dall’esercito israeliano come risposta a uno scontro a fuoco avvenuto ore prima tra le sue truppe e membri di Hamas. IN QUALCHE MODO era stato lo stesso primo ministro israeliano Netanyahu a dettare pubblicamente la politica che guida Tel Aviv: «Tolleranza zero per chi colpisce i nostri soldati». Che è poi la stessa a cui si assiste da due anni, e nei decenni precedenti, e che è stata riassunta dal portavoce della protezione civile di Ga2a, Mahmoud Basal: «Quanti altri massacri devono commettere perché tutti capiscano che quello che avviene a Ga2a è la presa di mira sistematica e diretta di civili?». NESSUNA TREGUA, dunque, né passaggio alla fase due nonostante le dichiarazioni di mercoledì del presidente Usa Trump, che insiste a indicare tempi stretti per la sua realizzazione senza però fornire dettagli. Resta fumosa, tra le altre cose, la composizione dell’International Stabilization Force (Isf), forza multinazionale che dovrebbe gestire la sicurezza a Gaza sotto il Board of Peace. Chi ne prenderà parte, cosa farà, non è dato sapere non perché non ce lo dicano ma perché la Isf è tuttora materia del contendere tra Israele e Turchia, in primis. Così Tel Aviv può permettersi di prendere tempo, violare per 600 volte la tregua in otto settimane e proseguire nella sua guerra a bassa intensità. La certificazione dello stallo l’ha dato il non-voto alla Knesset di ieri: doveva approvare il piano Trump (quello già legittimato dal Consiglio di Sicurezza Onu nonostante la sua palese illegalità), ma mancava il numero minimo di parlamentari per il boicottaggio del voto da parte del Likud, il partito di Netanyahu. IL PREMIER aveva chiarito la sua linea per il dopoguerra poche ore prima al New York Times: si è detto impegnato a reclutare collaborazionisti palestinesi che assumano il governo (ben poco sovrano) della Striscia. Come Yasser Abu Shabab, a capo delle Popular Forces, responsabili di estorsioni, saccheggi di aiuti, sostegno alle truppe israeliane, cattura di palestinesi poi ceduti all’esercito occupante e legami con l’Isis. Ricercato da Hamas e dagli altri partiti palestinesi, ieri Abu Shabab sarebbe stato ucciso in scontri intorno Rafah. Di dettagli certi al momento non ce ne sono. Canale 12 ha riportato della sua morte nell’ospedale Soroka a Be’er Sheva; l’istituto smentisce. Molti a Ga2a hanno celebrato la morte di Abu Shabab, per le strade e nelle tendopoli, accusandolo di tradimento. Tanto più dopo le ultime indiscrezioni che vogliono Usa e Israele intenzionati a utilizzare le milizie palestinesi filo-israeliane nella zona est, oltre la linea gialla, quel 60% di Ga2a da cui Tel Aviv non vuole ritirarsi e in cui Washington vuole avviare una ricostruzione parziale e punitiva. Intanto un’inchiesta della Cnn svela nuovi brutali dettagli della collaborazione israelo-statunitense a Gaza, quella che aveva assunto il volto sanguinario e disumanizzante della Ghf, la fondazione che la scorsa estate ha distribuito pacchi alimentari a costo della vita. Visionando immagini satellitari, video e raccogliendo le testimonianze di soldati israeliani, autisti dei camion di aiuti e sopravvissuti palestinesi, l’emittente ha rivelato la pratica israeliana di schiacciare con i bulldozer i corpi dei palestinesi uccisi mentre cercavano di procurarsi del cibo per poi seppellire i resti, indistinti e indistinguibili, in fosse comuni. In alcuni casi sono stati seppelliti tempo dopo, decomposti sotto il sole torrido o mangiati dai cani. Il triangolo delle Bermuda, lo ha definito un camionista: «nessuno sa cosa è successo lì, nessuno lo saprà mai». «UN SACCO DI CORPI intorno a te, disarmati – aggiunge un altro – con i cani che li hanno mangiati o giocano con le ossa e i teschi…è orribile».
Cercasi skipper e barche La Flotilla ci riprova
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di Francesca Galici
Cercasi skipper e barche La Flotilla ci riprova
La Flotilla riparte: non c’è una data ma ci sono già le «call» per la ricerca dei volontari da arruolare a bordo, che salperanno alla volta di Gaza. L’ipotesi più probabile è che la partenza sia in primavera, quando le condizioni del tempo e del mare saranno più clementi. «La nostra prima ondata ha mostrato che con l’azione collettiva ogni cambiamento è possibile. «Che dal mare possono partire gesti concreti di solidarietà, capaci di infrangere il silenzio e la complicità internazionale», si legge nel comunicato nel quale si annuncia la ricerca delle figure necessarie alla nuova missione Thousand Madleens to Gaza (Ita). Per partire alla volta della Striscia di Gaza servono innanzitutto barche: è una delle richieste presenti nella lista pubblicata dalle realtà che hanno lanciato l’appello, tra le quali risulta esserci anche Mediterranea Saving Humans, la Ong di Luca Casarini (foto) che opera nel Mediterraneo centrale per il recupero dei migranti, che ha condiviso il post nel proprio profilo. Nelle scorse missioni, Israele ha sequestrato tutte le imbarcazioni che facevano parte della Flotilla, ed è plausibile, se non certo, che farà lo stesso anche al prossimo giro, quindi non sarà facile trovare qualcuno disposto a immolare la propria imbarcazione. Il riferimento è al plurale, pertanto stanno cercando di costruire un’intera Flotilla e insieme alle barche servono i posti per l’ormeggio, possibilmente gratuito (anche se non viene specificato) e di conseguenza contatti con porti e marine, oltre a magazzini e spazi di stoccaggio. Per andar per mare necessitano di equipaggiamento marittimo di sicurezza e navigazione ma anche della manovalanza volontaria che è composta da «tecnici/e marittimi/e» come, dicono, «meccanici, rigger, carpentieri, fabbri, periti, portuali, ecc.» E ovviamente, skipper e marinai perché altrimenti le barche non riuscirebbero nemmeno a lasciare il porto. «Il team marittimo di TMTG ITA sta iniziando a tessere una rete di competenze, materiali e contatti sul territorio, per trasformare la solidarietà in capacità concreta?», scrivono nel comunicato e fanno appello ai propri seguaci e ammiratori: “Se puoi contribuire, se conosci realtà, collettivi o singol* (rigorosamente con l’asterisco inclusivo, ndr) che vogliono mettersi in gioco, spargi la voce e unisciti alla costruzione della flotta». Per candidarsi chiedono di inviare un form al quale farà seguito una call conoscitiva per valutare tutti gli aspetti della candidatura, incluso, presumibilmente, il livello di fedeltà e di dedizione alla causa pro Palestina. «Rompiamo assieme l’assedio Palestinese», è l’appello dei flotillanti». Oltre alla Ong di Casarini e all’organizzazione ufficiale «Thousand Madleens To Gaza Italy» risultano coinvolti in questo progetto, in base alle condivisioni sui propri profili, anche le organizzazioni: Europe Palestine Network, Milano in Movimento e F.lotta. «La solidarietà non è uno slogan: è una pratica. La seconda flotta dipende da tutti noi», conclude l’appello.
Si moltiplicano le aggressioni dei coloni israeliani in Cisgiordania
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di Enzo Ricci
Si moltiplicano le aggressioni dei coloni israeliani in Cisgiordania
Nuovi attacchi dei coloni israeliani in Cisgiordania. Almeno 11 palestinesi sono rimasti feriti. Le aggressioni con pietre, mazze e lacrimogeni sono avvenute a nord di Hebron, a ovest di Ramallah, a Qalqiya e a sud di Nablus. A Qalqilya, le Forze di difesa israeliane hanno arrestato due cittadini del posto e imposto il coprifuoco. Il governatorato ha annunciato ieri mattina su Facebook la sospensione delle attività negli uffici governativi, nelle scuole e negli asili per l’intera giornata. Israele “è determinato” a riportare a casa il corpo del sergente maggiore Ran Gvili, l’ultimo ostaggio ucciso ancora a Gaza. Lo ha assicurato il primo ministro Benjamin Netanyahu durante una riunione di governo per approvare il bilancio statale del 2026. La penultima salma restituita è quella del cittadino thailandese Sudthisak Rinthalak. Rinthalak, un bracciante agricolo thailandese di 42 anni, era stato assassinato dai miliziani guidati da Hamas vicino al kibbutz Be’eri il 7 ottobre 2023 e il suo cadavere era stato portato a Gaza dalla Jihad islamica. Israele cercherà palestinesi disposti a prendere il controllo della Striscia di Gaza. Al New York Times Netanyahu ha spiegato che “ci sono palestinesi a Gaza che attualmente combattono contro Hamas. Dicono: ‘Basta con la dittatura del terrore’. Vogliono controllare il proprio destino e penso che dovremmo dare loro una possibilità”. Il premier israeliano ha aggiunto che, nonostante le pressioni, non intende smantellare l’Autorità Nazionale Palestinese. Riferendosi alle bande e alle milizie sostenute da Israele nell’enclave palestinese, ha concluso suggerendo che “i palestinesi che combattono Hamas” potrebbero formare una leadership alternativa. La “missione” non sarà per niente semplice. Yasser Abu Shabab, leader della milizia palestinese anti-movimento islamico di resistenza denominata “Forze popolari”, è stato eliminato nella Striscia. Abu Shabab è morto per le ferite riportate in un ospedale nel sud di Israele. Insieme a lui hanno perso la vita in un’imboscata un gran numero di membri del suo gruppo e il comandante Ghassan al Duhine. Hamas, in precedenza, lo aveva accusato di collaborare con lo Stato ebraico. Il capo della fazione presa di mira stava introducendo clandestinamente veicoli a Gaza con l’aiuto dell’esercito israeliano e di un concessionario di automobili arabo-israeliano. Cambio al vertice del Mossad. Il consigliere militare di Netanyahu, Roman Gofman, prenderà il posto di David Barnea, che dovrebbe concludere il suo incarico a giugno, dopo aver completato un mandato di cinque anni. La Cina fornirà 100 milioni di dollari in aiuti per contribuire ad alleviare la crisi umanitaria a Gaza e sostenere gli sforzi di ricostruzione. Lo ha affermato il presidente cinese Xi Jinping nel corso di una conferenza stampa congiunta con il presidente francese Emmanuel Macron, dopo il loro incontro a Pechino. Le Forze di difesa israeliane (Idf) hanno condotto raid aerei sul Libano meridionale, dopo aver emesso un avviso di evacuazione per l’imminente avvio di un’operazione contro un’“infrastruttura militare” di Hezbollah. Gli aerei da guerra israeliani hanno “lanciato un attacco sulla città di Mahrouna”. Colpita anche una casa a Jbaa. L’esercito israeliano ha confermato di “aver iniziato a condurre attacchi contro obiettivi terroristici di Hezbollah nel Libano meridionale”. Il presidente israeliano Isaac Herzog partirà domenica per un viaggio di due giorni a New York, per dare sostegno alla comunità ebraica locale, allarmata per l’elezione di Zohran Mamdani a sindaco della città. “In un contesto di preoccupante aumento di episodi antisemiti sia da destra che da sinistra negli Stati Uniti”, ha dichiarato l’ufficio di Herzog, “e di fronte alla significativa preoccupazione espressa dalla comunità ebraica in seguito ai risultati delle elezioni del sindaco di New York, nelle sue apparizioni pubbliche il presidente affronterà le sfide che attendono gli ebrei americani”.Herzog pronuncerà il discorso principale alla 101ª cena annuale di Hanukkah della Yeshiva University, dove riceverà una laurea honoris causa. Sarà anche ospite d’onore all’Assemblea nazionale biennale del Movimento sionista americano. Il capo di Stato israeliano incontrerà parlamentari statunitensi e rettori di università americane.
Il video choc con Hamas: «Avete il diritto di resistere»
di Nn
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di Nn
Il video choc con Hamas: «Avete il diritto di resistere»
«Avete il diritto di resistere a questa occupazione» (israeliana) ribadiva nel 2002, Francesca Albanese, parlando in videoconferenza ad un evento su Gaza che ospitava figure di spicco di Hamas. Un concetto ribadito anche dopo il 7 ottobre dall’iniziale paladina di tutta la sinistra, oggi solo dello zoccolo duro dell’area dem. Il Giornale può rivelare la partecipazione della special rapporteur a un evento nella striscia tra i cui relatori c’erano delle figure apicali di Hamas designato come gruppo terroristico negli Stati Uniti, in Canada, nell’Unione Europea, in Australia e altri paesi. Era il novembre del 2022 quando al «16 Years of Siege on Gaza: Impact and Prospects» l’eroina dei pro Pal si è collegata intervenendo dopo Ghazi Hamad e Bassem Naim. Il primo è uno dei leader di Hamas, nato a Rafah 61 anni fa. Proprio lui che, intervistato dalla CNN, dopo l’attacco stagista di Hamas ha detto: «Sapete qual è il beneficio del 7 ottobre? Se guardate l’Assemblea Generale (delle Nazioni Unite), circa 194 membri hanno aperto gli occhi sulla brutalità di Israele, e lo hanno condannato. Aspettavamo questo momento da oltre 75 anni». Così come ha affermato che Hamas non ha alcun rimpianto per l’attacco del 7 ottobre nonostante le conseguenze per la Striscia di Ga2a. Il secondo, Naim, è un funzionario di Hamas palestinese, è stato Ministro della Salute nel primo governo Haniyeh (ucciso a Teheran nel 2024), poi Ministro della Gioventù e dello Sport nel governo di unità nazionale palestinese del marzo 2007. E suo figlio, Muhammad Naim, cittadino britannico, è stato arrestato a Londra a inizio novembre mentre nel contempo i servizi di sicurezza austriaci hanno scoperto e confiscato armi e materiale esplosivo. Difficile essere invitati in certi contesti senza essere conoscenza dei relatori, soprattutto se a partecipare all’evento sono figure apicali di una delle organizzazioni armate più potenti e radicate nel mondo palestinese, i cui arsenali (in parte) sono stati, appunto, scovati in Europa. Il timore che servissero per compiere attentati contro bersagli israeliani nel vecchio continente. Ma non è tutto, perché tra le slide trasmesse durante l’evento compare anche la «missione umanitaria» della Freedom Flotilla. Così come viene menzionata la «Womens’s boat to Gaza». La prima era la spedizione per cui proprio Mohammad Hannoun, ritenuto dal dipartimento del tesoro degli Stati Uniti d’America l’uomo di Hamas in Italia, si era speso, lanciando una raccolta fondi dal suo sito Infopal. Proprio gli Usa che hanno espresso sanzioni anche alla relatrice Onu: «Albanese si è impegnata direttamente con la Corte penale internazionale (CPI) nel tentativo di indagare, arrestare, detenere o perseguire cittadini degli Stati Uniti o di Israele, senza il consenso di questi due Paesi. Né gli Stati Uniti né Israele sono parte dello Statuto di Roma, il che rende questa azione una grave violazione della sovranità di entrambi i Paesi», aveva detto il Segretario di Stato Marco Rubio. Del resto, è difficile dimenticare che dopo questo provvedimento fu proprio Hamas a difendere la paladina dei pro Pal, affermando che l’imposizione di sanzioni da parte degli Usa fosse una palese espressione della palese parzialità dell’amministrazione statunitense nei confronti dei crimini di guerra sionisti, de
l suo disprezzo per le istituzioni delle Nazioni Unite e i loro rappresentanti, nonché dei rapporti pubblicati che documentano la catastrofe umanitaria creata dall’occupazione nella Striscia di Gaza. Non capita tutti i giorni di essere difesi dai terroristi, così come essere relatrice insieme a esponenti di Hamas. E si tratterebbe solo della punta dell’iceberg delle «relazioni» pericolose con Hamas. Chi consegna le chiavi delle nostre città e premi a Francesca Albanese sarà in grado di porsi almeno delle domande sul ruolo del rapporteur speciale dell’Onu?
Boccia, “lo smemorato” Pd su Israele
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di Redazione
Boccia, “lo smemorato” Pd su Israele
Il Pd e gli smemorati. Graziano Delrio presenta un disegno di legge per il contrasto all’antisemitismo. La sua proposta è semplice: adottare la definizione di antisemitismo data dall’IHRA (International Holocaust Remembrance Alliance) che qualifica come antisemita ogni critica radicale contro Israele. E’ una definizione che per Amnesty è controversa. E’ una proposta di legge di Delrio, un ex ministro che nel Pd ha fatto la bella battaglia contro l’antisemitismo. Si solleva il caso, a sinistra. Per Angelo Bonelli, “se questo testo diventasse legge, chi contesta radicalmente i comportamenti dello stato di Israele verrebbe definito antisemita e quindi sanzionato”. Il capogruppo del Pd al Senato, Francesco Boccia (davvero un gruppo come il Pd non aveva previsto la polemica?) reagisce e precisa che la proposta di Delrio “è a titolo personale”. E’ un modo per prendere le distanze. Delrio replica che “la definizione di antisemitismo è da noi usata perché assunta dal Parlamento europeo nel 2017 e dal governo Conte nel 2020”. Era il 17 gennaio 2020 e il governo Conte approva la definizione di antisemitismo usata da Delrio. Ministro di quel governo era Boccia. Era a titolo del Pd o a titolo Boccia?
Il murales di Jorit dedicato ai bambini morti in Palestina
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di Cristiana Lopomo
Il murales di Jorit dedicato ai bambini morti in Palestina
I volti di Jorit dalle due cicatrici sulle guance – con richiamo ai rituali tribali, marchi d’appartenenza alla “Human Tribe” – svettano dalle facciate dei palazzi di mezza Italia. Da New York a Santiago del Cile, da New Delhi a Tokyo, da Sochi a Mariupol. I suoi murales sono icone della street art internazionale che si fa bellezza, riflessione collettiva e strumento di riqualificazione urbana. Ma quello in fase di realizzazione in via Verdi a Potenza – finito «tra una ventina di giorni, entro Natale, dipende dalle condizioni meteorologiche» – dedicato alla piccola Hind e partito – com’è nel metodo dell’artista – da un’orditura geometrica per righe e lettere capovolte, utile alla composizione della trama del disegno, ma anche testo rappresentativo del suo stato d’animo a fronte dell’indicibile “Definisci bambino” – «non è come gli altri. Ha un valore, un’emozione in più, un’importanza particolare per me»: ci ha detto Ciro Cirullo, in arte Jorit, per il tramite della sua segreteria. Artista partenopeo, classe ‘90, considerato il “Caravaggio della street art”, è tornato per l’ultimazione di un’opera che «per grandezza e significato è destinata a fare la storia del muralismo contemporaneo. Orgoglioso che questo messaggio di umanità emerga dal Sud Italia per affermare che – ha rimarcato – “noi non siamo complici di questo genocidio”». Potenza è scenario inedito per la nuova, imponente opera di Jorit – la terza in Basilicata dopo Mariele Ventre a Sasso e Yasser Arafat a Rionero. Iniziativa privata, ideata dall’architetto Antonio Maroscia, condivisa da imprenditori e professionisti vicini al suo mondo lavorativo che partecipano alla copertura dei costi complessivi: «Circa 40 mila euro. Bell’esempio di partecipazione attiva. Dimostrazione che – ha detto Maroscia – se hai un’idea puoi organizzarti, verificare una reale e ampia condivisione, realizzarla. In questi giorni avrò incontri operativi con Jorit. Si riprenderà sabato: c’è da aspettare un altro carico di bombolette spray dalla Spagna. Oltre 3 mila utilizzate fino a oggi. Felice che in questa iniziativa poco convenzionale non sia rimasto solo: in tanti si sono affiancati in sostegno del progetto». Gratitudine espressa dall’Amministrazione comunale a cui Jorit avanza due richieste: l’allaccio permanente all’illuminazione pubblica e «il riconoscimento simbolico dello Stato Palestinese già riconosciuto da 157 dei 193 Stati membri delle Nazioni Unite». È della piccola Hind Rajab il volto raffigurato. Suo e non solo. «È di tutti i bambini palestinesi, inclusi gli oltre 20 mila uccisi e i superstiti che affrontano la violenza dell’occupazione israeliana. Non una guerra – ha rimarcato Jorit – ma un’occupazione coloniale. Sostengo la lotta di liberazione del popolo palestinese da quando avevo 13 anni. Ho sempre cercato di utilizzare la mia arte per questa causa, ma l’idea di quest’opera a Potenza è merito dell’architetto Maroscia, persona di spessore e rara sensibilità». Il titolo è “Hind”: «la bambina di 5 anni crivellata da 335 colpi partiti da un carro armato israeliano. Come in un film dell’orrore – ha sottolineato l’artista – prima di essere sventrata dai proiettili, ha passato ore in auto con i cadaveri dei suoi familiari uccisi in precedenza: l’ambulanza è stata disintegrata quando era quasi riuscita a raggiungerla. S’ipotizza che fosse stata lasciata volutamente in vita per poter uccidere, con lei, anche i soccorritori. Pratica barbarica che è normalità in Palestina» ha chiosato Jorit che, nella consapevolezza di quell’orrore, lasciato sul fondo della tavola grafica e griglia di disegno, ci consegna visibile solo la forza del sorriso di Hind.
L’impegno che manca contro Hezbollah
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di Redazione
L’impegno che manca contro Hezbollah
Un anno di cessate il fuoco e di qualche occasione persa fra Israele e Libano. Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha nominato Roman Gofman, il suo segretario militare, prossimo capo del Mossad. Gofman sostituirà David Barnea, che ha guidato l’agenzia di intelligence nella guerra contro la Repubblica islamica dell’Iran, contro gli Houthis in Yemen e contro Hezbollah. Con Barnea, il Mossad ha condotto missioni fondamentali, come le esplosioni dei cercapersone in Libano per colpire proprio gli uomini di Hezbollah. Dopo il 7 ottobre, il gruppo sciita si unì a Hamas, non entrò nel territorio israeliano, ma iniziò bombardamenti pesanti che portarono le autorità di Israele a evacuare la parte nord del paese. Per colpire il gruppo, Tsahal prima ne decimò la catena di comando, ne eliminò il capo Hassan Nasrallah, e iniziò l’invasione di terra del Libano che si concluse con un cessate il fuoco che regge da un anno. Secondo l’accordo dovrebbe essere il Libano a controllare Hezbollah, mandare l’esercito nel sud del paese, fermare l’azione del gruppo sciita. Tutto questo non sta avvenendo e Israele interviene regolarmente contro depositi di armi e contro gli uomini che cercano di ricostruire l’arsenale. Il dipartimento del Tesoro americano ha stimato che l’Iran ha trasferito a Hezbollah un miliardo di dollari nel 2025. I soldi servono per aumentare il potere del gruppo in Libano. Secondo l’accordo non soltanto Israele deve intervenire per bloccare questo flusso di denaro che tiene in piedi il gruppo, ma anche le autorità libanesi dovrebbero agire. Non è semplice: la popolazione sciita è numerosa, gli sciiti compongono anche il 50 per cento dell’esercito e il secondo partito sciita, Amal, non osa discostarsi da Hezbollah. La sfida però è fondamentale per il futuro dei rapporti fra Israele e Libano, centrale anche per il Medio Oriente e soprattutto è vitale per il futuro di Beirut che con Hezbollah al centro delle sue preoccupazioni non potrà mai tornare a essere un paese prospero.
Roma e Napoli città capofila di chi resiste ai pro Pal. La metamorfosi di Bologna
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di Mario Ajello
Roma e Napoli città capofila di chi resiste ai pro Pal. La metamorfosi di Bologna
Ora bisognerà vedere come reagisce Milano. E in quale categoria si inserirà – prima, dopo e durante le proteste «anti-genocidio» che si terranno alla “prima” di Lady Macbeth alla Scala tra due giorni – rispetto alla continua ondata Pro-Pal: nella categoria delle città che resistono o in quella delle città che cedono? Perché è in corso una metamorfosi o meglio uno scambio di ruoli tra i Comuni italiani, guidati dalla sinistra. Bologna «la dotta», la città che ne ha passate tante (il ‘77 degli «espropri proletari», degli indiani metropolitani, della furia dell’autonomia operaia) e le ha superate tutte facendo sistema tra progressismo, civismo, forza accademica e cattolicesimo democratico e “adulto”, sembra diventata ormai un accampamento dell’antagonismo alla Albanese. E nell’ateneo che fu culla dei glossatori, il lievito della scienza giuridica e il simbolo della civilizzazione europea, e dove dal ‘900 l’associazione del Mulino ha unito tutte le farine del miglior riformismo, si sta preparando la nuova battaglia. Quella del 12 dicembre contro la partita di basket tra la Virtus e il team israeliano dell’Hapoel Tel Aviv. Si prevede un remake della guerriglia per il match italo-israeliano Virtus-Maccabi pochi giorni fa. Roma invece in un contesto generale sempre più eccitato riesce ad assorbire, e a gestire per ora senza troppi problemi, la nuova conflittualità da fiera editoriale Più Libri Più Liberi dove si vogliono negare parola e presenza a un gruppo librario di destra. E si riesce nella Capitale, al netto di qualche divisione in Campidoglio, a smorzare le forzature faziose perché il Modello Giubileo, il metodo del dialogo istituzionale e politico tra destra e sinistra, il format dell’interesse generale contro lo spirito di fazione, sembra aver dato a Roma una forza e una sicurezza di sé che altre città mostrano di non avere e finiscono sovrastate dagli eventi di piazza. NAPOLITAN SOUND E Napoli? Non è sempre stata considerata, esageratamente, la prima città palestinese d’Italia? È un’altra Napoli, ormai, quella del sindaco Manfredi e del neo-presidente campano Fico, proiettata nel futuro da Coppa America, nell’industria del turismo da record e in quel percorso di crescita e di affermazione dell’interno Mezzogiorno per cui – nuovi dati Istat – il divario rispetto al Nord diminuisce. Possono attardarsi realtà così, come Roma che è sempre più centrale, come Napoli in pieno slancio, nelle retrovie da cittadinanza onoraria a Francesca Albanese su cui la capitale emiliana non molla e «perseverare è diabolico», come sostiene giustamente un bolognesissimo doc qual è Romano Prodi? Si diceva di Milano e delle contestazioni previste alla Scala. Anche lì, nel capoluogo lombardo, si oscilla nella sinistra tra l’andazzo del terzomondismo piazzaiolo e il senso civico di responsabilità per cui occorre tenere un contegno e non essere subalterni al vento che tira. E allora, in queste metamorfosi e ribaltamenti tra le varie città, ecco Firenze che ieri con la sindaca Funaro ha ribadito «niente cittadinanza ad Albanese» e Bari che invece, pur governata da una sinistra seria, la stessa che si è imposta a livello regionale con il neo-presidente Decaro, resta salda nella sua scelta a favore dell’eroina Pro Pal. ROVESCIAMENTI Paradigmi diversi, rivolgimenti interessanti, un rimescolio di tradizioni civiche e politiche è in atto insomma nel tessuto delle nostre città. L’asse Bologna-Bari. Il contro-asse Roma-Firenze. E a Napoli, Manfredi non fa che dire che non gli interessano le cittadinanze onorarie ma le questioni reali e non propagandistiche, per cui le priorità sono quelle della buona amministrazione e della proiezione economica della capitale del Mezzogiorno. Non sono stati sempre questi, in un altro contesto geografico, gli ingredienti tipici della tradizione bolognese, simbolo di cultura del fare e di avanguardia industriosa e non di retroguardia radicaleggiante? Ecco: le città italiane sono investite da un antagonismo di ritorno. Alcune cedono guardando all’indietro e altre resistono e ribadiscono la propria modernità. Roma figura nella seconda categoria perché, oltre al format del dialogo istituzionale, sta per ospitare la kermesse di Atreju dove decine di leader e esponenti di sinistra divideranno la scena da ospiti con i padroni di casa di FdI e, per restare sul terreno palestinese, il presidente Abu Mazen sarà una guest star nel raduno della destra italiana che oggi non è assolutamente nemica dello Stato d’Israele. Inclusività e rifiuto del minoritarismo protestatario. Se questo diventa il senso di marcia delle nostre città – ma non di alcune: di tutte – vince il “nuovo” e perde il “vecchio”.
Ddl contro l`antisemitismo: Avs attacca i riformisti dem Picierno difende i firmatari Cosa dice il testo Delrio
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di Giacomo Puletti
Ddl contro l`antisemitismo: Avs attacca i riformisti dem Picierno difende i firmatari Cosa dice il testo Delrio
Cosa significa “antisemitismo”? Tutto nasce il 20 novembre, quando il senatore Pd Graziano Delrio deposita un disegno di legge dal titolo “Disposizioni per la prevenzione e il contrasto dell’antisemitismo e per il rafforzamento della Strategia nazionale per la lotta contro l’antisemitismo nonché delega al Governo in materia di contenuti antisemiti diffusi sulle piattaforme online”. La volontà è evidente, cioè contrastare l’aumento dei casi di violenza fisica e insulti verbali contro persone di religione ebraica, certificato dal Coordinatore nazionale per la lotta contro l’antisemitismo presso la Presidenza del Consiglio dei ministri sulla base della relazione del Centro di documentazione ebraica contemporanea. Passa una settimana e diversi senatori dem, tra cui molti della minoranza riformista, si dicono d’accordo con il testo. Lo firmano Antonio Nicita, Simona Malpezzi, Alessandro Alfieri, Alfredo Bazoli, Pier Ferdinando Casini, Tatjana Rojc, Filippo Sensi, Valeria Valente, Walter Verini e Sandra Zampa. Mercoledì il testo viene assegnato alla commissione Affari costituzionali, ieri firmano anche Andrea Martella e Beatrice Lorenzin. Ed è proprio l’assegnazione del testo alla Commissione e le firme raccolte scatenano la reazione del parlamentare Avs e co-portavoce di Europa Verde, Angelo Bonelli. «Trovo sconcertante il ddl – tuona Bonelli – Se questo testo diventasse legge, chi contesta radicalmente i comportamenti dello Stato di Israele verrebbe definito antisemita e quindi sanzionato: la proposta adotta la definizione di antisemitismo scritta dall’Ihra (International Holocaust Remembrance Alliance), che qualifica come antisemita ogni critica radicale contro Israele». Non solo. «La legge dei senatori del Pd, all’articolo 2, delega il governo Meloni a varare uno o più decreti legislativi con prescrizioni all’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (Agcom) – prosegue il co leader di Avs – Gli articoli 3 e 4 prevedono che ogni università nomini una sorta di controllore che vigili su eventuali attività interne, anche didattiche, considerate illegittime sempre sulla base dei criteri definitori dell’antisemitismo fissati dall’Ihra: l’antisemitismo va certamente perseguito e contrastato, come ogni forma di razzismo, ma non si possono colpire e perseguire le opinioni di chi critica Israele, il cui governo ha commesso crimini contro l’umanità e atti di natura genocidaria». Bonelli arriva a chiedere il ritiro del ddl, perché «se la proposta dei senatori del Pd diventasse legge, come ha fatto notare l’ex senatore Dem Roberto Della Seta in un articolo sul quotidiano Il Manifesto, tanti giornalisti e intellettuali autorevoli – Anna Foa, Gad Lerner, Stefano Levi Della Torre – e anche il sottoscritto verrebbero sanzionati per le opinioni espresse sulla deriva suprematista e criminale dello Stato di Israele». Ma cosa dice la definizione di antisemitismo citata da Bonelli e che effettivamente nel ddl viene posta come “base” per accertare i presunti casi in questione? «L’antisemitismo è una certa percezione degli ebrei che può essere espressa come odio per gli ebrei – si legge nel sito dell’Ihra – Manifestazioni di antisemitismo verbali e fisiche sono dirette verso gli ebrei o i non ebrei e/o alle loro proprietà, verso istituzioni comunitarie ebraiche ed edifici utilizzati per il culto». Con una specifica sul fatto che «le manifestazioni possono avere come obiettivo lo Stato di Israele perché concepito come una collettività ebraica. Tuttavia, le critiche verso Israele simili a quelle rivolte a qualsiasi altro paese non possono essere considerate antisemite». Dunque criticare il governo Netanyahu, le azioni di Israele a Gaza o dichiarazioni di questo o quel politico israeliano non possono essere considerate antisemitismo, anche a detta della stessa associazione. Un concetto sottolineato anche dalla vicepresidente del Parlamento Ue, Pina Picierno. «Leggo che in queste ore c’è parecchia confusione, prodotta dai soliti e noti inquinatori di pozzi, sulla proposta di Graziano Delrio per un quadro normativo serio e garantista per contrastare l’antisemitismo, soprattutto nelle scuole, nelle università e on line – ha scritto Picierno – Vale la pena ricordare alcuni punti: il testo non sanziona nessuno e non limita il dibattito, anzi, invita le Università a essere luoghi di confronto libero; rende più efficace la rimozione di contenuti razzisti e d’odio già prevista dal Digital Service Act; richiama la definizione Ihra assunta dal Parlamento europeo e dal governo Conte nel 2020». L’esponente dem parla poi di «critiche strumentali che sanno di giustificazionismo e ipocrisia» spiegando che «per contrastare il nuovo antisemitismo servono serietà e strumenti concreti contro odio e discriminazioni».
Il Pd si decida sull’antisemitismo
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di Redazione
Il Pd si decida sull’antisemitismo
La definizione proposta da Graziano Delrio è doverosa e sacrosanta. Chi contesta l’esistenza di Israele o lo equipara al razzismo è antisemita. Questo è l’assunto di un disegno di legge “per la prevenzione e il contrasto dell’antisemitismo” presentato dai senatori del Pd Graziano Delrio, Simona Malpezzi e Pier Ferdinando Casini. Ed è arrivato puntuale l’altolà del presidente dei senatori del Pd, Francesco Boccia. La proposta adotta la definizione di antisemitismo elaborata dall’Ihra, l’International Holocaust Remembrance Alliance. Chi urla “dal fiume al mare”, ad esempio, non è un pacifista, ma un nostalgico della Shoah che sogna di buttare gli ebrei in mare. È un appello al genocidio, non una proposta di confine. Negare il loro diritto a esistere come stato non è critica politica, è odio razziale travestito da solidarietà con i palestinesi. L’antisemitismo non è solo svastiche e saluti romani, ma anche boicottaggi Bds e manifestazioni dove si bruciano le bandiere israeliane. Paragonare gli israeliani ai nazisti, spiega l’Ihra, come postare vignette con Netanyahu in divisa delle SS o la stella di David che diventa svastica, è il pane quotidiano di certi “antisionisti”. È antisemitismo puro, non satira. Israele combatte per la sopravvivenza contro un’orda di proxy iraniani: Hezbollah, Houthis, Hamas. Ma anche l’ottavo fronte, quello dell’opinione pubblica. Altri esempi: ritenere gli ebrei collettivamente responsabili delle azioni del governo israeliano, richiedere un comportamento a Israele che non ci si aspetta da nessun altro stato democratico o usare i classici stereotipi sugli ebrei (controllo dei media o dei soldi) parlando di “lobby sionista”. Adottare questa definizione di antisemitismo che includa l’antisionismo dimostrerebbe che la lotta all’antisemitismo richiede azioni, non tweet commossi. Approvata nel 2016 da 35 paesi (e poi da altri), l’Ihra dice chiaro e tondo che negare il diritto del popolo ebraico all’autodeterminazione non è “critica alla politica di Netanyahu” né “preoccupazione umanitaria”: è odio razziale aggiornato all’era TikTok. L’Ihra è dunque la linea rossa. Chi la rifiuta sceglie, consapevolmente o meno, l’antisemitismo 2.0.
Antisemitismo, nel centrosinistra scontro sul ddl dei riformisti Pd
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di Redazione
Antisemitismo, nel centrosinistra scontro sul ddl dei riformisti Pd
Scintille nel Pd sul disegno di legge a prima firma di Graziano Delrio sul contrasto all’antisemitismo. Il testo, cofirmato da un folto gruppo di riformisti dem, è stato assegnato martedì alla commissione Affari costituzionali del Senato. Ad accendere la miccia è stato il leader di Avs Angelo Bonelli: una proposta «sconcertante» che «adotta la definizione di antisemitismo scritta dall’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA), che qualifica come antisemita ogni critica radicale contro Israele». «Critiche strumentali che sanno di giustificazionismo e ipocrisia dai soliti inquinatori di pozzi», replica l’eurodeputata Pina Picierno. Tensioni tra i dem: «Delrio ha presentato il ddl a titolo personale, non rappresenta la posizione del gruppo né del partito», dice Francesco Boccia, capogruppo del Pd al Senato.
Tra le Ong «sottomesse» ad Hamas ci sono pure organizzazioni Italiane
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di Stefano Piazza
Tra le Ong «sottomesse» ad Hamas ci sono pure organizzazioni Italiane
Cooperanti costretti a collaborare coi terroristi. Save the children rifiutò e fu ostacolata. Per capire cosa comporti oggi parlare di ricostruzione a Gaza occorre partire da ciò che per anni è rimasto ai margini della percezione pubblica. I file interni del Meccanismo di sicurezza di Hamas, ottenuti e resi consultabili dall’organizzazione israeliana Ngo Monitor, fotografano un sistema che progressivamente ha inglobato l’intero comparto umanitario. Nel tempo, tutta una serie di organizzazioni internazionali e realtà locali finanziate anche dall’Ue sono state assorbite e riconfigurate fino a diventare una parte dell’apparato ideologico, politico e militare di Hamas. La presenza delle Ong dalle britanniche Map-Uk e Human appeal alle americane Mercy corps, Anera e Catholic relief services, fino a grandi marchi della cooperazione come Oxfam, Save the children, International medical corps, Nrc, Handicap international, Médecins du monde, Médecins sans frontières-Belgio e Action against hunger, insieme a realtà europee come Cesvi, WeWorldGvc, Educaid Italia, DanChurchAid, Terre des Hommes Svizzera, Iocc e Sos Children’s villages – non è mai stata davvero indipendente: tutte hanno operato in un quadro imposto dal ministero dell’Interno e della Sicurezza nazionale di Hamas, che autorizzava, bloccava o ridefiniva ogni progetto in base alle proprie priorità strategiche. Il controllo non si è certo limitato alle autorizzazioni formali. Hamas ha imposto a queste organizzazioni una rete di «garanti», dirigenti locali collocati ai vertici amministrativi delle sedi di Gaza. Si trattava spesso di individui affiliati al movimento, talvolta legati persino al suo braccio armato, come nel caso dei vertici locali di Map-Uk, Human Appeal, Imc o Nrc e di un membro dell’Ong umanitaria italiana Cesvi, finanziata dall’Ue, che ricoprivano ruoli pubblici e religiosi interni all’apparato. La presenza di queste figure permetteva al ministero di accedere dall’interno ai processi decisionali e alle informazioni operative delle Ong, trasformandole in fonti d’intelligence. Le schede personali su ciascun garante – dettagli su osservanza religiosa, relazioni sentimentali, attività sui social, precedenti penali, debolezze economiche e persino abitudini quotidiane – mostrano un livello di sorveglianza di altissimo livello. La pressione si è estesa anche alle strutture e ai progetti. In alcuni casi Hamas sfruttava iniziative come il programma idrico (finanziato dall’Ue) di Oxfam nella zona di al-Fukhari, per mantenere presenza in aree sensibili dal punto di vista militare; oppure chiedeva ai partner locali, come Rai-Consult, di adattare gli interventi alle esigenze della «resistenza». E le Ong che provavano a sottrarsi al controllo? Sono state classificate come «non cooperative»: Save the Children fu oggetto di restrizioni operative e di ispezioni amministrative forzate, mentre gli uffici dell’Imc furono chiusi fino a quando non accettarono una «revisione finanziaria» imposta da Hamas. E la raccolta dei dati? È stata sempre manipolata secondo gli interessi dei jihadisti palestinesi. I questionari utilizzati per selezionare beneficiari o monitorare l’impatto dei progetti sono stati riscritti per eliminare qualsiasi domanda che potesse rivelare la presenza di tunnel, la collocazione di infrastrutture militari o l’identità di combattenti feriti. Gli operatori sul campo, anche quelli stranieri, dovevano essere approvati dal ministero di Hamas, che li esaminava per assicurarsi che non fossero un rischio per l’occultamento delle attività armate. Un caso solo in apparenza banale rivela la logica dominante: quando un beneficiario chiede al personale del Norwegian Refugee Council se il cedimento del pavimento sia legato a un tunnel di Hamas, l’intera delegazione sceglie il silenzio per paura di urtare gli interessi di Hamas. La neutralità umanitaria a Gaza? Non esiste ed è stata una totale illusione: le agenzie dell’Onu, le Ong internazionali e realtà finanziate dai governi occidentali
e Ue, operano dentro un sistema di pressioni che ha trasformato l’aiuto umanitario in uno strumento funzionale agli obiettivi politici e militari di Hamas. Ma di quanti soldi parliamo? In vent’anni Ga2a ha ricevuto circa 45 miliardi di dollari in aiuti, di cui una quota decisiva dall’Europa e sappiamo cosa ne hanno fatto dei soldi.
«È cristiano», «Ha l’amante», «È ricco» Così Hamas spiava i referenti delle ong
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di Redazione
«È cristiano», «Ha l’amante», «È ricco» Così Hamas spiava i referenti delle ong
Il gruppo terrorista aveva report di intelligence sul personale di 48 organizzazioni attive a Gaza, 11 delle quali definite «cooperative» con il regime islamista della Striscia. «Lui è il proprietario di una Nissan». «Lei esce di casa indossando abiti succinti che violano la legge della sharia». «Lui è un cristiano». «Lei ha una personalità molto forte e non è suscettibile alle pressioni e alle estorsioni». Scorrere le 53 pagine del rapporto dell’Institute for Ngo Research sulle relazioni fra Hamas e la galassia delle organizzazioni non governative impegnate a sostenere Gaza i suoi abitanti è come guardare un film sullo spionaggio durante la Guerra Fredda. Una pellicola in cui nel ruolo del Kgb o della Stasi di turno ci sono i prodi “guerriglieri” del sedicente Movimento islamico di resistenza: non solo tagliagole, dunque, ma anche attenti osservatori e, all’occasione, sfruttatori di una ridda di cooperanti internazionali più o meno consapevoli di aiutare un gruppo terrorista messo all’indice da un gran numero di cancellerie globali. Ieri su questo giornale il vicedirettore Fausto Carioti ha raccontato di come Hamas abbia spiato e cercato di infiltrare alcune ong italiane. Oggi allarghiamo lo sguardo, perché le ong in questione sono 48, di cui 11 definite «cooperative» da Hamas. Prendiamo Oxfam, per esempio. La sigla britannica è abbastanza conosciuta non fosse altro per la capillare presenza degli Oxfam Shop nelle città inglesi, scozzesi e del Galles. Qua si entra per donare un articolo per la casa, un vestito, un libro oppure per acquistare un oggetto di seconda mano: Oxfam raccoglierà i fondi per combattere la povertà e la fame nel mondo. Ebbene, un promemoria del MoINS (il ministero degli Interni di Hamas) del 15 giugno 2020 suonava l’allarme rilevando che il «responsabile dei media e delle pubbliche relazioni di Oxfam è di origini ebraiche». Circostanza catalogata come «elemento di minaccia e insicurezze» da parte della ong. ALL’OMBRA DEGLI ALBERI Ma in fin dei conti forse Oxfam non è così male visto che, riferiva ieri Euractiv, in un altro documento del 2021 Hamas osserva come la sigla britannica abbia collaborato con un gruppo locale legato ad Hamas per attuare un progetto di irrigazione per gli alberi da frutto. E il gruppo terroristico afferma che il progetto avrebbe aiutato gli obiettivi militari perché gli alberi da frutto «sono una copertura per le attività di resistenza nelle aree di confine». Meglio in ogni modo gli amici del Norwegian Refugee Council (Nrc): tra gli omissis, si legge il profilo del direttore amministrativo della ong norvegese: «È dipendente del governo di Ga2a con il grado di Nagib (…) circa otto anni fa si è recato nel Regno Unito per conseguire un master in Scienze Umane. Sostiene il movimento di Hamas a livello ideologico, ma non ne è formalmente affiliato. (…) Non risultano osservazioni morali o di sicurezza a suo carico. È devoto alla preghiera e viaggia spesso all’estero, passando molte volte attraverso il valico di Rafah. Nel 2018 ha ricevuto un trasferimento di 936 dollari da suo fratello». Resta solo da decidere se colpiscano di più i dettagli della vita di questa persona messi nero su bianco o se sia preoccupante che ong il cui scopo dovrebbe essere il miglioramento della vita dei ga2awi siano infiltrate da chi – e gli ultimi 21 anni di autogoverno dei jihadisti lo dimostrano – del destino dei ga2awi non si è mai occupato se non per farne carne da macello, “martiri” del jihadismo o scudi umani. Nella lista dei cattivi Hamas mette guarda caso gli americani di Anera il cui direttore «odia Hamas, va a correre ogni giorno sulla spiaggia di Al-Sudaniya, ha una Hyundai nera» e, sebbene tutti i suoi figli recitino il Corano in moschea, «è legato a Fatah», il partito palestinese laico, arcinemico di Hamas.
Detenuti palestinesi ridotti alla fame
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di REs.
Detenuti palestinesi ridotti alla fame
Le condizioni dei prigionieri di sicurezza palestinesi detenuti in Israele sono notevolmente peggiorate dal 7 ottobre 2023, fra strutture sovraffollate, condizioni di fame grave e violenze quasi quotidiane a loro danno. È quanto si legge nel rapporto pubblicato ieri dall’Ufficio del Difensore pubblico israeliano (Pdo), che fa parte del ministero della Giustizia, redatto alla luce delle visite fatte nelle prigioni militari di Ramon, Megiddo, Ayalon, Shatta, Eshel e Ketziot nel 2023-2024. Stando a quanto riportato dal quotidiano Haaretz, il Servizio penitenziario israeliano ha introdotto un regime alimentare dopo lo scoppio della guerra a Ga2a che ha condotto a una «grave fame, manifestata in una forte perdita di peso e sintomi fisici concomitanti, tra cui estrema debolezza fisica e perfino svenimenti». L’aumento del numero di detenuti dall’inizio della guerra ha inoltre aggravato il sovraffollamento nelle strutture, per cui il 90% dei prigionieri di sicurezza è costretto in spazi di meno di tre metri quadrati, con migliaia di prigionieri senza un letto su cui dormire. Alla fine del 2024 si contavano circa 23mila detenuti, oltre la capacità di 14.500, con un aumento del 60% dall’inizio della guerra. I prigionieri «sono tenuti in celle buie, senza illuminazione, in condizioni igieniche difficili, con un caldo soffocante e senza ventilazione» si legge nel rapporto. Le loro celle, prosegue il testo, «sono prive di qualsiasi equipaggiamento o effetto personale (a parte il Corano) e fanno fatica a mantenere la pulizia e l’igiene a causa della limitata disponibilità di prodotti di base come carta igienica, sapone e asciugamani». Nel rapporto si parla di diversi detenuti colpiti dalla scabbia e si afferma che gli ospiti di molte strutture hanno denunciato violenze gravi e sistematiche da parte delle guardie, riferendo di frequenti perquisizioni nelle celle accompagnate da uso non necessario della forza, così come di percosse durante i trasferimenti tra i reparti, durante le udienze in tribunale e in altre occasioni. I detenuti, sempre a quanto si apprende dal rapporto, hanno affermato che la violenza non viene scatenata da incidenti specifici e non è in risposta a situazioni che giustificano l’uso della forza. Le condizioni allarmanti sui prigionieri palestinesi erano già emerse in indagini pregresse al rapporto dell’autorità israeliana, facendo emergere le stesse contestazioni ora riepilogate nell’indagine. Physicians for Human Rights Israel, un’organizzazione non governativa israeliana, aveva denunciato lo scorso novembre un totale di 94 detenuti palestinesi morti sotto detenzione israeliana dal 7 ottobre 2023: una cifra che rialza la stima di circa 75 vittime registrata dalle Nazioni unite un mese prima. La polizia carceraria israeliana aveva replicato di aver agito secondo le procedure e senza le violazioni rilevate dai vari rapporti. Gli agenti, avevano dichiarato le autorità a Bbc, «operani in conformità con la legge e sotto la supervisione di organismi di controllo ufficiali».
Quando la Fallaci denunciò l’alleanza sinistra-Islam
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di Alessandro Gnocchi
Quando la Fallaci denunciò l’alleanza sinistra-Islam
Oggi come allora: la clamorosa polemica del 2002. Quando la Fallaci denunciò l’alleanza sinistra-islam, Oriana si indignò per i cortei dove si bruciavano le bandiere di Israele. Per lei non era una novità… Quando, dopo l’11 settembre, Oriana Fallaci pubblica La rabbia e l’orgoglio, molti fingono di assistere alla detonazione improvvisa di un’isterica reazionaria. È una comoda scorciatoia. Archiviare tutto come delirio senile invece di guardare ciò che la Fallaci descriveva da almeno trent’anni. La Trilogia nasce dai reportage dalle basi dei fedayn, dagli uffici blindati dei rais, dalla Beirut in fiamme, dalle moschee saudite durante la Guerra del Golfo. E, parallelamente, dalle piazze europee dove il vecchio antisemitismo riemergeva travestito da antisionismo e cattocomunismo. Nel 2002, la Fallaci denunciava su Panorama il risorgente antisemitismo europeo e non faceva che tirare le somme: i cortei no global con bandiere palestinesi al vento e quelle israeliane in cenere; la violenza antiebraica in Francia, Germania, Olanda; l’ambiguità della Chiesa; l’informazione filopalestinese; la sinistra antifascista che, paradossalmente, dimentica proprio i valori della Resistenza (nelle cui fila lei, Oriana, aveva combattuto da adolescente, a Firenze, come staffetta). Per la Fallaci, il nuovo antisemitismo non aveva bisogno della camicia bruna: bastava chiamarlo «antisionismo», indossare la kefiah e sventolare la bandiera della pace. Il nuovo antisemitismo era facile da individuare ma difficile da combattere perché i razzisti veri utilizzavano (e utilizzano) il linguaggio dell’antirazzismo. Israele è «razzista» nei confronti dei palestinesi, fino al «genocidio». Israele è lo Stato degli ebrei. Quindi gli ebrei sono razzisti ed eredi del vecchio colonialismo europeo. È un falso sillogismo. Ma funziona e scatena l’antisemitismo. Così l’Europa diventa un posto sempre meno sicuro per gli ebrei, un posto dove associazioni per la pace bruciano la bandiera di Israele nelle piazze, dove la Brigata ebraica viene cacciata dai cortei del 25 aprile. L’Europa, che aveva giurato “mai più”, si scopre di nuovo incapace di proteggere i suoi ebrei. Fallaci la definisce «un pozzo di Ponzi Pilati»: una macchina per lavarsi le mani. La profezia della Fallaci nasce da una lunga discesa nel cuore del Medio Oriente. Prima di tutti, aveva indicato dove stavamo andando e chi, ancora una volta, avremmo lasciato solo. Quando Fallaci entra nelle basi di Al Fatah alla fine degli anni Sessanta, non è ancora la polemista della Trilogia. È la cronista dell’Europea che si porta dentro la memoria della sua maestra elementare, AL ebrea e deportata, Laura Rubicek. Riconosce le ragioni degli uni e degli altri: diritto degli ebrei a una patria dopo la Shoah, diritto dei palestinesi a non essere costretti alla diaspora. Ma la linea di demarcazione è netta: il terrorismo. C’è un passaggio scioccante nel reportage a puntate. È l’incontro con Rashida Abhedo, la «donna della strage», ex insegnante, colta, socialista, che fa esplodere barattoli di marmellata in un supermercato di Gerusalemme uccidendo civili e bambini. È lo choc che smaschera l’ideologia travestita da giustizia. La logica è gelida: «Se muoiono i loro bambini, la colpa è loro» Qui l’islam non c’entra ancora: i fedayn hanno Marx, Guevara e Mao sugli scaffali. Allah è un’ombra. Ma il meccanismo mentale è già definito: la causa «giusta» autorizza tutto. Il passaggio decisivo arriva con la Rivoluzione iraniana del 1979. L’Iran di Khomeini è per Fallaci «il più allucinante balzo all’indietro» del secolo: genocidio dei curdi, abolizione delle libertà, restaurazione di codici vecchi di 1400 anni, lapidazioni, fucilazioni, teocrazia integrale. Quando Khomeini afferma che «l’islam è tutto», la Fallaci capisce che la fede si è fatta regime totalitario. La religione si fa Stato, legge, morale, identità e confine. In più, l’idea che l’Occidente corrompa i giovani musulmani con «alcool, musica e donne scoperte» fa intravedere la frattura culturale radicale: l’islam politico non vuole convivere, vuole sottrarsi all’influenza occidentale. Anche quando si sviluppa in Europa. È qui che nasce, nella sua lettura, la “crociata alla rovescia”: l’offensiva di un islam politicizzato contro la civiltà occidentale. In questo contesto, le interviste a Golda Meir e Ariel Sharon non sono solo pezzi di storia israeliana, ma onesti tasselli della diagnosi. Meir riconosce errori e ambiguità, discute di profughi e bombardamenti, ma individua la vera falla: l’Europa è troppo indulgente con i terroristi, li tollera nelle proprie capitali, crede di comprarsi una tregua che non durerà. Il boomerang è inevitabile. Con Sharon, la Fallaci è implacabile: accusa, incalza, mette il dito su Beirut, Sabra e Chatila. Sharon risponde colpo su colpo. Ma mentre incalza Israele, la Fallaci osserva un’Europa in cui il terrorismo palestinese gode di attenuanti infinite e Israele di colpe presunte. Il Libano degli anni Ottanta, che darà vita al romanzo Insciallah, diventa per lei il laboratorio del futuro: guerra confessionale incontrollabile, milizie islamiche più fanatiche, potenze esterne che usano il Paese come campo di battaglia, contingenti occidentali incapaci di distinguere amici e nemici. Lì Fallaci intuisce che la prossima grande frattura non sarà politica o economica, ma culturale e religiosa: tra chi mangia maiale e chi no, chi beve vino e chi lo proibisce, chi recita il Pater Noster e chi invoca Allah. La Guerra del Golfo e l’articolo sulla «guerra invisibile dei mullah» completano il mosaico. In superficie, tutto è semplice: Saddam invade il Kuwait, gli Stati Uniti lo respingono, l’Arabia Saudita è alleata leale. In profondità, Fallaci vede altro. Nelle moschee saudite si predica contro gli americani, non contro Saddam. Un notabile le dice apertamente: questa non è una guerra tra Iraq e coalizione, è una «crociata tra noi e voi». Siamo al primo round. Parallelamente, l’Europa vive la sua metamorfosi. Nel 1991 a Marsiglia un abitante su quattro è musulmano, i mercati assomigliano a suk maghrebini, le tensioni crescono, la destra specula, le autorità tentennano persino sulla costruzione della moschea. E gli intellettuali predicano la favola dell’«accettazione reciproca dello straniero»: una formula astratta che non tiene conto del fatto che, altrove, l’Occidente è dichiarato come inevitabile nemico.
Antisemitismo, scontro nel Pd il partito sconfessa Delrio
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di Giovanna Vitale
Antisemitismo, scontro nel Pd il partito sconfessa Delrio
Il gruppo del Pd al Senato non ha presentato alcun disegno di legge in materia di antisemitismo». Pertanto, quello depositato da Graziano Delrio il 20 novembre è da intendersi «a titolo personale» e «non rappresenta la posizione del gruppo, né quella del partito». È sera quando Francesco Boccia, presidente dei senatori dem, dirama una nota di inusuale durezza per sconfessare l’iniziativa del collega di area riformista. Una mossa concordata con il Na2areno, da leggere anche alla luce dell’eterna lotta fra correnti, ciascuna portatrice di una propria sensibilità specie sui temi che intersecano la politica estera. Il testo formulato dal Delrio per provare a scoraggiare I i discorsi d’odio in ogni piazza, reale o virtuale, incluse università e piattaforme online, aveva infatti provocato la rivolta non solo degli alleati di Avs, ma pure dell’ala sinistra del partito. Convinta che, una volta approvato, avrebbe reso impossibile censurare il governo di Israele e i crimini commessi a Ga2a. Arturo Scotto, uno degli imbarcati sulla Flotilla, fra i più vicini alla segretaria Schlein, lo dice chiaro a metà pomeriggio, dopo aver sconsigliato di legiferare su questioni tanto delicate: «L’antisemitismo esiste ed è un cancro della società. Eviterei di equipararlo con la critica legittima alla deriva antidemocratica di uno Stato». Preceduto, più o meno con gli stessi argomenti, dal leader dei rossoverdi Angelo Bonelli, «sconcertato» perché con questa proposta «chi contesta radicalmente i comportamenti di Israele verrebbe definito antisemita e quindi sanzionato». Naturale conseguenza della definizione adottata, identica a quella «scritta dall’Ihra, International holocaust remembrance alliance, che qualifica come antisemita ogni critica radicale contro Israele». Furibonda la reazione dei riformisti: «Obiezioni strumentali dei soliti inquinatori di pozzi che sanno di giustificazionismo e ipocrisia», attacca Pina Picierno. Il ddl era stato sottoscritto, oltre che da Casini e dai riformisti Sensi, Malpezzi, Bazoli, Alfieri, Verini e Zampa, anche dagli esponenti della maggioranza Pd Nicita, Martella, Lorenzin e Valente. Questi ultimi, però, dopo un sms di Boccia, ieri hanno ritirato la firma. Mentre Delrio, che tre giorni fa aveva chiesto al presidente Balboni di abbinare il “suo” testo a quelli già all’esame della commissione Affari costituzionali, ha deciso di andare dritto per la sua strada. Respingendo l’invito a fermarsi. «La definizione di “antisemitismo” è da noi usata perché assunta dal Parlamento europeo nel 2017 e dal governo Conte nel 2020», utilizzata anche dalla «Repubblica italiana nelle strategie contro l’antisemitismo», spiega. «Peraltro non le diamo forza di legge, a differenza degli altri progetti, proprio perché molto discussa sia da chi la giudica debole sia da chi la giudica eccessiva», insiste l’ex ministro dei Trasporti. «Se si è potuto criticare Israele e se voci autonome come quelle di Foa o Lerner si sono levate liberamente (inclusa la mia nell’aula del Senato più volte) lo si potrà continuare a fare legittimamente», conclude. «Dovremmo guardare alla luna, l’ antisemitismo, e non al dito, cioè alla definizione». L’obiettivo, infatti, è «rafforzare gli strumenti esistenti», prova a fare sintesi Malpezzi. Fatto sta che in Parlamento le proposte sul tema sono sei, depositate da altrettanti partiti. Ma a litigare è uno soltanto.
L’Iraq nel caos per Hezbollah e Huthi finiti nella lista nera dei terroristi
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di Andrea Morigi
L’Iraq nel caos per Hezbollah e Huthi finiti nella lista nera dei terroristi
Fra Israele e Libano inizia la distensione: dopo decenni di ostilità partono i colloqui per la cooperazione economica. È il segno che il Partito di Dio non ricatta più Beirut. Il governo iracheno la mattina inserisce gli Hezbollah libanesi e i ribelli yemeniti di Ansar Allah, detti Huthi, entrambe formazioni musulmane sciite, nella lista nera delle organizzazioni terroristiche. Poi nel pomeriggio, investito dalle proteste e dalle reazioni interne e internazionali, fa marcia indietro. La maggioranza della popolazione è di obbedienza sciita, le milizie armate variamente dipendenti dalla Repubblica islamica dell’Iran sono sul piede di guerra e costringono il premier uscente Mohammed Shia al Sudani a ordinare l’apertura di un’indagine urgente «per individuare le responsabilità» riguardo all’errore sulla designazione. Un comunicato del Comitato per il congelamento dei fondi di organizzazioni legate al terrorismo, istituito presso il segretariato generale del Consiglio dei ministri, chiarisce che il provvedimento, pubblicato sulla Gazzetta ufficiale, in cui sono contenuti anche i nomi di Hezbollah e Huthi, avrebbe dovuto provvedere in realtà al congelamento dei beni di organizzazioni legate allo Stato islamico e Al Qaeda, cioè a musulmani sunniti. Secondo il governo, il documento apparso sulla Gazzetta ufficiale era soltanto una bozza. Perciò l’errore sarà corretto «rimuovendo tali entità e partiti» e nel frattempo sarà revocato anche il congelamento dei fondi che fanno riferimento ad Ahmed al Sharaa, attuale presidente della Siria ed ex leader del gruppo jihadista Hayat Tahrir al Sham. A Bagdad, ormai, resta solo il caos generato dalla vicenda, che ora rischia di ostacolare la riconferma alla guida del governo ad Al Sudani. Sulle trattative, attualmente in corso con il Quadro di coordinamento sciita, che ha ottenuto una maggioranza relativa alle ultime elezioni, si allunga l’ombra del fallimento. Il parlamentare Mustafa Sand, rieletto alle ultime elezioni legislative, interpellato da Shafaq, ha definito «vergognosa» la designazione, denunciando che «l’Iraq, sfortunatamente, classifica Houthi e Hezbollah come organizzazioni terroristiche, mentre nello stesso tempo propone Trump per il Nobel per la pace». Ad apparire fuori gioco, perfino in casa propria, è Hezbollah. Dopo decenni di ostilità, ieri, alla presenza dell’inviata statunitense Morgan Ortagus, hanno preso il via i colloqui fra Israele e Libano per la cooperazione economica, benché i due Paesi formalmente siano ancora in guerra. I funzionari di Gerusalemme e di Beirut si sono dati appuntamento per un secondo incontro il prossimo 19 dicembre per affrontare i temi sul tavolo. E ciò sembra indicare un netto declino dell’influenza del Partito di Dio sul governo del Paese dei Cedri. Per proseguire il lavoro iniziato, ieri le forze armate israeliane, dopo aver allertato la popolazione, hanno colpito diversi depositi di armi di Hezbollah nel Libano meridionale, denunciando il «cinico uso dei civili libanesi come scudi umani» da parte del movimento sciita filo-iraniano. Sul fronte palestinese, è la resa dei conti. Ieri Yasser Abu Shabab, capo dell’omonima milizia rivale di Hamas attiva a Rafah est, nel sud della Striscia di Gaza, sarebbe stato ucciso in uno scontro con i miliziani del suo gruppo, apparentemente a causa di controversie interne nel contesto della cooperazione con Israele, secondo fonti della sicurezza israeliana citate dal quotidiano Ynet.
Ucciso il capo della milizia anti Hamas
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di Redazione
Ucciso il capo della milizia anti Hamas
Il leader di Abu Shabab, la milizia di Gaza in contrasto con Hamas, è morto ieri, a seguito di uno scontro a fuoco. Secondo alcuni media israeliani Yasser Abu Shabab è stato ferito in «scontri interni» con altre fazioni palestinesi nella Striscia e portato in un ospedale israeliano dove è deceduto. Hamas accusava Abu Shabab, che guidava un gruppo armato legato a un clan beduino, di collaborare con Israele e rubare aiuti. Un’unità di Hamas ha scritto su Telegram: «Israele non ti ha protetto».
Antisemitismo, lite nel Pd «La proposta di Delrio? È solo a titolo personale»
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di Maria Teresa Meli
Antisemitismo, lite nel Pd «La proposta di Delrio? È solo a titolo personale»
Diventa un caso nel Pd il disegno di legge di Graziano Delrio per contrastare l’antisemitismo nelle scuole, nelle università e sul web. È un testo firmato anche da altri senatori pd come, per esempio, Simona Malpezzi, Alessandro Alfieri, Alfredo Bazoli, Pier Ferdinando Casini, Filippo Sensi, Walter Verini e Sandra Zampa. Delrio non avrebbe mai immaginato che i vertici del suo partito avrebbero fatto pressioni per indurlo a ritirare quel ddl. Cosa che, ovviamente, lui non farà. Però sia Elly Schlein che Francesco Boccia hanno cercato di far desistere l’esponente dei riformisti pd. Il presidente dei senatori dem è addirittura intervenuto in serata con tanto di nota ufficiale per precisare che quel disegno di legge «non è del gruppo», ma è «stato presentato a titolo personale da Delrio». Le pressioni di Schlein e Boccia su Delrio non hanno avuto effetto. Su altri senatori, però, hanno funzionato. Così tre dei firmatari di quel ddl hanno ritirato la loro adesione. Come per incanto scompaiono dal testo le firme di Andrea Martella, Antonio Nicita e Valeria Valente. Ma cosa ha spinto i vertici del Pd a cercare di far ritirare un ddl su un tema così delicato, quando è noto, come sottolinea Malpezzi, che «nel 2024 gli atti di antisemitismo sono aumentati del 400 per cento»? O quando, per paura, il 75 per cento dei cittadini italiani ebrei evita di indossare simboli religiosi in pubblico? A scatenare la reazione della segretaria e dei suoi fedelissimi, sono stati i commenti di una certa sinistra sui social, e, soprattutto, l’attacco del Manifesto al disegno di legge di Delrio. In un articolo pubblicato ieri dal «quotidiano comunista», l’ex senatore dem Roberto Della Seta, che con Schlein ha un ottimo rapporto, stigmatizzava quella proposta e concludeva così: «Sarebbe bene che il ddl Delrio torni il più rapidamente possibile nel cassetto». La segretaria ha così deciso di agire. Anche perché nel frattempo arrivavano pure le critiche degli alleati, come Angelo Bonelli: «È un ddl sconcertante, spero sia ritirato», auspicava il portavoce verde. La segretaria non intende alienarsi il mondo della sinistra propal, come dimostra la sua prudenza su Francesca Albanese, di cui evita accuratamente di commentare certe uscite. Perciò alla fine, dopo il pressing sotterraneo, Boccia è uscito allo scoperto e ha preso le distanze da Delrio. D’altra parte, ormai il clima nel Pd è questo. Come testimoniano le parole di due giorni fa di Beppe Provenzano nei confronti di Piero Fassino, «reo» di aver detto, in un collegamento dalla Knesset, che Israele è una democrazia. Pronta la replica del responsabile Esteri dem: «Quella non era una missione del Pd». Una replica molto simile, nel tono e nei contenuti, alla precisazione di Boccia che ha disconosciuto il ddl Delrio. Pina Picierno da Bruxelles difende invece quella proposta: «Le critiche al ddl dei soliti inquinatori di pozzi sono strumentali e sanno di giustificazionismo e ipocrisia». Le critiche cui si riferisce la vice presidente del Parlamento europeo sono quelle di chi accusa il ddl di creare nuove fattispecie di reati. Ma Malpezzi precisa: «Non ci sono sanzioni né nuovi reati. Solo la volontà di garantire ai cittadini italiani di professare e manifestare tutti liberamente la propria fede».