"La politica estera è sempre politica interna"
Riotta e l’escalation dei toni: “Così nacque il terrorismo. In Italia Voltaire è morto, da noi vale solo: se sei mio amico sei bravo, se non lo sei, no”
di HaKol - 18 Settembre 2025 alle 08:23
Gianni Riotta, giornalista e saggista, è stato direttore del Tg1 ed è oggi editorialista di Repubblica. Autore di libri su politica, media e società, ha insegnato in prestigiose università in Italia e all’estero.
Oggi viviamo in un clima sempre più teso. C’è una escalation verbale. Una polarizzazione di posizioni che rischia di diventare radicalizzazione: si alzano sempre più i toni e adesso si arriva alla violenza fisica. Un’escalation inevitabile?
«C’è soprattutto, grazie a Dio per ora, una radicalizzazione di toni, ma è già estrema. Nel senso che l’altro giorno è venuto a Roma o in Italia Ehud Olmert, l’ex primo ministro israeliano, e un gruppo di dimostranti filo-palestinesi lo ha affrontato e contestato. Se però si ascoltano le parole di Olmert, parlava di immediata cessazione delle ostilità a Gaza, piano per la ricostruzione di Gaza con forza multinazionale di pace e di interdizione, due popoli, due Stati… Esattamente le stesse cose che dicevano i suoi contestatori».
Un paradosso: contestavano chi la pensava come loro. Come lo spieghi?
«Succede sempre più spesso. In rete e in piazza: si contesta anche chi la pensa come te. Perché? Perché viviamo nell’epoca della politica avatar».
Cosa intendi per “politica avatar”?
«Vuol dire che non si ragiona sulla profondità di una linea politica, su una posizione politica, ma divento un avatar, quindi recito pregiudizialmente sempre la stessa posizione. Non si torna agli anni Settanta, alle ideologie, ma si fa la politica degli avatar».
Nelle università, tra occupazioni e manifestazioni sempre più movimentate, c’è un po’ di clima degli anni Settanta, però. Martedì hanno picchiato un professore a Pisa, una cosa che non succedeva da tempo…
«Ricordo che i professori che venivano contestati durante gli anni di Piombo spesso non avevano neanche la solidarietà degli altri colleghi. E ancora adesso ci si dimentica per esempio di un gruppo come Lotta Continua che era sempre intento a raccogliere firme contro questo, contro quello con i suoi maggiori dirigenti, è poi stato il primo gruppo ad avviare la violenza politica in Italia. Non molti ricordano che il primo mostro del terrorismo di sinistra lo fa Lotta Continua, due anni prima delle Brigate Rosse, proprio come conseguenza delle battaglie iniziate nelle aule universitarie».
La contestazione universitaria sfociò poi in eversione armata. Anche in quel caso, il collante fu l’indignazione iniziale per le guerre nel mondo…
«Sì, nelle università anche il movimento di contestazione, che poi nelle sue frange estreme sfociò nella lotta armata e nell’eversione, nasceva da istanze internazionali: il Vietnam, per esempio. Il taglio decisivo, per quanto riguarda la storia delle Brigate Rosse, è quello di Rossana Rossanda, l’“Album di famiglia”. Abbiamo ormai una cospicua bibliografia: Luzzatto, Curcio, le memorie dei brigatisti. Non c’è dubbio che le Brigate Rosse nascessero dalla cultura del dissenso cattolico, dall’Università di Trento, dall’Abbé Pierre, e dalla subcultura di frange ai margini del Partito comunista, dalla Fgci. Questo non è più in discussione. Così come il terrorismo neofascista nasceva dalla Repubblica di Salò, dal Movimento sociale italiano e dalle connessioni con i servizi segreti della Guerra fredda».
Dunque politica estera e politica interna si intrecciano. È sempre stato così?
«Io per anni, da giornalista e direttore, ho discusso con i colleghi: “dobbiamo dare più spazio alla politica estera o a quella interna?”. Risposta: badate che la politica estera è politica interna, non c’è differenza. Ho sentito con piacere che la Premier Giorgia Meloni qualche tempo fa ha detto che la politica estera è politica interna. Ha perfettamente ragione. Se Putin invade l’Ucraina è politica interna. Se Trump mette i dazi sulle importazioni europee è politica interna. Se decide che gli studenti italiani non vanno più a studiare in America, è politica interna. La politica estera è sempre politica interna».
Oggi le tensioni internazionali si riflettono nelle divisioni italiane?
«Sono la vera divisione. L’unica frattura nel centrodestra riguarda la politica estera: Salvini va dall’ambasciatore russo, dentro Forza Italia ci sono suggestioni filoputiniane, in Fratelli d’Italia qualche voce ricorda vecchi antiamericanismi. A sinistra è ancora più radicale: c’è un fortissimo antiamericanismo nei 5 Stelle, con però Conte abbastanza filo-Trump. Un fortissimo sentimento anti Israele e anti Usa nella sinistra radicale. Un Partito democratico spaccato ad esempio sul riarmo voluto da von der Leyen».
Sulle grandi questioni globali auspicheresti una proposta condivisa governo-opposizione?
«Sì. Non come dito nell’occhio a Meloni, ma come proposta nazionale. La politica deve ritrovare la sua capacità di mediazione, di costruzione di consensi, non di spaccature. Ritrovare L’arte della mediazione».
Intanto Dario Franceschini sostiene che non serve più il consenso di massa, posto che votano in pochi, ma candidati radicali che coinvolgano di più la base. Condividi questa sua idea?
«La sinistra in Italia ha vinto solo due volte, con Prodi: un democristiano, centrista, cattolico. Ogni volta che ha provato con candidati radicali ha perso. Io correggerei il discorso di Franceschini con l’esempio di Robert Kennedy nel 1968: campagna riformista nei contenuti e populista nei toni. In Italia lo ha fatto Matteo Renzi da rottamatore: riformista nel merito ma un po’ populista nel tono, ed è arrivato al 41%. Oggi servirebbe qualcosa del genere».
Quindi il rischio non è solo la radicalizzazione, ma la perdita di un’agenda seria?
«Esatto. Questo Paese, al di là della narrazione ufficiale, presenta criticità: produzione industriale in calo, salari bassi, niente innovazione da 25 anni, scolarità ridotta, fuga dalle facoltà scientifiche. Qui le opposizioni dovrebbero attaccare il governo, non urlando “sta arrivando il fascismo”. Altrimenti puoi forse eccitare la base, ma non tornerai a governare».
C’è oggi il rischio che la tensione degeneri di nuovo in violenza?
«Fare previsioni è assurdo. Se l’attentatore Crooks avesse ucciso Trump, l’America sarebbe esplosa in guerra civile. Da allora abbiamo visto omicidi di congressman, tentativi di rapimento, attentati, la morte di Kirk. Anche in Italia non sappiamo come possa precipitare. Ma la lezione resta: bisogna essere contro l’intolleranza, sempre. Io protesterei se buttassero fuori un giornalista anche di un giornale che mi attacca. La tolleranza è libertà per chi non è d’accordo con te. In Italia invece Voltaire è morto: la frase “darei la vita perché tu possa esprimerti” non c’è mai stata. Da noi vale solo: se sei mio amico sei bravo, se non lo sei, no».