Il paradosso
Shoah, la Memoria mutilata: il ricordo pubblico dell’Olocausto è diventato un rito vuoto, viene sottovalutato il riemergere dell’antisemitismo
di HaKol - 19 Novembre 2025 alle 13:12
C’è un paradosso che attraversa la cultura europea del dopoguerra: quanto più la Shoah è diventata un evento pubblico, tanto meno è stata compresa nella sua verità storica. A dispetto della sua documentazione straordinaria, il genocidio degli ebrei d’Europa non trovò, per anni, un ascolto autentico. I testimoni parlavano, ma il mondo che li circondava non era disposto a udire ciò che avevano da dire. Non si trattò soltanto di rimozione; fu un’esigenza sociale più profonda, legata al bisogno di sottrarsi alla responsabilità di un crollo morale troppo recente, troppo condiviso per essere nominato senza mettere in discussione l’intera civiltà europea.
Quando la memoria entrò finalmente nello spazio pubblico, vi entrò sotto forma di rito. La Giornata della Memoria, le cerimonie civili, la codificazione del nazismo come “male assoluto” costruirono una liturgia che restituiva alla società un’immagine rassicurante di sé. La condanna del nazismo isolava il male in un’epoca e in un regime specifici, lasciando intatta la continuità dell’antisemitismo europeo, che quel regime non aveva inventato ma radicalizzato fino all’estremo. La Shoah, in questa ricodifica, smetteva di essere l’esito storico di una tradizione antiebraica millenaria e diventava un paradigma etico del male in astratto.
Questa trasformazione, solo apparentemente inclusiva, produsse un secondo paradosso: universalizzando la Shoah, si rendeva invisibile il soggetto storico dello sterminio. Gli ebrei scomparivano dalla narrazione proprio mentre la memoria veniva celebrata. Il male veniva dissociato dalle strutture sociali e istituzionali che lo resero possibile; la responsabilità collettiva veniva assorbita in un unico atto di ripudio del nazismo. Il risultato era una memoria moralmente impeccabile ma politicamente sterile: un contenitore edificante incapace di interrogare davvero le condizioni – culturali, burocratiche, amministrative – che avevano reso possibili esclusione, persecuzione, sterminio.
L’effetto di questa neutralizzazione si vede con particolare chiarezza nel racconto del dopoguerra. Nella versione addomesticata che domina ancora oggi, il 1945 segna la fine del male. Eppure i documenti raccontano un’altra storia: sopravvissuti ricondotti in spazi di segregazione, amministrazioni incapaci di distinguere tra vittime e carnefici, ostilità diffuse che continuavano a colpire gli ebrei proprio nel momento in cui l’Europa proclamava di aver fatto i conti con la propria storia. La memoria, ridotta a simbolo, non riesce a misurarsi con questa continuità imbarazzante.
Da questa rimozione doppia discende un’incapacità – oggi drammaticamente visibile – di riconoscere l’antisemitismo contemporaneo. Le logiche di esclusione riemergono perché sono state tenute fuori dal campo visivo della memoria pubblica. Quando la Shoah non è più interpretata come una tappa di un antisemitismo secolare, ma come l’epifania astratta del male, qualunque ostilità verso gli ebrei diventa culturalmente pensabile, purché travestita da giudizio politico o da posizione morale. È qui che il discorso antisionista ha trovato la sua zona di comfort: ha potuto presentarsi come critica legittima allo Stato d’Israele mentre recuperava, in forme riformulate, il vecchio repertorio antiebraico. La distanza simbolica creata dalla memoria rituale ha infatti reso possibile che gli ebrei – oggi indicati come cittadini di un Paese, come soggetti politici, come entità collettiva – potessero essere nuovamente percepiti come “altro”, e dunque attaccabili.
Riprendere la memoria significa dunque sottrarla alla retorica dell’innocenza e restituirle la sua funzione critica. Significa riconoscere che la Shoah non fu un incidente storico, ma il punto di convergenza di un antisemitismo che ha attraversato culture, istituzioni e secoli. Significa ammettere che il 1945 non chiuse la storia dell’odio; che il dopoguerra non fu un risveglio morale, ma spesso una riorganizzazione dell’indifferenza; che le ostilità di oggi non costituiscono una deviazione, ma la riemersione di ciò che la memoria rituale ha oscurato. Non si tratta di attribuire colpe ereditarie. Si tratta di abbandonare un dispositivo di autoassoluzione collettiva che ha trasformato il ricordo in un esercizio consolatorio. Solo una memoria restituita alla sua complessità – e dunque alla sua specificità antiebraica – può tornare a essere uno strumento di verità. Il resto è celebrazione, non comprensione. Ed è proprio nell’interstizio tra celebrazione e rimozione che l’odio trova, ancora una volta, il suo spazio.