Sweida, settembre 2025: la pulizia etnica che nessuno vuole vedere

17 Settembre 2025 alle 14:26

A metà settembre 2025, la provincia siriana di Sweida resta sospesa su un filo sottile tra cessate il fuoco e catastrofe. La tregua raggiunta dopo l’esplosione di violenza settaria dello scorso luglio regge a fatica: gli scontri si sono attenuati, ma continuano violazioni armate, rapimenti e intimidazioni. Le forze in campo – milizie beduine sunnite, gruppi armati drusi e l’esercito di Damasco, oggi sotto il controllo del nuovo regime di Ahmed al-Sharaa (ex leader jihadista noto come al-Jolani) – mantengono una presenza instabile e ostile.

La crisi umanitaria è gravissima. Secondo l’ONU, oltre 184.000 persone sono state sfollate: un terzo della popolazione dell’intera provincia. Molti villaggi restano senza elettricità, acqua potabile o accesso ai servizi medici. Le immagini satellitari e i video circolati negli ultimi due mesi mostrano ospedali devastati, case in fiamme, corpi mutilati abbandonati per strada. Un’intera comunità – quella drusa – è stata presa di mira in quanto tale.

L’epicentro della tragedia risale alla settimana tra il 13 e il 20 luglio. Secondo l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani, oltre 1.300 persone sono state uccise in quei giorni, inclusi più di 500 civili drusi. I racconti delle vittime parlano di esecuzioni sommarie, stupri, torture, profanazioni di siti religiosi. In un caso documentato da più fonti, un anziano sceicco druso è stato umiliato e poi ucciso dopo che gli sono stati rasati i baffi – gesto considerato sacrilego.

Il governo siriano ha annunciato a settembre la creazione di comitati d’inchiesta e l’arresto di membri dei ministeri della Difesa e degli Interni per “abusi”. Ma le accuse di impunità sistemica non si fermano. Amnesty International, in un rapporto pubblicato il 2 settembre, parla di “esecuzioni extragiudiziali” da parte delle forze governative e delle milizie affiliate. Le stesse denunce sono arrivate dall’ONU e da Human Rights Watch.

In Israele, la risposta è stata decisa. Dopo i raid militari di luglio su Damasco e Daraa il ministro della Difesa Yoav Gallant ha promesso un’espansione degli aiuti umanitari. Il premier Netanyahu ha dichiarato che Israele non resterà in silenzio di fronte a una nuova pulizia etnica alle sue porte.

La voce più forte, però, è stata quella dello sheikh Muwafaq Tarif, guida spirituale dei drusi israeliani. In un’intervista del 17 luglio ha paragonato gli eventi di Sweida all’Olocausto. Ha parlato di bambini violentati davanti ai genitori, donne bruciate vive nei luoghi sacri, infermiere torturate e uccise insieme ai pazienti. “È lo stesso odio che abbiamo visto a Gaza, sono le stesse mani. Chi non vuole vedere, ha scelto di non guardare”.

A settembre, Tarif ha incontrato i vertici israeliani, poi è volato a Bruxelles per chiedere indagini internazionali. “Senza l’intervento israeliano – ha detto – i drusi sarebbero stati sterminati. E l’Europa avrebbe voltato lo sguardo, ancora una volta”.

Sweida è oggi un campo di prova per la credibilità del diritto internazionale. Una comunità religiosa storicamente pacifica, non allineata e spesso ignorata, sta pagando il prezzo di un disinteresse geopolitico che ha il sapore dell’abbandono.

Le prove ci sono. I crimini sono stati documentati. I numeri parlano da soli.

Quello che manca, ancora una volta, è la volontà di agire. O almeno, di raccontare la verità.

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