Tawfiq Abu Naim, l’erede silenzioso di Sinwar

di Paolo Crucianelli - 7 Novembre 2025 alle 11:25

Spietato, calcolatore e figlio diretto della prima generazione di Hamas. È Tawfiq Abu Naim, 63 anni, originario del campo profughi di al-Bureij, secondo molti analisti il candidato naturale a prendere il posto di Yahya Sinwar, eliminato dall’IDF l’anno scorso. Il suo nome ricorre sempre più spesso nei rapporti dell’intelligence: uno dei pochi uomini in grado di ricostruire l’ordine interno del movimento dopo la guerra.

Di origini beduine, ha passato tutta la vita dentro Hamas. Entrò nei Fratelli Musulmani nel 1983, allievo diretto dello sceicco Ahmed Yassin e compagno di studi all’Università Islamica di Gaza di Sinwar e Rawhi Mushtaha. Con loro creò al-Majd, il primo apparato di sicurezza di Hamas, incaricato di eliminare i “collaboratori” palestinesi. Arrestato nel 1989 e condannato all’ergastolo per omicidio, in carcere imparò l’ebraico, divenne leader dei detenuti e legò ancor più con Sinwar. Nel 2011 fu liberato nell’ambito dell’accordo per Gilad Shalit, il soldato israeliano rapito nel 2006 e liberato nel 2011 in cambio di 1.027 prigionieri. Da allora la sua ascesa è stata costante.

Tornato a Gaza, ottenne vari incarichi amministrativi e, sotto la guida di Sinwar, trasformò al-Majd nel più potente apparato di sicurezza interna della Striscia. A lui furono affidati polizia, intelligence e sicurezza generale: un sistema che controllava tutto — proteste, stampa, clan rivali — con il pugno di ferro. “Mi rapirono e mi torturarono per cinque giorni. Era un ordine dei vertici di Hamas, un ordine di Abu Naim”, ha raccontato un giornalista poi fuggito all’estero. Abu Naim divenne così il garante del controllo assoluto su Gaza.

Nel 2021 lasciò la direzione della sicurezza per candidarsi alle elezioni legislative palestinesi in Cisgiordania — mai celebrate — e si avvicinò al Consiglio politico di Hamas. In parallelo tornò alla guida della fondazione Wa’ad, che gestisce i fondi per i prigionieri e le loro famiglie.

Dopo il 7 ottobre, Abu Naim è sparito. Nessuna intervista, nessuna apparizione. Ma i suoi uomini — quelli che un tempo costituivano la sua rete di sicurezza — sono tornati al centro dell’azione.

Durante la guerra, Israele ha eliminato più di 30 comandanti e oltre 700 uomini chiave degli apparati interni di Hamas. Ma non li ha distrutti. Il sistema di sicurezza interna, che era stimato in 10.000 agenti, è in parte sopravvissuto, e oggi rappresenta il vero nucleo del potere rimasto nella Striscia. Secondo fonti palestinesi, Abu Naim sarebbe stato richiamato a riorganizzare questi apparati per garantire l’ordine post-bellico. Con la leadership decapitata e Khalil al-Hayya, attuale leader politico di Hamas, anziano e ridotto a figura poco più che simbolica, è lui il candidato più autorevole per il comando effettivo. I suoi contatti con Turchia e Qatar, eredità dei tempi dei Fratelli Musulmani, lo rendono l’interlocutore naturale degli sponsor esterni di Hamas.

Negli ultimi giorni, però, la Striscia è scossa da scontri tra miliziani e clan locali. Nel quartiere di Sabra, Hamas ha affrontato il clan Durmush, accusato di saccheggi e collaborazione con “elementi stranieri”. Altri gruppi armati, come quelli di Ashraf al-Mansi, Hossam al-Astal e Yasser Abu Shabab, rivendicano il controllo di alcune zone e accusano Hamas di “terrorismo interno”. “Gaza non appartiene a una fazione,” ha detto al-Astal. “Noi la restituiremo alla vita.”

Il quadro che emerge è quello di un movimento frammentato, in cui il vuoto di potere sta già sfociando in una guerra civile sanguinaria. Tutto questo accade mentre si prepara, tra mille difficoltà, la seconda fase del piano Trump per Gaza, che prevede il dispiegamento di forze internazionali incaricate di far rispettare il cessate il fuoco. Quel giorno sarà il banco di prova per Abu Naim: riuscirà a ricostruire un ordine interno e riaffermare il dominio di Hamas o sarà travolto da un mosaico di fazioni armate più determinate di lui? Oppure potrebbe voler tentare di far saltare l’accordo. Alcuni analisti suggeriscono che potrebbe esserci lui dietro gli attacchi alle postazioni dell’esercito israeliano, che hanno causato la morte di due soldati, e che stanno mettendo a rischio la tregua.

Gli israeliani lo sanno bene: è l’ultimo dei “discepoli di Yassin”, pragmatico, spietato, capace di passare dal pulpito della moschea alla cella di tortura con la stessa freddezza. Chiunque voglia governare Gaza, oggi, dovrà fare i conti con lui. Questo però potrebbe anche voler dire che il suo destino sia segnato.

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