Le Ragioni di Israele
The Road to recovery: la strada per la pace un chilometro alla volta
di HaKol - 25 Settembre 2025 alle 15:20
Nonostante la crescita delle violenze in Medio Oriente abbia consolidato pregiudizi e odio, qualcuno crede che la solidarietà possa eradicare l’idea stessa di nemico. Nel 1993, il fratello di Yuval Roth fu ucciso da un miliziano di Hamas. Yuval si unì poi a Parents Circle, che dal 1995 riunisce familiari israeliani e palestinesi di vittime del conflitto. Viene descritta da Colum McCann in Apeirogon. Nel 2006 un membro palestinese gli chiese il favore di portare il fratello dalla frontiera a un ospedale di Haifa per un cure oncologiche. “Da allora, tutto è cresciuto come una palla di neve”, ricorda Roth. Coinvolse anche familiari e amici. Nel 2010 una donazione di Leonard Cohen permise di strutturare questi aiuti sporadici, fondare l’associazione The Road to Recovery, “La Via per la Guarigione”, e moltiplicare le attività.
Roth continua come volontario ma l’organizzazione è ora diretta da Yael Noy, che iniziò dieci anni fa. Dopo alcuni mesi Roth le disse che avevano bisogno di un coordinatore e le offrì il posto, “Accettai d’istinto, ancor prima di sapere bene cosa implicasse”. L’impegno principale continua ad essere il trasporto di pazienti palestinesi verso ospedali israeliani. L’Autorità Palestinese paga per trattamenti e cure non disponibili localmente ma non per il costo del viaggio dalla frontiera che per molti sarebbe proibitivo. Prima del 7 ottobre 2023 era coinvolta anche la popolazione di Gaza, nonostante l’occupazione di Hamas. Poi cambiò tutto. Quell’attacco colpì anche l’associazione e la famiglia di Noy: “Il 7 ottobre, anche i miei genitori sono stati attaccati nel kibbutz in cui vivono ma si salvarono. Prima mio padre guidava per noi due volte a settimana ma ha smesso. Quel giorno furono assassinati da Hamas cinque nostri volontari. Altri due furono rapiti e poi assassinati. Ne sono tornati solo i corpi”. Entrambi decisero di continuare il loro impegno. Roth è convinto che “se c’è una speranza nella regione, è questo tipo di attività, anche se comprendo chi si sente ferito, come se fossimo stati attaccati dalle persone che cercavamo di aiutare”. Per Noy “questo è il periodo più buio che abbia mai vissuto ma andiamo avanti. Siamo come una piccolissima candela che fa luce in una grande oscurità”.
Da quel giorno da Gaza non si può più uscire e dalla Cisgiordania si entra in Israele solo per ricevere cure mediche. C’è stata una notevole riduzione in volontari e contributi ma The Road to Recovery conta ancora su 1.400 volontari di cui 900 guidano almeno una volta l’anno e alcuni ogni giorno. Usano i propri veicoli e viene rimborsato il costo del carburante. In ogni viaggio si trasportano due pazienti con i loro accompagnatori. A Jenin, Nablus e Hebron hanno tre collaboratrici palestinesi, che raccolgono le richieste di aiuto e inviano la lista di chi andare a prendere alla frontiera. Vengono fatti fra i 35 e i 50 viaggi al giorno, erano 60-70 prima dell’ottobre 2023. Un problema è che i volontari, principalmente ebrei e cristiani, non parlano arabo, mentre i pazienti e le loro famiglie spesso non parlano né ebraico né inglese. Per Noy peró “il rapporto non si sviluppa solo usando le parole, ma attraverso uno sguardo e un sorriso. La nostra missione è di far sciogliere le paure reciproche. Quando sei in macchina insieme non fai cessare le guerre, ma si crea un’atmosfera diversa, senza timori”.
Come uscire dal conflitto? Le soluzioni gridate nelle nostre strade o discusse nei Palazzi qui non sembrano così scontate. Roth non vede “la volontà di una soluzione da parte del governo israeliano. Abbiamo bisogno di leader che si vogliano sedere insieme attorno a un tavolo con un sincero desiderio di trovare una soluzione.” In tutto questo, “Hamas non è un partner per arrivare alla pace. Lo avrei detto anche prima del 7 ottobre”. Crede che invece l’Autorità Palestinese voglia il dialogo con Israele, perché comprende che non c’è altra via. Hanno anche invitato The Road to Recovery ad alcuni eventi. “In questo momento penso che la soluzione non sia né quella di uno stato unitario né di due stati separati. Si potrebbe forse arrivare a una qualche forma di confederazione come quella svizzera”.
“L’Autorità Palestinese da sola non può fare molto. La chiave della soluzione è nelle mani del Paese più forte. Non sarà facile ma la buona volontà può risolvere tutto”. Lo pensa anche Noy: “A Gaza, dove ho lavorato, conosco ancora tante persone. Non li vediamo protestare contro Hamas, ma verrebbero uccisi anche solo se esprimessero una critica al telefono. È negli stati democratici che abbiamo la responsabilità di adoperarci per trovare una soluzione”. Concordano. Probabilmente la fine del conflitto non è vicina “ma c’è bisogno di porre fine allo spargimento di sangue, sedersi insieme e discutere per arrivare alla pace”.