La strategia
Verso nuovi insediamenti in Cisgiordania, lo Stato ebraico tra sicurezza e convivenza
di Iuri Maria Prado - 21 Agosto 2025 alle 08:40
Non è un caso che i mezzi di informazione si siano concentrati sulle parole di Bezalel Smotrich, il ministro delle Finanze dello Stato ebraico, nel dare la notizia sull’ipotesi di un insediamento di alcune migliaia di unità abitative nella cosiddetta Cisgiordania. Era infatti molto facile attaccarsi alle dichiarazioni di quel ministro oltranzista – secondo cui l’iniziativa chiude il dossier su un possibile Stato palestinese – per accantonare ogni discussione sull’enorme tabù che scherma la realtà politica e giuridica di quella regione.
L’uscita discutibile di Smotrich – fortemente discussa anche in Israele – non elimina il paradosso del principio, vigente solo per lo Stato ebraico, per cui un Paese dovrebbe impedire che al proprio interno esistano e siano mantenute zone libere dalla presenza dei propri cittadini. Un principio, cioè, per cui Israele dovrebbe adoperarsi affinché all’interno dei propri confini siano garantite aree incontaminate di presenza ebraica. Che poi, specificamente, si tratti di una Giudea senza giudei (Giudea e Samaria è il nome proprio della cosiddetta Cisgiordania), trasforma quel principio paradossale in un canovaccio grottesco.
Si faccia attenzione. Un conto è affermare che una soluzione politica per quei territori debba essere cercata e trovata, così com’è un conto ritenere che questa soluzione possa – o persino debba – implicare concessioni e arretramenti israeliani. Tutt’altro conto è spacciare l’intangibilità di quel principio stortissimo, per il quale un qualsiasi insediamento ebraico attenterebbe non già – si badi – a ragioni di opportunità politica, bensì a un quadro di diritto che legittimamente imporrebbe a Israele di tenere ogni centimetro di quella terra libero di impurità ebraiche.
Sono due piani del discorso molto diversi. Uno non meno importante dell’altro, ma da tenere distintissimi. Mentre, normalmente, uno è sacrificato in favore dell’altro. Ed è sacrificato perché “l’affaire West Bank” ripropone e rende attuale un pregiudizio più generale, quello che lambisce l’esistenza stessa di Israele. Perché è vero che, per alcuni oltranzisti, l’affermazione della sovranità israeliana sulla Cisgiordania sarebbe rivolta a impedire l’impianto di uno Stato palestinese. Ma non è meno vero che per buona parte della società palestinese quella regione non è una ridotta da riscattare in indipendenza, ma un avamposto da cui muovere per la “riconquista” di una terra che quella società vanta come propria, sottratta ingiustamente ai palestinesi “cacciati”. E questa non è una percezione solo palestinese: questa è una rappresentazione – ovviamente falsa, completamente anti-giuridica e sostanzialmente genocidiaria – frutto del convincimento di molti. Molti non sempre in malafede, peraltro, perché una pluridecennale retorica orientata in quel modo inevitabilmente corrompe la visione di chi non ha la possibilità o la voglia di documentarsi.
Al di là – anzi, prima – delle parole di quel ministro c’è la realtà di un Paese, Israele, che per poter ambire a un po’ di sicurezza “deve” ritirarsi da quei territori ma che, simultaneamente, non può farlo perché se lo facesse attenterebbe alla propria sicurezza. Tremila abitazioni in più non impediscono la nascita di nessuno Stato palestinese: almeno se deve nascere “democratico e in pace con il vicino”, secondo i vagheggiamenti di alcuni. Se invece, secondo le pretese delle Nazioni Unite, lo Stato palestinese deve nascere anche a dispetto delle ragioni di sicurezza di Israele (questo ha messo nero su bianco la Corte internazionale di Giustizia), allora è più difficile contrastare i proponimenti di qualche ministro fuori controllo.